Ero stata cresciuta dai quattro pastori tedeschi del nonno, mentre sullo sfondo si affannava il fantasma bonario di mio padre; invece di accudirmi, mia madre aveva sempre preferito leggere il settimanale tedesco, mi reputava una piattola perché priva, stante la giovanissima età, degli strumenti intellettuali che avrebbero consentito una conversazione alta. Ma una volta venuta al mondo, avevo voluto vivere anch'io, cosa che avevo fatto. (p. 74)
In questi anni in cui l'editoria è sommersa dai memoir e dal recupero delle proprie radici, trovare una storia autenticamente originale è raro. Eppure succede, specialmente se a scriverla è una delle penne più inventive e personali della letteratura contemporanea: Rosa Matteucci. L'autrice è infatti in grado di alternare pagine profonde, riflessive al punto da risultare quasi fuori dal tempo, persino filosofiche a osservazioni ironiche, spiazzanti proprio per la giustapposizione a pensieri di tutt'altro genere.
Nel suo romanzo Cartagloria, al centro troviamo il padre, figura decisamente inafferrabile, di cui restano ben chiari l'eleganza ma anche la propensione fin troppo spiccata al gioco d'azzardo, alle spese eccessive, senza badare al denaro. È lui, con vizi e idiosincrasie, strambe abitudini e caratteristica visione del mondo, a stagliarsi in più pagine. Diversamente la madre sparisce facilmente dalla scena, immersa com'è nella lettura, disinteressata alla figlia, indifferente alla vita pratica.
E poi c'è la religione: se «fra zero e cinque anni nulla mi distingue dalle donne di famiglia» (p. 19), ovvero la protagonista è stata regolarmente battezzata, poi la piccola Rosa viene esclusa dal Sacramento della Comunione. Ed è proprio con il desiderio di ricevere il corpo di Cristo che questa bambina si presenta nelle prime pagine: mentre lei sta giocando, i suoi coetanei sono in chiesa. E dunque, la protagonista, già molto indipendente, pensa di unirsi al gruppo dei comunicandi, "forzando la mano" alle decisioni della famiglia e al prete. Le cose non andranno come Rosa sperava, e anche questa è l'occasione per sentirsi «esiliata dal consorzio umano» (p. 124).
La storia che racconta Cartagloria è infatti dominata da questo imperante desiderio di trovare il proprio spazio nella società, di far parte di una comunità, con la consapevolezza che saranno ben più le porte chiuse in faccia che quelle aperte. Si crea così un sentimento di inadeguatezza popolato di episodi — alcuni traumatici, altri divertenti — che generano però disagio e la sensazione che «per me non c'era posto da nessuna parte» (p. 57). E anche la chiesa non è la risposta al desiderio di comunità e di appartenenza che la protagonista avverte:
«[...] mi sono sentita fuori luogo, un'intrusa, nel parapiglia delle orazioni, nell'incalzare del botta e risposta, né mi fu di conforto la bellezza negletta del latino studiato al liceo, che riecheggiava nell'oratorio». (p. 124)
Dove la ricerca del proprio posto nel mondo può trovare una risposta rasserenante? Ce lo chiediamo mentre seguiamo l'io narrante in una crescita complessa, attraverso «inani e ridicole peregrinazioni» (p. 64), persino in India o a Lourdes. Tra strane frequentazioni, compresa quella di un frate esorcista, e incontri inattesi, la protagonista racconta di un'inquietudine che le è propria, ma con la capacità di sorriderci sopra, senza mai abbattersi. C'è più uno sguardo talvolta straniato e divertito su quanto le accade, e questa presenza di ironia e di autoironia passa anche attraverso il linguaggio, in una prosa decisamente personale e poco scontata, ma che fa anche omaggi alla storia letteraria, in un romanzo fuori da qualsiasi linea editoriale eppure perfettamente inserito nella produzione della scrittrice.
GMGhioni
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