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#IlSalotto - La maternità come luogo degli estremi: una conversazione con Silvia Ranfagni

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Foto di Simona Caleo
Per leggere Corpo a corpo bisogna essere disposti a mettersi in gioco in prima persona, esporsi a un testo che scaverà solchi e porrà domande a cui non si potrà sfuggire. Perché Corpo a corpo non parla solo alle madri, parla a tutte le donne, tutte le chiama in causa. Le obbliga a confrontarsi con le pressioni sociali che gravano su di loro, che scelgano di dare la vita, o che preferiscano non farlo. Il romanzo di Silvia Ranfagni (trovate qui la recensione) è importante e coraggioso perché non ha paura di porsi come pietra d'inciampo: non ha paura di smontare i tabù, di denunciare le ipocrisie, di utilizzare immagini forti, a tratti poco ortodosse, in grado però di toccare nell'intimo le lettrici che abbiano il coraggio di guardarsi dentro. Il tema dell'apertura, del resto, è centrale nell'opera, che utilizza la maternità come metafora per una più ampia riflessione sull'accoglimento e l'accudimento dell'Altro (necessaria ai nostri tempi).  Attraverso le figure di Beatrice, Elsa e il piccolo Arturo ("tre chili e nessuna pietà", per parafrasare l'incipit) molti temi, complessi e articolati, vengono affrontati con intelligenza e lucidità dall'autrice. Proprio per questo abbiamo voluto raggiungerla, per farci dire qualcosa di più.


Non è facile, da donna e madre, mettere a nudo gli aspetti più problematici e incongrui della genitorialità: cosa ha mosso la tua narrazione?
La maternità è il luogo degli estremi: noia, insofferenza e senso di oppressione inclusi. Volevo dare voce a questo sommerso e contribuire a rompere i tabù, partendo dalla mia stessa frammentazione. Ho usato un linguaggio politicamente scorretto e mi sono servita di una protagonista così egocentrica da risultare liberatoria, a volte comica nella sua intolleranza all’Altro. È una madre però che non arriva mai ad essere ‘mostro’, non finisce in cronaca, non è abusante, non fa niente di così pericoloso e quando si accorge di essersi spinta oltre il limite, ha i mezzi necessari per correre ai ripari. È una come tante, ma privilegiata: non solo può pagare un’altra donna per svolgere il duro lavoro dell’accudimento, ma prima di questo privilegio ha potuto fare ‘solo’ la madre. In questo avverbio ’solo’ c’è un grande inganno culturale contemporaneo.

Corpo a corpo
di Silvia Ranfagni
Edizioni e/o, 2019

pp. 159
€ 16

Leggi la recensione
Centrale in Corpo a corpo è la riflessione sullo scorrere del tempo come innesco dell’impulso alla genitorialità: procreare è dichiaratamente, per la protagonista, un modo per sfuggire alla morte. Questo mi ricorda molto da vicino uno dei racconti di Mauro Covacich all'interno de La sposa, “Sterilità”. Anche se trattata diversamente, mi pare comune l'idea che negli anni sia cambiata la funzione della procreazione. Covacich osserva che i genitori “non donano al mondo nuovi esseri umani, né donano figli alla vita, ma lasciano segni, esibiscono trofei, declinano in una forma più ambigua quella che resta a tutti gli effetti pura e semplice volontà di affermazione”. Anche in Beatrice si ritrovano tracce di questa attitudine: in più occasioni lei ribadisce il proprio senso di possesso sul figlio, il desiderio di controllo, ma anche un bisogno di realizzazione attraverso di lui. 
Secondo te cosa c'è alla base di questa trasformazione? Una maggiore fragilità dell'individuo?
Siamo più laici di un tempo dunque il sacrificio richiesto dall’accudimento non va più di moda: si dà, ma per ottenere, per ‘guadagnarci qualcosa’. Quando il neonato pesa ancora tre chili già porta addosso due tonnellate di aspettative narcisistiche. Non si genera più per ‘passare qualcosa’ ma per ‘completarsi’’. Così chiusi nello spazio angusto dell’Io ‘Affermarsi’ risulta un imperativo monco di direzione, vuoto di un credo: non è ‘Affermarsi per portare avanti una missione, un valore, un’idea’, la missione e il valore è ‘Affermarsi e basta’. Quali sono le conseguenze? La percezione di essere mortali ci coglie alla sprovvista: senza una meta più alta ai nostri giorni, l’angoscia del vuoto pare inghiottirci all’improvviso. Il racconto di Covacich è un pugno ben assestato, chiude con un’immagine potente che porto dentro, è un racconto che ho molto amato.

