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Risalire le correnti dell’afasia: ritrovare la voce della propria identità ne “Il silenzio di mio padre” di Doan Bui

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Il silenzio di mio padre
di Doan Bui
Ischìre, maggio 2023

Traduzione di Alice D’Anella

pp. 241
€ 17,50 (cartaceo)


Come si fa a indagare il proprio passato, a ricostruire la propria identità, se le correnti che ci trasportano sono fatte di silenzio? Come si fa a dare un senso alla nostra esistenza, ripercorrere i labirinti della verità, scoprire segreti familiari, condividere gioie, dolori e dubbi se ci avvolge stretto un vuoto silenzioso, che pesa come l’universo sulla nostra memoria? Forse è proprio nel silenzio che va ricercata la voce del nostro passato, del nostro presente, di ciò che verrà.

La vita è fatta di traduzioni, non solo letterali. Traduzioni di esperienze, di gesti abituali, di ricordi che si mescolano e cercano di emergere da un turbinio di rumori che tentano di sovrastarli. Spesso occorre tradurre in parole un silenzio che non si può più sopportare, occorre uscire da quel caos sorprendentemente assordante per ritrovare la propria identità. Ed è esattamente quello che fa Doan Bui nel suo romanzo Il silenzio di mio padre, uscito per la prima volta in Francia nel 2016, ora arrivato nella nostra lingua grazie ad Alice D’Anella.
È arrivato il momento di spogliarmi dall’abito di “figlia di” e indossare quello da giornalista. Devo ritrovare i miei riflessi, documentarmi, interrogare, porre delle domande. Non posso più sottrarmi. Questo libro sarà il ritratto di uno sconosciuto. Sarà il ritratto di mio padre. (p. 55) 
Nel 2005 il padre dell’autrice rimane vittima di un ictus, perdendo la capacità di parola. Ed è proprio nell’impossibilità di un ritorno al dialogo che Bui si rende conto di non sapere praticamente nulla della storia di suo padre, e nemmeno di quella della sua famiglia. Decide dunque di immergersi completamente nella storia di suo padre, per intraprendere un viaggio meticoloso, utilizzando le infallibili armi del suo lavoro di giornalista, alla scoperta delle sue radici, tra il profumo nauseabondo del durian e quello rassicurante e ancestrale dell’incenso, portale evocativo e di connessione con i propri antenati e la propria terra, quella che i suoi genitori furono costretti ad abbandonare sperando di trovare un futuro migliore per sé e per i loro figli, certi però che i profumi e i colori del Vietnam, della loro casa, non li avrebbero mai abbandonati.

Questa ricerca identitaria si snoda lungo brevi capitoli, in cui Bui racconta la drammatica storia della sua famiglia, scappata dalla guerra in Vietnam:
Perché in Vietnam tutto era ormai distrutto. […] Le brigate giunsero nella casa Saigon e obbligarono mia nonna a bruciare tutti i libri e lei, nel panico, salì sul tetto per accendere un gran braciere. La luce incandescente dei fuochi si estendeva a perdita d’occhio, la città affogava nell’odore acre del fumo e la cenere dei libri fluttuava nell’aria creando una nuvola appiccicosa che lasciava un fine strato nero sulla pelle. (pp. 187-188)
E ancora la sua adolescenza, lo scontro con la francesità, a volte troppo individualista per una famiglia vietnamita, che nell’abitudine della sua lingua madre non conosce nemmeno il pronome personale “io”. Bui ci racconta di essere stata una bambina “banana”, «gialli all’esterno e bianchi all'interno. È così che chiamano i bambini asiatici nati in Francia, come noi, prodotti originali di questa Repubblica. Non parliamo la lingua dei nostri genitori. Ho dimenticato tutto del vietnamita, di questa lingua madre che mi ha insegnato a pronunciare le prime parole». (p. 75)

Man mano che si addentra nella storia di suo padre, trovando finalmente i fascicoli che lo riguardano, Bui scopre un segreto che la sua famiglia ha sempre taciuto, in quella abitudine tramandata dalla cultura vietnamita per cui certe cose è meglio semplicemente non dirle, ometterle, inghiottirle e lasciarle sedimentare in un punto lontano del corpo, materie viventi che prima o poi, inevitabilmente, riaffiorano.

Questa storia inizia con un viaggio metaforico, quella della ricerca di suo padre, prigioniero di un silenzio cui non si può più domandare molto, e si conclude con un viaggio fisico, in Vietnam; l’intera famiglia insieme.

Doan Bui scrive della sua vita e di suo padre con una dolcezza matura, quella di chi non ha più il tempo per cedere al rimprovero ma solo per la conoscenza e la scoperta di sé, che muove da sentimenti di amore profondo. Scrivendo e scoprendo allontana dalla sua pelle il fastidio che provava nell'assomigliare a suo padre, troppo miope, col naso troppo schiacciato e con gli occhi troppo a mandorla. Probabilmente quel fastidio aveva origine nel non conoscere davvero suo padre e quindi, somigliandogli, di non conoscere nemmeno se stessa. Quella di Bui è una scrittura essenziale ma profonda, che non si perde in eccessi perché prevale l’urgenza della verità.

Grazie a questo libro scopriamo cultura e tradizioni vietnamiti, memorie di guerra, speranze e sogni dei figli della diaspora, e avvertiamo quella fame di conoscenza che serve a tutti noi per sentirci ancorati a noi stessi, per sapere esattamente da dove veniamo e come siamo diventati chi siamo. Un viaggio che inizia da un’afasia e si risolve con le parole delle sue figlie, frutti del futuro, capaci di spezzare quel silenzio:
Prima di farle addormentare, mi metto a raccontare storie del Vietnam e della famiglia di mio padre, loro ascoltano con passione e ogni sera disegnano il paese dei nonni così come se lo immaginano. Le mie figlie hanno saputo spezzare la catena dei segreti. In quest’inchiesta, sono le mie guide. (p. 238)
Libri come Il silenzio di mio padre sono testimonianze importantissime del potere e della potenza della letteratura, come per Thomas, figlio di tramandati silenzi:
Voglio svelarti una cosa. Quand’ero ragazzo ho iniziato a collezionare libri nel cui titolo appariva la parola “uomo” e quando mi chiedono le ragioni di questo mio interesse, evito di rispondere. Eppure, in fondo so bene qual è la risposta. In questi libri ricercavo quell’uomo assente nella mia vita: mio padre. Oggi mi dico che forse l’unico luogo in cui ritroverò questa figura esiste fra le pagine del tuo libro. (p. 218)
Ecco, in questa confessione risiede il significato della letteratura: luogo di scoperta di sé, altare sacro di vivi e di morti, memoria imperitura per chi verrà dopo di noi e saprà conoscersi e conoscerci quando le parole saranno ormai sbiadite dal silenzio del tempo.


Lidia Tecchiati