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Quando i luoghi diventano protagonisti: il romanzo d'esordio di Massimo Coppola

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Un piccolo buio
di Massimo Coppola
Bompiani, 2019

pp. 272
€ 17 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)

“Mamma, com’era papà quando era giovane?”“Un uomo normale. Svizzero. Un po’ vecchio per me.”“Lo amavi?”“No. Mai.”“E lo avevi detto alla nonna?”“No. Mai.”“Perché?”“Perché non le importava. La guerra ci aveva trasformati tutti in bestioline del bosco. Impaurite, col cervello piccolo così, disposte a tutto pur di trovare un riparo e qualcosa da mangiare. Nessuno di noi era più quello che era prima. Nessuno può essere giudicato.”“Mamma, i fasci possono e devono essere giudicati.”“Sì. Ma tua madre, tuo padre. Come puoi giudicarli? Tu mi giudichi?”“No, mamma. No.”“Vai a casa ora?”“No, mamma. Rimango con te stasera. Va bene?”“Va bene.” (pp. 105-6)

Leggendo le pagine scritte da Coppola la domanda che emerge è una: che cosa sono i luoghi senza le persone, e che cosa le persone senza i luoghi? È vero, sì, che le storie possono essere ambientate in diversi luoghi, così come protagonisti possono essere diverse persone; tuttavia ogni storia, intesa come evento unico e irripetibile, si compie proprio in quanto incontro fra le persone e i luoghi, sebbene questi siano  generalmente lo sfondo in cui le cose accadono, o ancora il palco sul quale le persone si muovono.
Ebbene, da ruolo di fondale il luogo, nel libro di Coppola, diviene protagonista vero e proprio: parliamo di Palazzo Vittoria 1936, unico elemento a persistere dall’inizio alla fine, vivo al punto da avere una propria voce e un proprio spirito, capace di incarnare lo Zeitgeist italiano durante i decenni: che sia attraverso un complemento d’arredo, un nuovo abito, un'acconciatura alla moda, o tramite la piaga dell’eroina negli anni ottanta e novanta, è fra le mura di questo palazzo storico di Milano che ritroviamo una forte impronta identitaria della nazione che siamo stati, che siamo e che, secondo l’autore saremo.
Nei cento anni di vita di Palazzo Vittoria vediamo l’avvicendarsi delle stagioni e delle generazioni: il figlio diventare padre, il nipote farsi nonno, gli amori esplodere nelle danze vitali per poi sfiorire e diventare ricordi difficili da smacchiare. I salti temporali, durante i quali ritroviamo i personaggi invecchiati, cambiati, erosi dal tempo, lasciano un senso di frammentarietà: a differenza dei romanzi ambientati nell’arco di trenta o quarant’anni, che seguono da vicino l’evoluzione del protagonista e lo vedono modificarsi giorno per giorno, qui il salto temporale ferisce perché la ragazzina che troviamo nelle prime pagine all’improvviso è vecchia, e quest’epifania coglie sia noi lettori sia la donna stessa, che d’un tratto si ritrova a fare i conti con la propria vita.
Questo fare i conti col passato è il filo rosso che, dopo tutto, lega le vicende: al di là dei fatti storici – la trama inizia sotto il fascismo, durante l’inaugurazione del palazzo, con la presenza del Duce stesso, e prosegue con la seconda guerra mondiale, e poi il boom economico fino a raggiungere i giorni nostri – la memoria, sia essa conservata sotto forma di foto, di lettera, di filmato, è ciò che ricorre spesso: dalla cinepresa del regista in erba Michele M. alla grande operazione chiamata semplicemente “Il Piano” del 2036, tutto è una lotta contro l’oblio. Una lotta feroce, perché forte è la tentazione di lasciar andare, di rimuovere, di coprire la polvere con altra polvere; eppure fondamentale risulta la necessità di sopravvivere alle persone scomparse e agli amori sbiaditi, andare avanti, pur tuttavia conservando dentro di noi qualcosa del passato.
Altro elemento che bene rappresenta l’idea di un intrecciarsi degli eventi è il variare dello stile usato nei vari racconti: uno stile variegato ma non contraddittorio, che va dal comico al tragico, dalla prima persona alla terza, dal passato a presente, quasi come a voler sperimentare le diverse anime della narrativa. A racchiudere tutto, tanto, c’è il pilastro di Palazzo Vittoria, che come un direttore d’orchestra ha il compito tanto necessario quanto complesso di creare unità.
Ho usato la parola “racconti”, e non a caso: sebbene si possa definire un romanzo, a mio avviso Un piccolo buio è meglio inquadrabile come romanzo di racconti. L’arco temporale lunghissimo impedisce ai personaggi di coprire l’intero iter narrativo, e le vicende stesse sono le più diverse e variegate; d’altro canto i temi trattati sono riconducibili a un’identità comune e, si è detto, Palazzo Vittoria funge da protagonista non umano. Identità e contraddizione fanno da collante, e in questa spirale intrecciata sta molto del suo fascino.
C’è un elemento che mi ha incuriosito molto di questo testo, al di là di quanto detto finora: mentre, soprattutto nei primi capitoli, sebbene siamo sotto l’ombra del fascismo, della guerra, della povertà, si trova sempre spazio per la leggerezza, la bellezza, il calore, nei capitoli avanzati e soprattutto nei due dedicati al prossimo futuro (2021, 2036) questa vena è quasi del tutto assente. A farla da padrone sono le incertezze, i dubbi, le angosce dei presenti, come a dire che la nostra parabola evolutiva (storica e sociale, intendo) sia compiuta, e tutto ciò che resta da fare sia osservare lo splendore dei vecchi marmi ormai opachi.
Un piccolo buio è un bel libro, fra le cui pagine c’è più di quanto sembri a prima vista.

David Valentini