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La fragilità del divino e del sentimento religioso: «Sacro niente» di Giovanni Bitetto

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Sacro niente
di Giovanni Bitetto
Voland, maggio 2023

pp. 256
€ 18,00 (cartaceo tascabile)

Non bisogna credere che io abbia tutte le risposte, sono qui da anni ma conosco l’essere umano da poco, d’altronde è poco, pochissimo per il tempo che mi attraversa, che esisto in forma di santo. Parlare del prima è difficile, giacché non ci sono frasi che possano spiegarlo, io semplicemente c’ero, e con me c’era tutta la roccia del globo. (p. 51)

In un paesino del sud Italia, accanto a un luogo sacro dove vengono svolti funerali, si erge una statua di Padre Pio. È una comune statua fatta di comune roccia: poteva rimanere parte della montagna da cui proviene o divenire altro – una fontana, la base di un edificio, un ponte – ma la mano dell’essere umano ha trasformato quel preciso ammasso di materia inerte nelle vestigia di un frate da qualche anno elevato a beato. È proprio questa statua la protagonista del nuovo libro di Giovanni Bitetto, classe 1992, che con l’esordio Scavare (Italo Svevo, 2019) ha vinto il premio Premio Opera Prima. La statua di Padre Pio – che è una statua come tante: poteva essere una qualunque delle statue create da mani di artigiano e disseminate nel Meridione italiano ma l’occhio dell’autore ha scelto proprio questa – è testimone involontaria delle confessioni di persone che le si avvicinano per raccontare le proprie storie. È questo il presupposto che dà il la ai racconti che compongono questo libro, che non si può definire un vero e proprio romanzo né una vera e propria raccolta di racconti: è più una forma mista che funziona bene, e che vede al centro il doppio filo conduttore della natura umana e della presenza della statua di Padre Pio.

Soffermarsi troppo sulle singole storie non è necessario. Basti dire che, ai lunghi racconti, vengono affiancati brevi intermezzi che vedono protagonisti dipendenti e professionisti del lutto e della cerimonia: l’autista che conduce la bara al cimitero, il barbiere che dà una sistemata al defunto prima dell’ultima messa, il figlio del proprietario. Sono tutte persone che alla morte hanno ormai fatto il callo e che trattano gli argomenti religiosi come qualsiasi altro mestiere: servono per tirare a campare, anche se s’intuisce che è necessaria una certa discrezione per questo specifico lavoro.

Nei racconti lunghi invece troviamo una umanità diversa. Sono i vivi ad accostarsi alla statua, a girarle intorno come farebbe un bambino con un animale in gabbia da cui si senta al contempo attratto e spaventato. La statua di Padre Pio rappresenta per tutti la santità, il mezzo per raggiungere il divino – come un prete, insomma, solo che il prete può rispondere, mentre la statua no, almeno non nel modo convenzionale – e anche un idolo, in fin dei conti, e infatti scorre sotterranea nelle parole di Bitetto un rimando lontano a quell’idolatria che più volte ha connotato la storia del cristianesimo. Che poi non è un mistero il fatto che tutta la stirpe di santi, beati, angeli ecc. sia stato un modo come un altro – nel cristianesimo di stampo antico e medievale, ma alla fine anche oggi – per soppiantare tutta quell’altra marea, stavolta pagana, di divinità più o meno importanti nello stivale italiano e non solo. Rivolgersi al Beato, o meglio alla sua statua, è un modo che la gente comune ha di avvicinarsi a un Dio che era e resta distante, ineffabile, inconoscibile – e quindi inaccessibile.

A questa statua, a questo beato, si diceva, le persone si accostano per confessare non tanto i propri peccati quanto le proprie vite, che spesso sono vite grette e meschine, piccole, da piccoli uomini e piccole donne. Sono i peccati capitali a connotarle: l’accidia di un padre verso un figlio degenere, la lussuria di una ragazza che dice di cercare l’amore ma trova solo altri corpi in cui perdersi. Solo per citare due storie che restano impresse per la crudeltà dei fatti, anche se in fondo sono storie comuni, quasi banali nella loro semplicità. In fondo la crudeltà è cosa banale perché è cosa umana. Questo sembra dirci la statua di Padre Pio: la vostra crudeltà, il vostro male – che voi ritenete così speciali – sono banali. Non ci sono misteri antropologici, non c’è una teleologia, non c’è neanche una teodicea: il male, umano o divino, è banale. E così come questo male è banale e comune a tutti gli esseri umani – quelli che si confessano e quelli che non lo fanno – allo stesso modo gli idoli di roccia non sono altro che materia inerte, che nulla possono togliere ai loro peccati, perché, per stessa confessione della statua, «io sono di solido marmo, le loro formule non svelano l’animo, non dischiudono niente, se non il dolore canonico, la fede nel potere superiore, i pianti che sanno già di oblio, di guarigione» (p. 15).

Il potere della preghiera, sembra dirci la statua di Padre Pio – e con lei l’autore, Giovanni Bitetto – non sta in un reale ascolto da parte della divinità che, attraverso il «potere superiore», possa intervenire a favore del confessante. Il potere della preghiera sta nella liberazione (nel senso di: esternazione) da un male che è tutto interno all’animo e che, attraverso la parola, fluisce fuori come acqua da una diga. Non c’è nulla di sacro in tutto questo, nulla di divino: come una forma di psicoterapia, la confessione dei propri peccati e del proprio dolore è già un atto che porta a calmierare (a volte a dissipare) il male. Niente di sacro, dunque, o meglio: il sacro niente.

Bitetto porta al lettore un testo complesso, pesante in termini di tematiche affrontate ma anche di aria che si respira fra le sue pagine. Si ride poco, si scherza poco, perché poco c’è da ridere e da scherzare. Al centro di tutto c’è l’essere umano con le proprie debolezze. Al centro di tutto c’è il rapporto con il divino che si svela per quello che è: silenzioso, immobile e fragile come una statua.

David Valentini