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Una danza con la morte, il più cocciuto dei fatti: "Favola del castello senza tempo" di Gesualdo Bufalino

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Favola del castello senza tempo 
di Gesualdo Bufalino 
Bompiani, 2020

Illustrazioni di Lucia Scuderi
Introduzione di Nadia Terranova 
p. 64 

12,00 € (cartaceo)
7,99 € (ebook)

"Costoro non invecchiano mai, non si corrompono mai, bensì la loro condizione è la noia [...] Né altro gli resta, che a due a due, interminabilmente vincere o perdere la stessa partita di dadi che hanno vinto o perduto dieci, cento, mille migliaia di volte di seguito." (p. 24) 

A novembre 2020 Gesualdo Bufalino avrebbe compiuto cento anni. Solo trentanove ne sono invece trascorsi da quando venne pubblicato il suo romanzo d'esordio, Diceria dell'untore, nel 1981. 

Scrivo "solo" perché avrebbero dovuto tutti leggerlo prima Bufalino, uno dei più grandi e colti scrittori che la Sicilia abbia regalato al mondo
Insegnante, romanziere, poeta, critico, traduttore, aforista, bibliofilo, a sessantuno anni ha rivelato la propria capacità di osservazione e di invenzione, la padronanza dei più diversi registri, l'anima filosofica che lo studio dei grandi classici, unito al DNA emotivo della propria terra, gli ha donato. 
Scrivendo ha disvelato un mondo interiore ricchissimo di influenze che è a tutti visibile nella sua straordinaria tendenza all'intertestualità. 

Teorico delle cento Sicilie, è riuscito - insuperabile per profondità di indagine - a dare una definizione a quell'universale e primordiale angoscia isolana che ti fa sentire allo stesso tempo al centro del mondo e ai suoi margini più remoti. Ha scritto della Sicilia e ha scritto sulla Sicilia quasi essa fosse un foglio, una trama antica, il vocabolario di partenza di una lingua che poi ha raggiunto portata universale e cosmopolita.
Per troppo tempo relegato a una dimensione regionale, Bufalino dalla sua Comiso, puntino dell'isola a tre punte, ha allargato lo sguardo fino ad abbracciare tutte le civiltà e oggi si racconta ancora a noi nella prosa e nei versi come lo scrittore metafisico nelle cui storie la vita lotta sempre contro la morte. 

È ciò che avviene anche nella sua breve e commovente Favola del castello senza tempo, per tanto tempo dimenticata e oggi ripubblicata da Bompiani in una nuova edizione arricchita dalle illustrazioni dell'artista siciliana Lucia Scuderi e da un'introduzione della scrittrice Nadia Terranova
Unico testo esplicitamente scritto per l'infanzia, venne composto da Bufalino nel 1998 su richiesta di Giorgio Tabanelli, regista e studioso che curava per l'editore Cartedit una collana per bambini e ragazzi chiamata Racconti del Castello senza Tempo.

La dimensione dell'infanzia, presente nella produzione di Bufalino principalmente nella sua connotazione più interiore e analitica (riflessione sul se stesso uomo più che disegno di un mondo popolato da bambini), dialoga con alcuni dei più grandi temi della sua letteratura: il tempo, la morte, l'attesa, la prigionia
Anche qui, come ne Le menzogne della notte, libro infinito pieno di domande di senso, siamo immersi in una notte di astratti furori dove il tempo è sospeso. 

È la notte nella quale vivono gli abitanti del castello senza tempo, anche detti gli Immortali, anime scampate al diluvio universale, create prima che il tempo venisse inventato
Rinchiusi in un non-luogo in cui nulla cambia e tutto si ripete (così simile alla prigione da cui si sogna, lontana, la vita del Regno), sono schiavi di un eterno presente che non ha il valore del nostro presente perché non accoglie in sé il passato né il futuro. 
La morte, incarnata da Atropo, una farfalla nera e gialla che ha un teschio disegnato sulle ali, non può raggiungerli e loro disperati vivono un'eterna partita dove non si vince e non si perde. 
A liberarli proverà Dino, un bambino che ha in sé i tre doni che servono a compiere quest'impresa: giovinezza, coraggio e innocenza. 

Eterea e piena di grazia come il volo di una farfalla eppure densa di grumosa oscurità - la stessa del bosco nero in cui il bambino incontra la falena parlante - questa favola plana leggera sul caos dell'esistenza umana, costantemente a dialogo con il tempo che scorre e con la morte che la sfiora. Un'eterna danza che abbiamo già trovato nelle più grandi opere di Bufalino, popolate da personaggi che si chiedono che posto abbiamo noi in questa equazione, come faceva Consalvo de Ritis ne Le menzogne della notte:
...allora mi chiedo: io, chi sono? Noi, gli uomini, chi siamo? Siamo veri? Siamo dipinti? Tropi di carta, simulacri increati, inesistenze parventi sul palcoscenico d'una pantomima di cenere, bolle soffiate dalla cannuccia d'un prestigiatore nemico? Se così è, niente è vero. Peggio: niente è, ogni fatto è uno zero che non può uscire da sé. Apocrifi noi tutti, ma apocrifo anche chi ci dirige o raffrena, chi ci accozza o divide: metafisici niente, noi e lui, mischiati a vanvera da un recidivo disguido: nasi di carnevale su teschi colmi di buchi e d'assenza...  
Simulacri vuoti, esseri di carta ci appaiono anche gli Immortali di questa favola, "più simili a una truppa di larve che a persone di corpo e di peso", uomini e donne tremanti di "immutabile beatitudine". 

Lo scrittore che guardava la morte dalla soglia della vita e la vita dalla soglia della morte ("il più cocciuto dei fatti", come recita un suo aforisma) regala ai lettori più giovani un messaggio che da adulti troppo spesso si dimentica: se il tempo non esistesse e davanti a noi si stendesse una sterile eternità a nulla varrebbe essere qui. Non avremmo memoria né emozione
Con la sua favola ci invita tutti ad abbracciare la pienezza dell'esperienza terrena, la bellezza della sabbia che scivola nella clessidra e del campanile che manda i rintocchi. 
Bufalino ci rivolge uno sguardo pieno di compassione e ci dice che passiamo la vita ad allontanare la morte ma in realtà è questa che ci tiene in vita, riempendoci il cuore di battiti e l'esistenza di attimi singolari che non si ripetono.


Claudia Consoli