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Montagna e mistero nell'ultimo romanzo di Matteo Righetto, "La stanza delle mele"

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La stanza delle mele
di Matteo Righetto
Feltrinelli, aprile 2022

pp. 229
€ 18,00 (cartaceo)
€ 11,99 (e-book)


Matteo Righetto è una delle voci contemporanee più note della scrittura di montagna, quella narrazione che trova carne e sostanza nell'ambiente montano, fatto di una natura non sempre benevola, di personaggi rustici, senza fronzoli, di lavoro, di vite dure, dove nulla è mai dato per scontato. Fatta anche di paesaggi indimenticabili, come l'enrosadira, il rosso sfumato di cui si vestono le Dolomiti all'alba, di leggende, miti ancestrali, di camminate nell'aria pura che insegna ad apprezzare la fatica e la solitudine. Autori interessanti che, sulla scia di grandi nomi del passato, come Mario Rigoni Stern, appartengono a quella che si può definire "letteratura di montagna": Mauro Corona, Paolo Cognetti, Marco Albino Ferrari, Luigi Maieron, Marco Preti, Matteo Bertone, anche Franco Faggiani, solo per citarne alcuni. E Matteo Righetto appunto che, con Marco Paolini (vedi alla voce Vajont, per rimanere in tema montagna), qualche anno fa, ha dato vita al libro/film "La pelle dell'orso".
Iniziare "La stanza delle mele" vuol dire quindi apprestarsi a un viaggio nelle terre alte. Siamo tra Arabba e Livinallongo, dalle parti di Colfosco e Corvara (nomi che agli sciatori, come me, fanno pensare a giornate meravigliose di Sellaronda). È l'estate del 1954, lo capiamo dal cenno che si fa a una grande avventura, la conquista italiana del K2 compiuta, il 31 luglio di quell'anno, da Achille Compagnoni e Lino Lacedelli. Giacomo, 11 anni, ha sentito parlare di questo avvenimento memorabile e ci fantastica sopra nelle lunghe ore trascorse nella stanza delle mele, un ripostiglio scuro, sopra la stalla, dove i frutti vengono lasciati a maturare per essere trasformati in sidro.
Non è la prima volta che Giacomo sente chiudersi dietro di sé il portone di legno con tre giri di chiave. Capita spesso che il ragazzino, rimasto, con i due fratelli, orfano dei genitori, venga rinchiuso nella stanza, per punizione, dopo essere stato battuto con un ramo di nocciolo, dal nonno. Un personaggio cattivo, duro, senza l'ombra di un moto d'affetto, che con il nipotino più piccolo crede di avere un conto in sospeso (è convinto infatti che sia frutto di una relazione clandestina della nuora, mentre il marito era disperso in Russia). Nelle lunghe ore in cui è prigioniero nella stanza delle mele, nell'attesa che i lividi delle vergate si facciano meno dolorosi, Giacomo intaglia animali di legno, cervi, orsi, gufi, aquile, marmotte. Chi è cresciuto con i romanzi di Astrid Lindgren non potrà che pensare a Emil, alla falegnameria e alle figurine di legno intagliate. Purtroppo per Giacomo, le analogie si fermano qui. Non c'è spazio per la spensieratezza, per le marachelle, per i giochi da bambino, Giacomo deve lavorare duramente perché la vita in alta montagna si conquista a fatica.

Ma l'avventura, a lungo sognata nelle lunghe ore di solitudine, un giorno gli presenta il proprio volto, nelle sembianze di un uomo impiccato che il piccolo vede durante un temporale da tregenda quando il nonno lo spedisce a forza nel Bosc Negher a riprendere una roncola dimenticata. Colto da terrore, il ragazzino corre a perdifiato verso casa, senza roncola, cosa che gli costerà, già lo sa, una punizione.
Ma la visione dell'uomo penzolante, con il collo piegato, indosso uno scarpone solo, nella luce livida dei lampi, non lo abbandonerà mai più. Da quel momento nulla andrà più per il verso giusto, Giacomo confiderà il segreto agli amichetti del paese che lo riveleranno ai genitori, i quali si presenteranno dal nonno per spingerlo ad avvisare il nipotino di non dire bugie. Anche perché certe leggende, certe visioni, certi segreti non sono materia da rimestare. E il nonno, a mettere in guardia Giacomo, ci penserà a modo suo, con una scarica di legnate che costringeranno il bimbo a rimanere dolorante nella stanza delle mele per più giorni. Tornato, qualche tempo dopo, nel Bosc Negher Giacomo ritroverà uno scarpone abbandonato: la conferma che la sua visione non era fantasticheria.

