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Un monumento funebre per un amore finito: "Mausoleo" di Louise Chennevière

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Mausoleo
di Louise Chennevière
Giulio Perrone Editore, 2022

Traduzione di Gaia Giaccone

pp. 95
€17,00 (cartaceo)


Alla fine di una relazione, le fasi che si attraversano sono quasi sempre le stesse. Il dolore, quasi lo stesso. E le cose rimaste da dire sarebbero ancora molte, ma quasi mai si trova l’occasione o il modo giusto di dirle: Louise Chennevière, ventinovenne che vive tra Parigi e Orange, le ha scritte tutte, magistralmente, in Mausoleo, pubblicato in Italia lo scorso ottobre da Giulio Perrone, nella traduzione di Gaia Giaccone. 
Mausoleo è un libro su una storia d’amore finita, sui resti della quale l’autrice vuole costruire un monumento distruttivo, non commemorativo: 
Mausoleo è un bel titolo, ti va di parlarmene un po’? […] Che avrei potuto dirti? Che quel mausoleo doveva essere il tuo, un monumento fragile che mi ero sforzata di costruire, non per esaltarti, ma per distruggerti, abbattere per sempre la tua immagine e l’amore immenso che avevo provato per te. (p. 12) 
Il libro si apre sulla fine della relazione, e si chiude revocandone l’inizio: nel mezzo, questa storia la intravediamo, in sequenze cinematografiche frammentate che si alternano al racconto della sofferenza e del recupero, succedendosi nelle pagine come devono essersi presentate alla memoria della narratrice, a ondate di malinconia. Ma per quanto la voce narrante dichiari più volte come il manoscritto sia destinato all’amore perduto, le parole che vi si trovano sembrano piuttosto rivolte a sé stessa: Mausoleo è lo spazio che l’autrice si è ricavata – tutto suo, inscalfibile – per elaborare il lutto della fine della relazione e darsi la possibilità di capire cos’è andato storto, cosa si poteva cambiare, come comportarsi meglio, adesso, a due anni di distanza. Scrivere il libro è anche un modo per non lasciarsi morire, per opporsi all’appel du vide creando qualcosa di eterno, l’opera d’arte: 
Il treno si era riempito, il binario si era svuotato, il segnale della partenza risuonava in tutto il mio corpo, mi dilaniava. Allora ero salita, allora non eri venuto. E quanto avrei voluto morire quella mattina. Ma non ero morta, perché ormai da tanto tempo, non ci si butta più sotto i treni, per cose del genere, ormai da tanto tempo non si muore più per amore. (p.44) 
Lo stile di scrittura di Chennevière è nuovo e destabilizzante. Le frasi sono brevi, spesso prive di verbo, la pagina è frammentata da moltissimi punti fermi («Allora ho cercato di. Ho letto. Tutti i grandi romanzi d’amore»); il resto della punteggiatura è collocato in modo spiazzante, una virgola spesso separa due parole che dovrebbero andare insieme, il verbo dal suo soggetto, la preposizione dal suo sostantivo, rendendo la lettura incespicante: «E c’erano troppe ragazze in città perché, un giorno, tu non finissi per stancarti del mio corpo e lasciarlo per, tutti i corpi a venire». 
Si crea così un ritmo che da un lato mima il succedersi confuso dei pensieri, e dall’altro evoca la separazione forzata di due elementi che si cercano di continuo, esattamente come la narratrice e l’uomo che l’ha lasciata. 

La relazione non era una relazione ordinaria, si scopre più avanti nel libro e, benché sia difficile ricostruire una cronologia precisa, si ha la sensazione che il periodo di dolore seguito alla rottura sia enormemente più lungo di quanto la storia stessa non sia durata. La sofferenza è accentuata dalla lucidità che non viene mai meno, né prima né dopo la rottura, e che permette alla narratrice di indovinare dove l’altro stia andando («Allora è per le cose piccole come quella, cose da niente, che si capisce, che si sente, la fine che arriva», p. 56) e di interrogarsi sugli scenari alternativi che avrebbero potuto essere («Credi che potremmo, che avremmo potuto? Credi che per noi sia ancora possibile, amare? O siamo arrivati troppo tardi, troppe deviazioni?», p. 54). 

Infine, ad accompagnare il percorso di ricordo e recupero della narratrice ci sono i luoghi, le città in cui ha vissuto e poi la città, quella in cui ha vissuto il suo amore e che per questo, forse, non è mai stata tanto sua quanto piuttosto loro: 
 «[…] come se. Parlando di lei non parlassi sempre anche un po’ di te, te che non riuscivo a immaginare altrove, se a volte mi capitava di pensare ancora a te era sempre da qualche parte nei bar, nelle vie di quella città. […] questa città che era sempre rimasta come una promessa, un orizzonte, mentre ormai per me non era, altro che un ricordo, una possibilità sotterrata da tempo, un luogo del passato». (p. 42) 
Se nei luoghi ci radichiamo, dai luoghi ci possiamo anche strappare via e ricostruirci altrove: così la vita, vista da una certa distanza, risulterà un patchwork di posti e persone, variamente cuciti insieme. La scrittura, poi, in alcuni casi arriva per spiegare e dare un senso: Louise Chennevière riesce così per davvero a erigere un mausoleo, non solo a quell’amore consumato, ma universalmente a tutte le storie d’amore e di sofferenza che l’umanità – soprattutto la parte femminile – ha vissuto, e vivrà:
«è solo che ho cercato di convivere con tutto questo e convivere con tutto questo, per me, significa scriverlo». (p. 95)


Michela La Grotteria