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Chi è Pinar Selek, la sua storia e perché non può tornare a casa

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Lontano da casa
di Pinar Selek
Fandango Libri, 20 giugno 2019 

Traduzione a cura di Manuela Maddamma e di Viviana Tomassetti 

pp. 72
€ 10,00 (cartaceo)
€ 5,99 (ebook)

C'è una differenza significativa tra questo tipo di cambiamento e lo strappo brutale. 
I miei fiori non sono stati più annaffiati, e c'erano degli uccelli ai quali offrivo il pane ogni mattina, e i vecchi amici a cui portavo il cibo, l'ulivo che avevo piantato nel mio giardino... Il romanzo che avevo cominciato a leggere e l'articolo che stavo scrivendo sono rimasti sul tavolo. E le foto di mia madre, i regali degli amici, le lettere che spesso rileggevo, la campagna politica che avevamo appena lanciato e il discorso che dovevo pronunciare durante la manifestazione... I miei amici mi aspettavano all'angolo della strada... 
Il mio “a casa”, la mia casa erano loro. Non avevo finito di costruire la mia casa. Stavo continuando... Perché proprio adesso? Capita. La vita non è fatta unicamente del nostro mondo. (p. 20)
Immaginate di dover lasciare all'improvviso la vostra casa. Immaginate vostro padre che vi esorta a prendere nel più breve tempo possibile quanto di più caro possedete e a doverlo mettere in una valigia. 
Soprattutto, immaginate di doverlo fare quando, da innocenti, sulla vostra testa oscilla l'atroce spada di Damocle di un ergastolo. Aggiungete, nel vostro immaginario, che questa spada continui a seguirvi ovunque per vent'anni. 
E a dondolare, dondolare, dondolare ovunque vi troviate, anche se lontani da casa vostra. 

