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#IlSalotto - «Scrivere "Il nome della madre" è stato come come se mi fossi mosso lungo un sentiero di montagna e, all’improvviso, mi fosse apparso davanti un bellissimo prato in cui poter respirare e rilassarmi»: intervista a Roberto Camurri

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Il nome della madre
di Roberto Camurri
NN Editore, 2020

pp. 174
€ 17,00 (cartaceo)
€ 8,99  (ebook)


Guarda la campagna, l’erba, i campi incolti e arati, i fossi, e si chiede, infilandosi la mano in tasca, accarezzando l’osso che è ancora lì, se anche a lui passerà mai quel dolore, la mancanza di sua madre (p. 68).
Sull’assenza di una madre e su come questa mancanza abbia modificato il vissuto di due generazioni ruota questo nuovo romanzo di Roberto Camurri. 
Come nel precedente "A misura d'uomo" ritroviamo Fabbrico, la città natale dell’autore, un paesino di campagna che diventa il luogo nel quale si sciolgono nodi e sentimenti, e nel quale il silenzio e l’incomunicabilità dei protagonisti si risolvono in uno sguardo di speranza e di luce.
I protagonisti sono due figli, due padri e due generazioni che in un silenzio assordante conducono la loro vite. 
È un silenzio che li avvolge quando Pietro segue suo padre fuori, quando camminano per strada, quando calcia sassi sui marciapiedi dietro suo padre che non si volta mai a vedere se c’è, un silenzio che li accompagna a casa, una presenza quasi fisica, quasi da toccare se si avesse il coraggio di allungare una mano… (p. 77).
Il silenzio è un importante protagonista che caratterizza tutta la narrazione, che influenza le relazioni d'amore, i tradimenti e la crescita psicologica di Pietro come figlio prima, e come padre poi.
Si tratta di un silenzio che, soprattutto nella prima parte, porta ad una tensione narrativa che conduce il lettore in un vortice di emozioni lette tra i gesti, i movimenti e le azioni, soprattutto quelle scontate, della vita di tutti i giorni.
Il punto di vista è sempre maschile, tuttavia i personaggi femminili sono ben delineati e presentati con uno sguardo di accettazione e quasi di condivisione delle loro scelte, anche se non sempre condivisibili. Le donne di Pietro sono una l’opposta dell’altra, complementari: una, Gaia, ha tratti spregiudicati, lei non si copre, non teme di mostrarsi nuda; l’altra, Miriam, è delicata, timida, fatica a lasciarsi andare, sia nel corpo che nella mente.
E poi c’è Ester, la mamma della donna che abbandona marito e figlio e che compie una scelta dettata dall’amore, pur sapendo che avrebbe condizionato diverse esistenze.
Il lettore resta attaccato alle pagine, in un crescendo di tensione che solo alla fine si scioglie in un nome.

Il romanzo ha un taglio profondamente psicologico, i protagonisti vengono messi a nudo e fatti parlare attraverso i gesti. Il loro sentire è limpido pur nel turbinio delle contraddizioni che caratterizzano alcune loro scelte.
La scrittura è lineare, limpida, gli aggettivi così precisi e ricercati portano il lettore a Fabbrico e lo conducono per mano al fianco di tutti i protagonisti. C’è, inoltre una musicalità e un ritmo che, soprattutto se si legge ad alta voce, diventa una poesia delicata, armoniosa e struggente.

Ho intervistato Roberto, questa volta a distanza; ancora una volta sono rimasta colpita dalla sua generosità nel raccontare e nel raccontarsi e dalla sua semplicità e timidezza nel porsi, come solo un vero artista sa fare.

Innanzitutto, sono molto felice di chiacchierare con te. L’altra volta lo abbiamo fatto appena  era uscito “A misura d’uomo”, il tuo primo libro, e mi hai comunicato tanta emozione. Ora come ti senti?
Adesso mi sento emozionato uguale, per più motivi, in realtà. Sono stato travolto dall’affetto che ha circondato “A misura d’uomo”, il mio esordio, e adesso spero di poterlo confermare con questa seconda prova, “Il Nome della madre”. Poi, ecco, mai avrei pensato di uscire in libreria durante una pandemia e questa cosa un po’ mi spaventa da un lato e dall’altro mi sento orgoglioso che la mia casa editrice, NN Editore, abbia scelto me per ripartire. 

