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#IlSalotto - La "città dei libri", la scrittura, lo «spazio condiviso fra autore e lettore»: intervista a Dominique Fortier

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Dominique Fortier
E tutt'intorno al mare
AlterEgo, 2021

Traduzione di Camilla Diez

pp. 180
€ 16
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Il 23 settembre è arrivato in libreria, sempre per AlterEgo Edizioni, un nuovo testo di Dominique Fortier, l'autrice dell'acclamato Le città di carta: E tutt'intorno il mare è ancora una volta un libro che rifugge le etichette, uno scrigno di storie, un canto d'amore per i libri e i loro custodi ossia i lettori. Intrecciando due storie distanti nel tempo e nello spazio, Fortier riesce nuovamente a incantare i lettori con la sua prosa intima, piena di immagini, resa dalla traduzione eccellente di Camilla Diez che si misura con un testo ricco di spunti, rimandi, visioni. E, ancora, intreccia sapientemente invenzione letteraria e ricerca storica, racconto autobiografico e finzione. Riuscendo nell'intento più importante di ogni buon libro: instaurare un dialogo con il lettore.
Per l'occasione la nostra Debora Lambruschini ha fatto una chiacchierata con l'autrice, da cui sono emerse riflessioni importanti sulla scrittura, il rapporto con i lettori, l'importanza delle storie.


Dopo la pubblicazione di Città di carta, arriva in Italia per AlterEgo edizioni E tutt’intorno il mare, storia evocativa che mischia invenzione letteraria e riflessioni personali: da dove nasce la scelta di tale modalità narrativa e quanto conta per lei ai fini della storia che vuole raccontare? Le due storie che corrono parallele sono all’apparenza molto distanti fra loro, non solo dal punto di vista temporale: la vicenda di Eloi e dell’abbazia di Mont Saint Michel denominata la "città dei libri", le sue considerazioni sulla scrittura dopo la maternità e le molte ricerche per il libro. Dove si incontrano le due anime di questo libro? 
Dominique Fortier
Le città di carta
Alter ego, 2020

pp. 192
€ 16 (Cartaceo)

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Quando scrivo di un argomento storico (che sia un luogo o una persona), sento il bisogno di spiegare da dove scrivo. Mi sembra importante affermare dove mi trovo, poiché determinerà ciò che il lettore può e non può vedere. Le sceneggiature dei film hanno quasi sempre indicazioni su quale punto di vista del personaggio viene adottato in un momento o nell'altro; spesso, la scena sarebbe completamente diversa se vista dagli occhi di un altro personaggio.
Quando si parla di un passato molto lontano, alcuni scorci di presente consentono anche una sorta di passaggio tra le due epoche e i due mondi (passato/presente; finzione/ “mondo reale”). È uno spazio nel testo che il lettore può abitare. Passato e presente, intrecciandosi, diventano una sorta di palinsesto in cui compare una terza voce, che è più della somma o delle differenze delle due.
In questo caso particolare, mi sembrava che i monaci della metà del XV secolo fossero alla vigilia di una triplice rivoluzione: la scoperta dell'America, la constatazione che la Terra non è il centro dell'universo, l'invenzione e la diffusione del libro stampato. Queste tre cose hanno una cosa in comune: lo spostamento di quello che si pensava fosse il centro in una sorta di periferia: l'Europa non sarebbe più stata il centro del mondo, le biblioteche delle abbazie non sarebbero più state al centro della conoscenza.
Diventare madre (o, immagino, genitore) implica un simile spostamento: non sei più il Sole del tuo piccolo universo. È un cambiamento fondamentale, che non può essere annullato, una realizzazione che non può essere disimparata. Ritenevo interessante cercare di tracciare sottili coincidenze tra questi diversi tipi di rivoluzioni.


