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Innocenze tradite: un nuovo romanzo per Marco Franzoso

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L’innocente
di Marco Franzoso 
Mondadori, 2018

pp. 156
€ 18,00 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)


Un bambino di dodici anni che deve affrontare una giornata risolutiva: per quanto provi a evitarlo, sa – per esperienze personali che alla sua età non dovrebbe aver vissuto – che il tempo non si può fermare. Accanto a lui, una madre fragile, incapace di accudimento, che continua a piangere per dar sfogo al dolore che la attanaglia dalla morte del marito e chiede insistentemente ai figli un aiuto, quando dovrebbe essere lei a supportare loro. La donna balbetta frasi sempre incomplete, riversa la propria debolezza sui familiari, e non riesce davvero a conquistare la compassione del lettore. Matteo, di contro, è sensibile e taciturno, il suo malessere si manifesta attraverso terribili crampi alla pancia, mai dichiarati per non creare ulteriori preoccupazioni agli adulti.
A un terzo del libro, chi non abbia letto la quarta di copertina non ha ancora capito dove la storia stia andando a parare. Il breve viaggio che il ragazzino e la madre devono fare, verso la "Stanza delle Parole", viene dilatato all'infinito da continue interruzioni e flashback. Le conversazioni che hanno luogo nell'abitacolo sono vuote, superficiali, girano intorno all'elefante nella stanza senza sfiorarlo mai. Matteo, che risponde sempre nel modo che gli altri si aspettano, senza mai dire la verità dei suoi sentimenti, lo avverte chiaramente:
Matteo aveva pensato alle parole. Gli era sempre sembrato che fossero delle cose più profonde delle cose vere, invece adesso capiva che certe parole non volevano dire niente, erano solo fiato, voce senza niente dentro. (p. 61)
Solo un po' alla volta si inizia a intuire che è stato commesso il più terribile tra i crimini, quello che va a ledere l'innocenza, e da parte di una mano che più di ogni altra dovrebbe custodirla e rispettarla. Su questo crimine Matteo è chiamato a testimoniare, e la parola torna centrale come oggetto della denuncia e della narrazione. L'Avvocato, caricatura squallida e insensibile del professionista, la fa facile, "mezz'ora di teatro e poi torniamo a casa" (p. 64), ma Matteo sa che le cose, la vita, sono molto più complicate. Le parole non bastano a dire la verità dei pensieri, così si crea una divaricazione netta tra quello che cova nella mente del bambino e quello che viene riportato all'esterno, per lo più attraverso monosillabi. Le parole la verità la confondono: quello che prima sembrava certo viene rimesso in discussione, mentre cose che erano incerte assumono, dopo la formulazione di certe frasi, un carattere di ineludibilità. 
Sapeva che era stata colpa sua. Si vergognava di aver capito troppo tardi il senso delle parole e di aver distrutto tutto con le sue parole, anche se era l’ultima cosa che avrebbe voluto. Le parole, si ripeteva alle volte, sono malate. Lo aveva capito dopo aver conosciuto il Giudice, con lei aveva sperimentato un significato nuovo delle parole, visto che alcune avevano la forza di portare in sé qualcosa di irreversibile, come un virus. […] Le parole hanno due facce, una visibile e una nascosta, perché tutto è doppio, non ci possiamo fare niente. (p. 87)
Le parole rappresentano un pericolo perché sono irreversibili e producono conseguenze, ma sono anche una tappa fondamentale nel passaggio all'età adulta: “il mondo dei grandi era costruito proprio su queste parole, come una casa è fatta di mattoni” (p. 88). Peccato che, attraverso gli occhi di Matteo, "l'innocente", il mondo adulto appaia un quadro grottesco. E l'interrogatorio è talmente incalzante, talmente aggressivo, che nella prospettiva del bambino il colpevole sembra essere lui stesso, più che il vero responsabile:
Avrebbe voluto difendersi, ma non era rimasto niente da difendere, loro avrebbero fatto di lui ciò che volevano. Matteo era finito, non esisteva più niente dietro quel nome. (97)
L'impressione del lettore è quella di una nuova violenza esercitata su Matteo dai tutori della giustizia: una violenza che, rispetto all'altra, muta la forma, certamente gli obiettivi, ma di poco la sostanza. È una violenza “a fin di bene”, che viene spacciata per necessaria ("Bene bene bene" riprese [il Giudice]. "Adesso sei grande davvero, bravo, Matteo. [...] Sei diventato Grande e hai capito. Sei stato molto bravo. Per questo da adesso possiamo parlare con te come parleremmo a un adulto", p. 102), ma nel corso della lettura ci si chiede se in effetti lo sia. Ci si chiede soprattutto se un bambino di dodici anni, nel momento della sua massima fragilità, possa e debba essere costretto a comportarsi come un adulto.

Dati questi presupposti, complessi e tutt’altro che banali, da qui avrebbe potuto dipanarsi una riflessione sulla natura del sopruso, sul trauma e la sua rielaborazione, sulle discrasie profonde di una famiglia che potrebbe essere qualsiasi famiglia; sulla difficoltà per le vittime, sui sensi di colpa, sull’ambivalenza delle emozioni. Sugli strascichi nel tempo, che a volte non passano mai. Su come l’infanzia percepisca la colpa e, appunto, l’innocenza.
Da qui avrebbe potuto derivare un finale forte, nuovo. In qualche modo, invece, il romanzo si perde, manca il suo obiettivo (o l'obiettivo dell’autore non riesce a risultare chiaro al lettore). Il percorso circolare (anche fisicamente, nell'andata e ritorno dalla "Stanza delle Parole") che porta Matteo a crescere e a riappacificarsi col passato, in particolare con la memoria del padre, è in parte deludente, perché disinnesca il potenziale critico del romanzo, spegne le micce accese precedentemente, soffoca la tensione che era riuscito abilmente a creare. Il romanzo resta scritto bene, attento nella caratterizzazione dei protagonisti, incalzante in dialoghi che denunciano le fragilità e le incapacità dei personaggi coinvolti. È un peccato che, nella decisione di assumere il punto di vista dell’innocente, l’autore non abbia voluto spingersi un po’ oltre. 
Certo, si può pensare che, nell’ottica della vita reale, le scelte narrative di Franzoso siano costruttive, vogliano trasmettere un messaggio di speranza. Alla letteratura, tuttavia, forse si può chiedere qualcosa di più.

Carolina Pernigo

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