Ho notato un lavoro molto ricercato sulla scrittura, a mio avviso più dettagliata, più “visiva” rispetto al lavoro precedente. Come è stato il processo creativo che ti ha portato a questo nuovo libro?
Grazie mille, prima di tutto. La cosa più difficile che ho affrontato scrivendo “Il nome della madre” è stata quella di reimpossessarmi della mia lingua. Quando ho iniziato a scriverlo sentivo quasi il bisogno di staccarmi completamente da chi ero stato con il romanzo d’esordio. “A misura d’uomo” è stato un lavoro di costruzione che è iniziato dalla fine, riuscire a dare forma a qualcosa partendo da una raccolta di racconti concentrata sulle emozioni che volevo far provare a chi avrebbe letto, riconoscere la storia che stavo già raccontando e farla emergere. Qui è stato l’opposto, decostruire un’impalcatura che avevo improntato tenendomi a distanza dai personaggi, quasi, per riconoscere, poi, le emozioni che stavo raccontando e portarle in superficie. Ed è stato quando ho ritrovato l’empatia per Ettore, Pietro, Ester, la madre che se ne va, e gli altri personaggi che sono riuscito a ritrovare la mia scrittura. E, forse, quello che hai notato tu è stato il frutto di questo processo. 

Il silenzio è uno dei protagonisti del libro, ho sentito l’assenza di comunicazione verbale, anche se il corpo e i gesti sono stati sempre un’ottima descrizione in tutto il testo. Una scelta voluta?
Questo è un aspetto che volevo tenere in comune con “A misura d’uomo”, la difficoltà di riuscire a esprimere le emozioni attraverso le parole. Volevo portare gli stessi silenzi in un altro contesto, quello dei rapporti familiari, che nel mio esordio non erano presenti. Mi piaceva costruire il dolore di una perdita, la capacità e il modo di reagire dei protagonisti attraverso le azioni; un lutto, qualcosa di troppo grande e spaventoso, che sono incapaci di nominare. E la scelta di usare il corpo, la fisicità, è stato un modo per far ricongiungere i protagonisti, soprattutto Ettore e Pietro, con la loro parte ancestrale, istintiva. Farli muovere come estensione della natura che li circonda. 

Nel romanzo è cruciale il rapporto padre-figlio. Un aspetto della vita che ti sta a cuore, mi sembra di capire. Qual è il rapporto con tuo padre?
A differenza di come può sembrare dai protagonisti del libro, il rapporto con mio padre è molto buono. Siamo riusciti a trovare un modo di comunicare attraverso un linguaggio comune, lo stesso, forse, che cercano Ettore e Pietro per tutto il libro. Il loro è un percorso segnato da alti e bassi e incomunicabilità, violento, a volte, che sfocia poi nell’incontrarsi comprendendo le ragioni dell’altro, quando la rabbia accumulata negli anni viene assimilata e si trasforma in uno sguardo che riesce a vedere oltre, che permette loro di ricongiungersi e, finalmente, capirsi. 

L’assenza della madre segna profondamente due generazioni, ovvero quella del marito della donna che abbandona la famiglia e quella del figlio che cresce senza la mamma. Ancora una volta, si tratta di un'assenza non spiegata. Se ci fosse stata una spiegazione, se ci fossero state le parole anche da parte di chi sapeva, Pietro avrebbe saputo amare diversamente?
Questa è una domanda che non mi sono posto, mentre scrivevo il libro. Mi interessava calare Pietro in quelle condizioni, come avrebbe reagito nell’ambivalenza di un padre fisicamente presente, troppo, e una madre del tutto assente, come avrebbe fatto a gestire la ricerca del proprio posto nel mondo, della propria identità e dell’amore partendo da quelle premesse non facili. 

