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La schiavitù dell'uomo medio: "Piano meccanico" di Kurt Vonnegut

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 Piano meccanico
 di Kurt Vonnegut
 Bompiani, 2020

 pp. 411
 € 15,00 (cartaceo)
 € 9,99 (ebook)


 Titolo originale: Piano Player
 Traduzione di Vincenzo Mantovani
 

“A causa del modo in cui le macchine cambiano il mondo, […] gli uomini non hanno altra scelta: o diventare essi stessi macchine di seconda categoria o affidarsi alla tutela delle macchine” (p. 348) 
Sono passati dieci anni da quando si è conclusa la guerra che ha messo a ferro e fuoco gli Stati Uniti. Dieci anni da quando la seconda rivoluzione industriale ha innovato permanentemente il sistema di produzione di tutto il paese. Dieci anni da quando le macchine hanno imparato a fare a meno dell’uomo e i manager e i tecnici, detentori del know-how e delle competenze per farle funzionare, sono ascesi ai vertici della piramide sociale. Il mondo sembra essere un posto migliore: finalmente ci si è liberati dei principali mali sociali ed è stato raggiunto un benessere diffuso. Non si capisce allora perché Paul Proteus, direttore dello Stabilimento produttivo di Ilium, giovane rampante e proiettato verso una brillante carriera provi un diffuso senso di malessere, si trovi sempre più spesso ad essere “infastidito, annoiato, nauseato” (p. 18). Sottoposto alle pressioni di una moglie ambiziosa e calcolatrice, alle formalità di complicati rituali pubblici, agli sgambetti di colleghi invidiosi, Paul è sempre più attratto da quel che si trova al di là del fiume, a Homestead, dove vivono i derelitti della società, tutti coloro che non trovano più spazio in un sistema sempre più blindato e automatizzato. Nel 1952 (solo pochi anni dopo la pubblicazione del 1984 di Orwell), anche Kurt Vonnegut esordisce sulla scena letteraria con un romanzo che tratteggia i confini inquietanti di una distopia, solo superficialmente mascherata da realtà ideale
Nel quadro cinico tratteggiato dal romanzo attraverso un uso spesso spiazzante dell’ironia, la vita di un individuo viene determinata sulla base di test attitudinali dai risultati univoci, “immutabili, irrevocabili, e la scheda aveva sempre ragione” (p. 100). Una minoranza assoluta della popolazione può avere accesso all’università, e quindi alla schiera di tecnici e burocrati che governano il paese e gestiscono le macchine, agli altri non restano che l’esercito o il Corpo bonifica e ricostruzione, i cui membri sono affettuosamente chiamati Relitti e Puzzoni. Tutti coloro che hanno fatto più di quattro anni di università e sono senza lavoro sono etichettati dalle macchine come potenziali sabotatori, mentre l’uomo medio, prodotto di questa società dei nuovi consumi controllati, finisce per subire sempre di più le pressioni di una vita regolata sotto ogni aspetto.
Vonnegut descrive una realtà in cui non c’è più speranza di progresso individuale, la Chiesa non dà più risposte e in cui vige una “maledetta gerarchia che usa la macchina come unità di misura dell’uomo” (p. 115). Spinto alla riflessione dal vecchio amico Ed Finnerty, uomo geniale e controcorrente che ha deciso di ribellarsi alle regole, dando uno schiaffo alla morale alto-borghese cui dovrebbe conformarsi, Paul si rende conto improvvisamente di ciò che gli manca:
si sentiva un po’ imbarazzato, quasi fosse un impostore. Era capacissimo di svolgere le sue mansioni, ma non aveva [...] il senso dell’importanza spirituale di quello che facevano; la capacità di commuoversi, quasi come un innamorato, davanti al grande spirito onnisciente e onnipresente, la personalità dell’azienda [...], la capacità di dire “non me ne frega niente. (p. 87)
Paul ha troppa coscienza per non interrogarsi, troppa intelligenza per non vedere i modi in cui le cose potrebbero cambiare, troppa ingenuità per non pensare che sia possibile farlo.
Per poter mettere in rilievo le incongruenze, le profonde stonature del nuovo mondo, Vonnegut introduce una visione esterna, quella dello scià di Bratpuhr in visita diplomatica, accompagnato a visitare le meraviglie tecnologiche e le attrazioni “turistiche” del paese. Mentre il dottor Halyard cerca di spiegargli pratiche e abitudini della vita locale, magnificandone i vantaggi, il leader religioso ne coglie immediatamente la sostanza: EPICAC XIV, il computer che governa gli Stati Uniti, non è altro che un falso dio e la democrazia non è che un idolo sventolato davanti alla faccia dell’uomo medio per mantenerlo obbediente e sottomesso:
“Aha,” disse lo scià, annuendo.
“Cos’ha detto?”
Takaru” disse Khashdrahr. “Schiavo.”
“ Non takaru,” disse Halyard, rivolgendosi direttamente allo scià. “Cit-ta-di-no.”
“Ahhhhh,” disse lo scià. “Cit-ta-di-no.” E sorride, contento. “Takaru, cittadino. Cittadino, takaru.” (p. 36)
Le macchine controllano ogni aspetto della vita, gestiscono ogni occupazione domestica per lasciare ai “cittadini” in teoria il tempo di vivere, ma di fatto di dover occupare lo scorrere insensato di giornate sempre uguali in uno stato di malinconica insensatezza. Persino i flussi dei consumi e degli acquisti vengono gestiti da EPICAC sulla base della massima razionalità ed efficienza.
Le maglie del sistema sono talmente strette che sembra impossibile sfuggirne se non a prezzo del sacrificio di tutto quello che si è e che si ha. Se per un anticonformista come Ed Finnerty è ancora accettabile farlo, irridendo il sistema, per Paul la rivolta è un continuo dibattersi all’interno di una rete che si fa sempre più stretta. L’incapacità di scegliere, il desiderio di salvare alcuni aspetti della sua vecchia esistenza da trasportare in quella nuova, agognata, gli rendono inaccessibili l’una e l’altra: “Vuole un consiglio da un uomo vecchio e stanco? [...] Non tenga i piedi in due staffe, uno nel lavoro e l’altro nei suoi sogni [...]. Se ne vada o si rassegni a questa vita. È troppo forte la tentazione, per il destino, di spaccarla in due prima che lei abbia deciso da che parte andare” (p. 285), si trova a un certo punto a consigliare a un giovane tecnico che gli è solidale. Sembra quindi per lui uno sbocco quasi inevitabile – tanto più se forzato dagli eventi esterni – l’avvicinamento alla Società della Camicia Stregata, un gruppo di cospiratori idealisti e anti-macchine che vuole “restituire il mondo alla gente”, che sogna la rivoluzione. Quello che nessuno realizza, mentre il piano della rivolta viene orchestrato nei minimi dettagli, è che la rivoluzione si può innescare ma non controllare, e che può finire per ritorcersi contro i rivoluzionari stessi, come Proteus con amarezza dovrà constatare.
In Piano meccanico, la prosa di Vonnegut non ha ancora raggiunto la densità lapidaria delle opere successive, la narrazione è più lineare, i capitoli più ampi e regolari. Eppure si ritrova già lo sguardo caustico, pungente, sul reale; il cinismo dissacrante; l’attenzione bruciante a un mondo che cambia rapidamente e spesso dimentica non solo l’etica, ma anche l’uomo stesso.
 
 Carolina Pernigo