I libri, la scrittura, il potere delle storie: lei racconta un aspetto particolare della maternità, le difficoltà di conciliare l’esigenza della scrittura a quella di occuparsi della sua prima figlia appena nata. Quanto e come tale complessità ha influito e modificato la sua scrittura? Non tanto in termini di metodo e tempo dedicato al mestiere ma sulla scrittura stessa 
Prima di avere mia figlia, temevo che ci fosse una reale possibilità che non avrei mai potuto scrivere di nuovo una volta che sarei diventata madre - ho pensato che forse sarei diventata qualcun altro completamente, cosa che è successa e non è successa allo stesso tempo. I primi mesi – anche i primi anni – hai questa sensazione di perdere chi sei, di non appartenere più a te stesso. Ma sentivo ancora storie nella mia testa. I miei primi romanzi erano pura finzione scritti da una prospettiva divina, ma dalla nascita di mia figlia ho scritto libri in cui appaio e parlo con la mia voce. Mi ritrovo a scrivere sempre di più di cose che mi sono più vicine e più intime. Non sono sicura se sia dovuto interamente al fatto che sono diventata madre, o se il semplice passare del tempo abbia qualcosa a che fare con questo, ma sono abbastanza sicura di essere ora in grado di scrivere di cose che dieci anni fa mi avrebbero terrorizzata. La paura è (quasi) andata via.


È passato del tempo dalla prima pubblicazione di questo libro alla traduzione italiana che ci troviamo davanti: c’è qualcosa che oggi le appare estraneo, che vorrebbe approfondire o modificare? Una breve considerazione: a mio parere E tutt’intorno il mare riesce nel piccolo miracolo di superare limiti di tempo e spazio, dialogando perfettamente con il lettore. In entrambi i suoi testi pubblicati in italiano mi è parso di notare un elemento comune, ossia il desiderio di aprire un dialogo con il lettore: ne Le città di carta ciò era evidenziato anche dagli spazi bianchi sulla pagina, quasi un invito a riempire con le proprie considerazioni ciò che nasceva dalla lettura. Anche in questo caso la particolarità della scrittura e i vari piani e rimandi mi suggeriscono tale idea. Che cosa ne pensa?
Mi piace soprattutto l'idea del libro come spazio condiviso tra autore e lettore. C'è un detto che dice: un libro ha sempre due autori: lo scrittore e il lettore. Il titolo del mio primissimo romanzo (On the Proper Use of Stars) strizzava l'occhio a un'immagine di Wolfgang Iser, specialista in teorie della ricezione, il quale diceva che un testo è come un cielo notturno pieno di stelle: i punti di luce sono fissi, sono uguali per tutti, ma ogni lettore può tracciare le linee tra di loro per formare le proprie costellazioni. I libri che amo leggere offrono questa possibilità al lettore di partecipare al processo creativo e interpretativo, e naturalmente cerco di scrivere libri che permettano, anzi incoraggino, la stessa cosa.


«[…] in realtà non sono le opere ad aver bisogno della protezione dei monaci, sono gli uomini ad aver bisogno dei libri. Noi moriremo, i libri sopravvivranno» (p. 163): è un passaggio molto bello, sul valore fondamentale dei libri. Come se attraverso i libri fosse possibile ingannare il tempo e il limite dato dalla caducità umana. È davvero un canto d’amore per i libri e la scrittura. Come si è formato in lei tale rispetto per la scrittura? 
Credo che in qualche modo abbiamo bisogno di scrivere libri per lo stesso motivo per cui ci viene voglia di dipingere, scolpire statue o comporre musica: perché siamo mortali e sentiamo la necessità di dedicarci a qualcosa di più grande di noi, di creare una sorta di bellezza che ci sopravviverà. I libri sono meravigliosi in questo senso perché sono veramente vivi, ma non moriranno. Sono cresciuta circondata dai libri e fin da piccola sono stati un rifugio. Ancora oggi, quando finisco di scrivere un libro (o talvolta anche di leggerne uno), mi sento un senzatetto. Non possiamo solo abitare il “mondo reale”, abbiamo bisogno di tutti questi altri mondi, di queste altre vite che le storie ci offrono da secoli.
 
Intervista a cura di Debora Lambruschini 

Immagini riprodotte su autorizzazione della casa editrice