in

La poesia al servizio della libertà. Un ricordo di Antonio Machado a 80 anni dalla morte

- -
Si mi pluma valiera tu pistola/ de capitán, contento moriría.

Così scriveva Antonio Machado nel 1937 al Generale dell’esercito repubblicano Enrique Líster. Il poeta aveva messo a disposizione della causa antifascista la sua lirica e la sua arte, pur essendo consapevole che la forza della ragione espressa dal suo canto poetico per la libertà e la democrazia, non aveva scampo contro la ragione della forza dell’esercito franchista. Sono circa una decina i poemi di Machado dedicati alla guerra, vigliaccamente esclusi dal volume Poesía completa pubblicato in pieno franchismo e spregiudicato tentativo del Regime di far propria la voce poetica machadiana.

Il distico citato fa da controcanto a un altro urlo di dolore, rabbia e impotenza, quel vencereis pero no convencereis che Miguel de Unamuno sputò in faccia al generale Millán Astray nel 1936 nel Paraninfo dell’Università di Salamanca, il tempio dell’intelligenza cui il militare fascista aveva augurato la morte, e di cui l’autore di Nebbia era rettore.

La Guerra Civile Spagnola fu il primo capitolo di un conflitto che poi sarebbe proseguito fino al 1945, il primo campo di battaglia dove si affrontarono fascismo e antifascismo, l’unico in cui l’esito fu esattamente opposto a quello del resto d’Europa: il primo aprile del 1939 il generalísimo Francisco Franco entrò a Madrid e prese definitivamente il potere instaurando una dittatura fascista, appoggiata dalla Chiesa Cattolica e straordinariamente longeva. La democrazia ritornerà in Spagna solo nel 1978, con l’approvazione per referendum della vigente Costituzione, scritta dall’assemblea costituente eletta nel 1977, nelle prime elezioni libere dopo 41 anni da quelle repubblicane del 1936.

Nei primi mesi del 1939, mentre l’Europa si preparava a sprofondare nella Seconda Guerra Mondiale, migliaia di spagnoli prendevano la via dell’esilio, un esilio che per molti non fu una condizione di transito, ma si trasformò in un luogo senza tempo in cui vivere, fino a trasformarlo in una categoria esistenziale (María Zambrano avrebbe scritto negli anni yo amo mi exilio). Come ben spiegato da Mari Paz Balibrea (Tiempo de exilio, 2007), il tempo dell’esiliato non contempla la terza dimensione: il futuro era impossibile da declinare fino a quando Franco fosse rimasto al potere. Esistono solo il passato, che assume i contorni di un non tempo onirico, e il presente, che arriva ad avere la forma di una gabbia in cui l’esiliato fatica a muoversi. L’estrema conseguenza è l’esclusione dell’esiliato dalla modernizzazione della Spagna, che pure avviene tra la fine degli anni ’50 e gli anni ’60, quando il Regime è costretto ad aprire agli investimenti stranieri sul territorio spagnolo per poter sopravvivere. Sarà, però, questa apertura, insieme a una naturale evoluzione della società spagnola, a iniziare una lenta agonia che finirà con la liberatoria morte del dittatore (Manuel Vázquez Montalbán ammise di aver stappato una bottiglia di cava una volta appresa la notizia della dipartita di Franco). In questa labirintica parabola dittatoriale, l’Europa accettò il regime franchista come un male minore, voltandosi ipocritamente dall’altra parte per quasi quarant’anni.

L’esilio repubblicano spagnolo del 1939 fu una delle diaspore più drammatiche della storia del nostro continente. Romanzieri, poeti, ingegneri, architetti, docenti universitari, medici, intellettuali, insomma il meglio di quello che la Spagna aveva creato e formato tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX attraversava la frontiera francese dopo aver coniugato armas y letras per tre anni di guerra, chi nella retroguardia, chi posando la penna nel calamaio e imbracciando il fucile.

Al di là dei Pirenei, però, il dramma non era terminato, perché la società francese del tempo era troppo spaventata per dare accoglienza al vicino che fuggiva da fame, miseria e persecuzione politica. Furono molti gli esuli che passarono attraverso i campi di concentramento dell’Ariège o di Saint Cyprien, per non parlare di quelli che, in un disumano meccanismo logistico, furono spediti in Algeria, a Djelfa (Max Aub), o in Germania (Jorge Semprún), nei lager nazisti. Una storia, quella dell’esilio repubblicano spagnolo del 1939, che ha degli inquietanti riflessi nella crisi migratoria che stiamo vivendo in questi ultimi anni. Ma non è questo il momento di parlare del presente, preferisco che il lettore si lasci guidare dalle suggestioni che questo ricordo può far sorgere e faccia da sé i giusti paralleli con il nostro XXI secolo.

Antonio Machado non passò per i campi, né ebbe modo di attendere una delle tante navi che dai porti francesi portavano gli esiliati in America, in quella che per molti di loro era l’ultima tappa del viaggio della vita. Il poeta sivigliano morì a Collioure, in Francia, il 22 febbraio 1939, vecchio, stanco, lacerato da una guerra che l’aveva separato dal fratello Manuel, anch’egli poeta, e sostenitore dei generali ribelli.

Machado morì di esilio. Come scrisse Manuel Aznar Soler (Antonio Machado y el exilio republicano de 1939 en Francia, 2014), questo significa “morire di amarezza, di cuore infranto, di angoscia profonda, dell’angoscia del destierro, del dolore della sconfitta per la perdita della Spagna, del dolore della sconfitta di alcuni valori repubblicani per cui Antonio Machado aveva lottato con la sua penna durante la Guerra Civile”. Machado diviene il secondo poeta della triade epica dei lirici antifascisti spagnoli insieme a Federico García Lorca, assassinato dall'esercito franchista nel 1938, e Miguel Hernández, morto di inedia nelle carceri del Regime nel 1942.

Machado morí travolto dalla ragione della forza, dopo aver per tre anni cantato la forza della ragione, pur consapevole dei limiti delle sue armi. Ma era doveroso farlo, perché, come alcuni anni dopo ebbe a dire Max Aub, un altro scrittore di quell’esilio drammatico, l’intellettuale è quella persona per la quale i problemi politici sono anzitutto problemi morali.

Tu carta -oh noble corazón en vela,
español indomable, puño fuerte-,
tu carta, heroico Líster, me consuela,
de esta, que pesa en mí, carne de muerte.
Fragores en tu carta me han llegado
de lucha santa sobre el campo ibero;
también mi corazón ha despertado
entre olores de pólvora y romero.
Donde anuncia marina caracola
que llega el Ebro, y en la peña fría
donde brota esa rúbrica española,
de monte a mar, esta palabra mía:
"Si mi pluma valiera tu pistola
de capitán, contento moriría".

Alessio Piras