Con una brusca cesura, nella seconda parte del romanzo, incontriamo, a Venezia, un Giacomo ormai cinquantenne e famoso artista, scultore del legno osannato e riverito,  mentre ancora cerca di fare i conti con quella vicenda che gli ha funestato la vita innescando una serie di conseguenze di cui il lettore viene a conoscenza grazie alla tecnica del flashback. La vecchia visione dell'uomo impiccato non l'ha mai abbandonato, Giacomo sa che nascondeva un segreto e la missione della sua vita diventa proprio quella di scoprirlo, di dare un nome a quell'ombra inquietante... prima di allora non rimetterà più piede nelle sue terre natie. La seconda parte del libro è quindi il racconto incalzante di come quel segreto troverà la via per svelarsi. Interessante il passaggio repentino al personaggio di Giacomo adulto anche per l'effetto spiazzamento che provoca sul lettore, portato ad affezionarsi a quel bimbo biondo tutto nervi e forza di volontà che corre su e giù per le sue montagne. Ritrovarlo, nel giro di un voltar di pagina, adulto e fuori dalla storia in cui lo stavamo immaginando richiede uno sforzo immediato di riposizionamento.

Un romanzo letto d'un fiato, complice l'alone di mistero e la promessa del disvelamento. Nella prima parte la scrittura di Righetto si intinge nel bosco, portandoci le voci di tordi, cicale, gufi, civette, poiane, aquile reali e galli forcelli. In una natura fatta di larici, abeti, carpini, betulle, funghi buoni da mangiare e amanite velenose da cercare per cavarne bevande allucinogene... Un mondo raccontato con una scrittura antica e asciutta, come la gente di montagna, resa ancor più concreta dall'utilizzo di parole dialettali che servono soprattutto a raccontare oggetti che non esistono più. Lo scrittore narra senza indulgenza di una realtà dove la montagna detta legge, dove chi attenta alla sopravvivenza dell'uomo (come le faine che si intrufolano nel pollaio facendo strage di galline) si merita la giusta punizione, un mondo dove i bambini non hanno voce e i preti, massima autorità in terra, possono fare ciò che ritengono sia il meglio. Prima di tutto per se stessi. Un tempo nel quale le leggende e gli spiriti del bosco hanno voce in capitolo ed è meglio non destarli. 
Fatti altri passi si fermò ancora. Alla sua sinistra scorse un fungo dalle dimensioni enormi. Non un fungo qualsiasi, un fonk da le móše. Un'amanita muscaria così grande non l'aveva mai vista. "Dove c'è quel fungo, lì vicino si nasconde o è passato il diavolo...". Il ragazzino tremò per lo sgomento (p. 129)
"La stanza delle mele" è una lettura piacevole e intrigante, anche se il testo, a mio parere, soffre da un lato di una distribuzione non perfettamente equilibrata dei pesi narrativi (il numero di pagine dedicato alla morte e al funerale del nonno è un poco sproporzionato rispetto al resto della narrazione) e dall'altro di un legame troppo debole tra le parti: il lettore si attende che il disvelamento del segreto (condito forse da qualche eccesso di inverosimiglianza) porti a spiegare alcuni perché (perché il nonno è così "spietato"? perché tutti gli abitanti del paese se la prendono tanto per il racconto di un bambino?), quando in realtà il mistero si apre e chiude in se stesso. Senza forti legami con la prima parte del testo. Forse avrebbe aiutato maggiormente una connessione interletteraria più pervasiva tra le due parti, con richiami narrativi a elementi che invece vengono un po' tralasciati. 
Rimane comunque un libro in cui la voce della montagna riecheggia potente, un racconto che getta luce su vicende coperte dalla Storia e una lettura che conduce il lettore a rotta di collo verso l'ultima pagina.
Sabrina Miglio