Nel romanzo, si racconta la crisi della donna occidentale benestante, forte delle sue certezze e della sua individualità, nel momento in cui si deve confrontare con l'Alterità. In questo caso, l'Altro ha due facce: il Corpo, che è più facilmente decifrabile nella sua capacità di far uscire la madre dalla sua routine egoriferita, ed Elsa. Lei è una donna semplice e concreta, portatrice di valori che la protagonista non riesce a condividere: per la tata, trasparente, generosa, estroversa, e sostanzialmente priva di limitazioni e sovrastrutture ideologiche, la cura della prole è naturale in un modo che Beatrice non capirà mai. In questo senso di fatto assume una posizione di superiorità che smonta quella pretesa e rivendicata dalla protagonista. Questa tensione tra due diversi modelli femminili, ma anche tra due opposte concezioni dell'esistenza, è in qualche modo risolvibile? Se sì, come? E se no, perché?  
La tata proviene da una realtà dove la sopravvivenza non è data per scontata. Chi ha la consapevolezza di essere ancora vivo, solo ospite dell’esistenza, non ha bisogno di manuali pedagogici per sapere cosa sia necessario insegnare a un bambino. La rinuncia è una grande educatrice. Noi qui in occidente non dobbiamo preoccuparci di vivere, ma ci preoccupiamo molto di ‘vivere bene’ e paradossalmente gran parte della nostra infelicità viene proprio da questo. La tata non è un personaggio del tutto positivo: è molto competitiva, è invadente – esattamente come da alcuni viene percepito il flusso migratorio in casa propria – ma ha le idee chiarissime in fatto di valori da passare. Del resto l’edonismo, la carriera, l’autoaffermazione hanno poco a che fare con il ciclo della vita. 

Una delle scene più divertenti e toccanti del romanzo è quella in cui Beatrice e Arturo si trovano alla mostra di Van Gogh: la spontaneità del bambino di fronte a concetti quali la vita e la morte infrange prepotentemente i tentativi di contenimento della madre, per cui tra l'altro gli stessi argomenti sono quasi un'ossessione, un tabù da ostracizzare. Attraverso gli occhi del figlio, però, la madre riesce a trovare un contatto intimo e vividissimo con la figura geniale e disperata del pittore, a provare un momento di intensità e vera empatia. Questo ci mostra che l'apertura all'altro e l'assunzione della prospettiva altrui possono diventare matrici di crescita. 
È questa la morale positiva del romanzo, o soltanto un'illusione, subito spazzata via in Beatrice dal ritorno prepotente del tempo e delle preoccupazioni più concrete che vi sono connesse?
Quella di Van Gogh è una scena chiave del romanzo. La madre depressa e edonista non riesce ad affrontare la più piccola rogna, figuriamoci confermare l’esistenza della morte al proprio figlio. È una madre che non vuole procurare dolore al bambino per non affrontarne il peso, una donna che intrattiene, ma non educa perché attraverso il figlio vuole solo sfuggire all’angoscia, una angoscia così grande da risultare comica. Ma è proprio nei rari momenti di apertura all’altro che le arriva la pienezza, che si libera da ciò che più la tormenta. Il romanzo racconta esattamente questo: non serve necessariamente essere genitori per aprirsi, anzi essere genitori non garantisce di aprirsi, ma certamente rappresenta un’occasione. 

Io, pur non essendo madre, ho trovato il tuo libro di una durezza necessaria, soprattutto nella sua capacità di smontare o disinnescare tutte le aspettative che gravano su noi donne in una società che ci vuole imporre dei ruoli preconfezionati, puntando sulla loro "naturalità" e senza avere il coraggio di denunciarne le zone d'ombra. Al tempo stesso, penso che molte delle idee che il testo fa emergere possano risultare scomode a chi non percepisce l'importanza della letteratura come fattore destabilizzante dell'esistenza, in grado di muovere la ricerca. Quale riscontro hai avuto dai lettori/le lettrici? 
Ci sono due tipi di rimpianto: non avere avuto un figlio e averlo avuto – rinunciando alla libertà. (Grazie al mondo congiuntivo del ‘se fosse stato che’, ci si può dannare in ogni situazione!) Il libro risulta liberatorio per entrambi i casi. Mi sono arrivati dei grazie sia dalle madri – per avere capito cose che non erano mai riuscite a dirsi – sia da persone senza figli – per essersi sentite finalmente liberate dal peso di una scelta, socialmente bollata come ‘mancanza’. 

Carolina Pernigo