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«Evviva l'amore, possa non accadere mai»: i bohémien minori di una narratrice straordinaria

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Bohémien minori
di Eimear McBride
La nave di Teseo, 2019

Traduzione di Tiziana Lo Porto

pp. 388
€ 22 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)


Scorticata. È esattamente questa la sensazione provata leggendo Bohémien minori. Durissimo. Bellissimo. Eimear McBride è una scrittrice irlandese con esperienza di teatro, già nota alla critica internazionale per il sorprendente romanzo d’esordio, Una ragazza lasciata a metà, anche in quel caso brutale e meraviglioso.
I romanzi di McBride sono esattamente quello che cerco nella narrativa contemporanea: la capacità di dire l’indicibile, sporcarsi le mani, raccontare le pieghe più oscure dell’animo umano, piegare la parola alle proprie esigenze e squarciare la pagina attraverso lampi di luce abbagliante. Entrare in questo romanzo è una prova durissima, perché rompe con ogni regola e convenzione del romanzo tradizionale, a partire dallo stile, e perché la storia non fa sconti a nessuno in un vortice di traumi, abusi, dipendenze, sofferenza. Superate le primissime pagine e lo straniamento iniziale, la voce della protagonista avvolge ogni cosa intorno, rendendo chiaro come quello scelto fosse l’unico modo possibile per raccontare una storia tanto intima e viscerale.

È il flusso di pensieri e parole in cui la punteggiatura si riduce all’essenziale, per non interrompere la fluidità del racconto che è come se si sviluppasse sulla pagina nel momento esatto in cui lo leggiamo, una sperimentazione che affonda le radici nella tradizione modernista ovviamente, ma che a mio avviso ha molto più in comune con gli atomi di Virginia Woolf che con l’illustre dublinese Joyce, che McBride non manca comunque di omaggiare. Sono, infatti, le miriadi di impressioni e stimoli che come una pioggia incessante di atomi la mente riceve in ogni istante di un giorno qualunque e che il romanziere registra per come « essi cadono sulla mente e nell’ordine in cui cadono», tracciandone «il disegno, per quanto sconnesso o incoerente sia all’apparenza, che ogni immagine o incidente incide sulla coscienza» (V. Woolf, Modern Fiction). McBride trae ispirazione dalla tradizione che l’ha preceduta e la rielabora in una narrazione assolutamente puntuale, contemporanea, che possiamo accostare alla tecnica narrativa e alla sensibilità di Ali Smith, Jenny Offill, Sally Rooney, solo per fare alcuni esempi tra la scrittrici contemporanee.
Bohémien minori è la dimostrazione di dove può condurre la parola nelle mani di un narratore capace di lasciarla libera, che non esistono limiti allo stile e, soprattutto, a ciò che è possibile raccontare. Perché, si diceva, questo romanzo ti scortica.

Diceva Robert Mcliam Wilson nel suo romanzo migliore, Eureka Street, che «Tutte le storie sono storie d’amore»: lo è anche questa, in fondo, ma di certo ben diversa da come ci si potrebbe aspettare. Dell’amore, intanto, racconta con dovizia di particolari la scoperta del desiderio, che sembra essere l’unica chiave possibile per i due protagonisti di comprendersi, ancorarsi l’uno all’altro e al presente. Lei ha diciotto anni ed è appena arrivata a Londra – la Londra sporca, caotica, meravigliosa, degli anni Novanta – dall’Irlanda per seguire i corsi di una prestigiosa scuola di recitazione; lui ha vent’anni di più, è un affermato attore di teatro che sta scrivendo una sceneggiatura e che «ha tutti questi mondi che gli nuotano sottopelle». Si incontrano, fanno sesso, bevono molta birra, fumano un numero illimitato di sigarette sorseggiando tazze di te al buio di una stanza caotica. Si innamorano. O, forse, solo lei si innamora.
Ricorda questo momento. Lo ricorderò perché, anche se questa mattina non è chissà che per la sua vita, per la mia è un mondo intero. Qualunque cosa accada, niente sarà lo stesso dopo e niente sarà così di nuovo. (p. 95)
Ci sono i silenzi, le distanze, l’indifferenza e le ferite, il ritrovarsi, il farsi male di nuovo e più forte. C’è, lo avvertiamo immediatamente, il riconoscersi in una sofferenza comune, entrambi in qualche modo danneggiati, vulnerabili. Traumi indicibili, violenza, abusi, poi la droga, l’autolesionismo, il sesso compulsivo. La vergogna, la paura. Durissimo, lo avevo detto. 
McBride scava e scava, dentro quelle pieghe oscure, con una lucidità spiazzante e riuscendo a costruire una narrazione in cui ogni parola impressa sulla pagina è una ferita e si fa materia. Come quei corpi, che più dei dialoghi raccontano la storia, l’amore, il trauma: attraverso i corpi dei due amanti conosciamo il sesso – ancora una volta nelle sue diverse sfumature, brutale o intimo, mediocre, pieno di sentimento, rabbioso, violento – nel momento esatto in cui accade, il racconto che nasce da dentro, dalle sensazioni; i corpi che portano i segni delle battaglie affrontate, la pelle di lui tesa sulle ossa di quel corpo magrissimo abituato a essere punito, quella di lei arrossata da bagni caldi e sfregata a cancellare ogni traccia di notti da dimenticare, i tagli, i graffi auto inflitti.

Poi, qui e là, squarci di bellezza: la Londra dei teatri, la città al tramonto vista da Primrose Hill, il fiume da costeggiare e le mani che si sfiorano, le piccole botteghe; il sentimento che nasce e che per un attimo è perfetto, immutevole, nel caos di una stanza che è il caos di coloro che la abitano.
Ma è davvero possibile salvarsi? È possibile ricostruire sulle macerie di un passato tanto brutale? E, ancora, quanto sottopelle si può insinuare l’orrore? Quali sono le conseguenze, come determinano chi siamo? 
Che cosa sono diventata per colpa sua? Come faccio a sapere cosa mi ha fatto diventare? (Allie, ripensando agli abusi subiti, p. 171)
Scava, McBride, cambia tono e registro quando le parole per raccontare quel flusso inarrestabile di pensieri e ricordi hanno bisogno di una struttura più stabile per essere contenute. E allora, solo verso la fine, i due amanti trovano nome, non più Lei e Lui, come se fosse finalmente possibile ricostruire l’identità, attraverso l’altro cui affidiamo la nostra storia, non perché ci salvi o fornisca le risposte, ma perché ci riconosca. E comprenda

È una tensione continua fra grazia e dramma, in un intreccio vorticoso, crudissimo, disturbante. È la libertà della parola, all’ennesima potenza, che fluisce senza vincoli sulla pagina. Non c’era altro modo possibile per raccontare questa storia.
Non lo so se in un certo momento storico o privato ci siano libri adatti oppure no, non mi sono mai posta più di tanto la questione, nemmeno in questi strani tempi che stiamo vivendo dove a quanto pare la letteratura dovrebbe servire come non mai a portarci lontano, evadere come fisicamente non ci è permesso; non lo so se i libri da leggere ora devono fornirci consolazione, leggerezza, serenità o se, al contrario, nelle tribolazioni di un personaggio letterario possiamo per contro ritrovare la pace. Non lo so, non è il tipo di risposte che cerco. Quello che so è che, oggi come ieri – quando ieri sarà sempre per me uno spartiacque tra un prima e dopo personale – è la Letteratura la mia risposta, i luoghi in cui può portarmi, senza sconti né consolazione, perché la mia consolazione è proprio quello, il miracolo della scrittura.