Per Pinar Selek non è un allucinante frutto dell'immaginazione, ma l'assurda realtà nella quale è intrappolata oramai da due decenni. Sociologa, docente, scrittrice e attivista femminista turca, è stata interrogata nel 1998 perché portava avanti ricerche, interviste e articoli sulla questione curda; arrestata l'11 luglio dello stesso anno con l'accusa di essere complice del PKK, è stata torturata perché non confessava i nomi dei suoi interlocutori. 
Circa un mese più tardi, il 20 agosto scopre in prigione di essere accusata di terrorismo: con un falso testimone si sostiene che la donna abbia messo una bomba al Mercato delle Spezie di Istanbul. Da qui inizia il suo calvario senza fine. 
Perché tra assoluzioni e ricorsi eccezionali della Corte d'Appello e della XII Corte di Istanbul esiste costante (e mai placato ancora oggi) il pericolo per l'attivista scrittrice di essere condannata ingiustamente all'ergastolo. 
Era questa la deterritorializzazione!
La teoria non resisteva all'esperienza. I milioni di rifugiati che la guerra e la violenza hanno impoverito... Tutte quelle persone condannate a una vita instabile dopo aver perduto le loro vite di prima e le loro case – quelli che si sono lasciati alle spalle un fuoco acceso nel camino, quelli che sono dovuti fuggire in fretta portando quasi niente perché il tetto gli stava crollando addosso, quelli che dopo aver superato l'ostacolo delle frontiere vivono come paria nei Paesi in cui sono arrivati per sfuggire alla povertà... gli esiliati di guerra e della miseria non approfittano dei vantaggi della deterritorializzazione, fanno l'esperienza della povertà, dell'insicurezza e della disperazione senza fondo. (p. 25-26)
Il breve saggio è la raccolta dei suoi scritti riguardanti la sua gioventù, la sua voglia di non piegarsi al patriarcato, la necessità di viaggiare e di studiare finché si trovava ad Istanbul, la sua città. E poi d'improvviso, tutto cambia. Prima l'arresto, poi l'accusa infondata e infamante di essere una terrorista, la condanna che va e viene di ergastolo e ancora l'esilio forzato nel 2009. 
Gli scritti divengono più maturi, le considerazioni più ampie e spaziano dalla sua condizione a quella dei rifugiati. Gli anni che ha trascorso in Germania, i primi dell'esilio, sono stati difficilissimi. Sebbene conoscesse la lingua, non riusciva a entrare in sintonia con quel Paese. Poi finalmente il grande passo: resasi conto dell'insoddisfazione che le generava la terra tedesca, facendo un esame di coscienza si è ricordata che sino al liceo ha studiato e amato non solo la lingua francese, ma anche la cultura e la letteratura decidendo così di compiere un nuovo, grande passo, ossia trasferirsi in Francia. 
La vita di Pinar Selek, nonostante provasse perenne nostalgia di Istanbul, cambia in meglio: entra a far parte di alcune associazioni, ne fonda lei stessa altre, prosegue con la scrittura di racconti fino a pubblicare i primissimi romanzi. 
Quello che le è mancato in Germania, dichiara in un capitolo, sono stati i punti di riferimento che ha successivamente trovato in Francia. 
Intanto è circondata dalla solidarietà che arriva da tutto il mondo: sono molteplici le manifestazioni, gli incontri, i dibattiti tenuti negli anni per sostenerla e per difenderla. Diventa simbolo dell'emancipazione e del femminismo. 
Nel 2013 ottiene asilo politico in Francia e nel 2017 la nazionalità francese. Si trasferisce a Nizza, dove vive ancora oggi. 
Nel 2010, dopo lunghi esami, un rapporto psicologico redatto da un'équipe di esperti ha attestato tutte le torture che avevo subito. E lì ho letto, con inquietudine, la lista dei problemi post-traumatici che mi avevano diagnosticato. Ci sono tutti. E la persecuzione giudiziaria e politica è un'ulteriore forma di tortura. Anche con le grandi risorse di cui dispongo e con la mia incrollabile volontà di non farmi annientare, non sto bene. (p. 54) 
Lo stile vanta un'eleganza e una dignità rari. È un saggio di denuncia, certo, e anche di “consolazione” per tutto quello che la scrittrice ha dovuto sacrificare, sopportare e subire ma senza mai essere esplicita. D'altronde il titolo richiama il suo rapporto con la casa a strette e ad ampie vedute. La casa come luogo fisico, ma anche la casa come la propria città d'origine. Una strada con due carreggiate le quali poi fondamentalmente si uniscono perché per alcuni sono la stessa cosa. 
Non troverete nel testo descrizioni cruenti, non troverete neanche l'elenco delle torture da lei subite, il racconto del carcere o altre situazioni incresciose che Selek ha dovuto affrontare. Le troverete al più accennate come riportato nella citazione precedente. Sono allusive, eleganti appunto, di profonda dignità e riservatezza che la rendono unica. Non è mai uno sfogo il suo, non è mai un lamento, bensì un lavoro di introspezione e di filosofia che nella delicatezza adoperata fa comprendere quanto dolore vi sia ancora dentro questo percorso incerto e ancora non risolto. 
[Sull'esilio] Somiglia a ciò che si prova quando i punti di riferimento abituali spariscono. Questa piccola esperienza di vertigine e di nausea, illustra bene la psicologia dell'esilio. Il suolo sul quale si sta sembra tradirci, è instabile. (p. 27)
Nel libro ci sono continue rielaborazioni filosofiche della sua personale definizione di “casa”. Nell'incipit del testo lo è quella fisica e d'origine, dove nasce e cresce con la sua famiglia. Poi diviene la strada, quella in cui lei aiuta senzatetto e persone in difficoltà (ad oggi non ha mai scritto nulla sulla sua esperienza da volontaria per questioni etiche e di coscienza). Ancora vi è una nuova visione, secondo cui la sua casa sono gli amici. Quando è costretta il 6 aprile del 2009 a lasciare in un giorno la sua Istanbul e la sua casa, si convince che la sua casa è il mondo con la sua valigia. 
Una definizione conclusiva è necessaria, e ci riconduce alle prime due pagine del saggio in cui Pinar Selek confessa che da giovanissima, con le sue amiche, ripeteva spesso un aforisma di Virginia Woolf: “Come donna, non ho paese. Come donna il mio paese è il mondo intero”. 
Una citazione profetica. 
Forse vi sarà capitato di vedere Il sogno delle nostre montagne, uno spettacolo di Yeraz, un gruppo di danze armene. È straordinario. Sul finale risuona un grido: “Avete rubato le nostre montagne. Ma noi siamo le montagne!”. Piangendo per l'emozione ho mormorato più volte: “Mi avete rubato la vita. Ma io sono la vita”. (p. 55) 

Alessandra Liscia