E veniamo ai personaggi femminili. Ester ha fatto una scelta difficile, in nome credo dell’amore di una madre verso la figlia. Una scelta discutibile. Pietro forse ha sempre saputo ma solo alla fine ne ha la certezza. Tuttavia non dà cenni di rabbia. Perché?
Perché, come dicevo prima, Pietro è concentrato a sapere chi sia sua madre, cosa le sia successo, perché se ne sia andata, perché nessuno gli dice nulla. È come se gli fosse stata negata la possibilità di arrabbiarsi. È più facile farlo con chi è rimasto, con chi è lì e lo cresce, suo padre, i suoi nonni, Miriam. E, alla fine, si rende conto che non può raggiungere quell’obiettivo accecato dalla rabbia e dalla confusione che lo porta a muoversi maldestro nel mondo e nei rapporti che costruisce. È più forte il sollievo, alla fine, di aver concluso quel viaggio che tutto il resto. 

Gaia e Miriam: due donne completamente diverse, due modi di amare e di vivere. Pietro in Gaia sente che c’è un pezzo del modo di essere della madre; è per questo che ne è così attratto?
Sì, sono due figure complementari. Che segnano l’essere combattuto di Pietro: da una parte il mondo, lo sconosciuto, la fuga che rappresenta sua madre; dall’altra il restare, Fabbrico, la vita già scritta, seguita da suo padre. 

Ritroviamo Fabbrico, la tua città. Qui, molte azioni sono risolutive per la narrazione, come a gettare nuovamente le radici in questo paese. Cosa rappresenta per te Fabbrico?
Mi sono reso conto, soprattutto dopo “A misura d’uomo”, che Fabbrico è qualcosa che ha che fare più con il mio immaginario che con il paese in sé. Mi è successo durante l’ultima volta che sono andato a trovare i miei genitori, siamo passati davanti a quella che per me era ancora la stessa scuola elementare che ho descritto in “Il nome della madre” e invece era stata, dopo il terremoto del 2012, completamente restaurata e fatta diventare scuola media. Fabbrico è il luogo dove sono stato bambino e dove sono cresciuto prima di allontanarmi per diventare un adulto. È dove mi sono formato, dove è cresciuta la mia idea di mondo, quell’inquietudine che mi porta a cercare i motivi dei comportamenti che mi hanno circondato. E che oggi provo a spiegarmi attraverso quello che racconto. 

Nella parte finale i fili dei sentimenti si esprimono in abbracci, la tensione narrativa si scioglie nelle lacrime di Pietro che però non vuole “sentire più niente”. Io mi sono commossa. Come ti sei sentito scrivendo queste pagine?
Mi sono sentito strano, lo confesso, perché, a differenza di quando ho scritto “A misura d’uomo”, sapevo dall’inizio che “Il nome della madre” sarebbe finito così. È stato liberatorio, quasi, come se questa volta avessi dovuto seguire un percorso già tracciato senza sapere però quanto sarebbe stato lungo, o faticoso; come se mi fossi mosso lungo un sentiero di montagna e, all’improvviso, dopo una curva stretta e scivolosa, con il rischio di cadere in uno strapiombo, mi fosse apparso davanti un bellissimo prato in cui poter respirare e rilassarmi. 


Introduzione e intervista a cura di Elena Sassi





#RobertoCamurri è tornato in libreria da pochi giorni con “Il nome della madre” edito da #NNEditore. Come nel suo primo libro, tra i protagonisti, c’è Fabbrico, che qui diventa il punto nel quale molte azioni e storie trovano il loro compimento. Al centro del romanzo troviamo i sentimenti, i silenzi e i gesti, che permettono al lettore di vedere anche dentro l’animo dei protagonisti. Ci sono un padre e una madre, la cui assenza segna profondamente due generazioni di figli. Ci sono l’amore, il tradimento, l’affetto, l’amicizia, sempre segnati da una assenza non spiegata. #IlNomeDellaMadre è un libro che accarezza l’anima, con una trama nella quale i rumori degli animi diventano elementi poetici. Presto ne parlerà @elenasassi, che ha anche intervistato l’autore. Vi ispira? #CriticaLetteraria #Bookstagram #ilmaggiodeilibri #inlibreria #inlettura
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