in

"Nemico, amico, amante" di Alice Munro: la malattia, l'amore, il conforto umano

- -
Nemico, amico, amante...
di Alice Munro
Einaudi, 2005

Traduzione di Susanna Basso
pp. 315

13 euro


Ma certe cose capitano. C’è gente che affonda, che nessuno aiuta in tempo. Che nessuno aiuta affatto. C’è gente che sprofonda nel buio. (p. 205)
Quante sfumature ha il dolore?
Cosa significa amare, se sei donna?
E cos’è, poi, l’amore?
Dubbi che assillano ognuna di noi almeno una volta nella vita sono gli interrogativi fondamentali dei nove racconti di Nemico, amico, amante… di Alice Munro, scrittrice canadese Premio Nobel per la Letteratura nel 2013.
Già recensita da Giulia Pretta (qui trovate il suo articolo), questa raccolta è arrivata nella mia libreria un po’ per caso, un po’ per scelta, in un particolare momento storico, quello della recente approvazione della legge sul Testamento Biologico, che mi ha offerto una chiave di lettura insolita.
In una raccolta di racconti si cercano dei fili conduttori, spazi di riflessione comuni alle storie: se sono parte di uno stesso libro, si pensa, una ragione (o più di una) ci sarà. Anche nell’offrire una chiave interpretativa, dunque, occorre seguire le tracce che l’autrice ha seminato all’interno del libro, quelle impronte di senso simili che si scoprono andando avanti nella lettura, nascoste dietro episodi sempre diversi.

È innegabile che si tratti, come ben analizzato da Giulia Pretta, di nove racconti sul tema dell’amore e, in particolare, sull’amore declinato al femminile. Il sentimento è qui presentato al di fuori di ogni stereotipo romantico, come moto del corpo, ancor prima che dell’animo e della mente. Alice Munro sa guardare all’amore di una donna per un uomo, spogliandolo di ogni orpello sentimentalistico.
Ogni racconto è animato, innanzitutto, da un erotismo primordiale. Gesti, sguardi, pensieri descritti declinano alla perfezione l’eros, mi verrebbe da dire, femminile, ma sarebbe più corretto definirlo “universale”, poiché quella della donna è una sensualità così ricca e complessa da includere in sé ogni sfumatura erotica umanamente esperibile.
Portami, aveva detto così. Portami da un’altra parte, e non Andiamo da un’altra parte. Questo è importante per lei. Il rischio, il trasferimento di potere. Andiamo avrebbe contenuto il rischio ma non l’abdicazione che per lei (…) coincideva con l’inizio della fase erotica. E se lui avesse abdicato a sua volta? Un’altra parte, dove? Non avrebbe funzionato (…). Lui deve dire esattamente quello che ha detto. Lui deve dire, . (p. 229)
Quanta semplicità, e pure quanta complessa verità, in una manciata di righe che spalanca di fronte ai lettori una finestra sull’esatto significato di eros: abdicazione, rischio, potere.
Al di là di questo, però, il filo rosso che unisce i nove racconti è rappresentato, a mio parere, dall’esperienza della malattia e del conseguente dolore. In ognuna di queste storie, il nucleo pulsante è costituito dalla sofferenza e dalla capacità di far fronte a essa.
Ma ormai sapeva che nella vita viene il momento in cui brutto e bello svolgono più o meno la stessa funzione, quando tutto ciò che guardi altro non è che un gancio a cui appendere le sensazioni scomposte del corpo, e i brandelli della mente. (p. 58)
Con delicata emozione, Alice Munro scopre davanti ai nostri occhi gli intimi sconvolgimenti che investono una persona, un’intera famiglia, quando la malattia entra in una casa: il letto con le sbarre da comprare, il lutto di un figlio morto prematuramente, le risa scomposte che sorprendono nell’ascensore di una clinica, quando si è appena ascoltata una diagnosi che non lascia speranze.
Ognuna di queste scene racconta alla perfezione la quotidianità del dolore, la verità della malattia (e della morte): non ci sono le lacrime inconsolabili, le urla strazianti e melodrammatiche dei film. C’è, invece, un dolore sgomento, che chiunque tra i lettori può riconoscere come il proprio:
Non aveva voluto nessuno presente, nessuno che la osservasse impegnata nelle ricerche (…), nessuno a ricordarle che doveva ricomporsi. Era già buio da un pezzo quando si rese conto che doveva mangiare qualcosa. Magari poteva chiamare Margaret. Ma non fece nessuna di queste cose. Si alzò, pensando di chiudere le tende, e invece spense le luci. (p. 124)
Il dolore vero, sordo, sta proprio lì, in quel gesto apparentemente banale: Nina si alza pensando di chiudere le tende, e invece spegne le luci. Vuole chiamare un’amica, ma non lo fa. Sa di aver fame, ma dimentica di mangiare. Il dolore vero, sordo, è il rumore reboante che copre ogni pensiero sensato, che ovatta la realtà fino a farla scomparire, la svuota di significato. E così, nel dolore, anche noi (e i nostri gesti) perdiamo di significato.

È curioso come i libri arrivino sempre al momento giusto, nella vita di un lettore: grazie ad Alice Munro ho dato un significato nuovo, ancora più nobile, alla battaglia per il Testamento Biologico, culminata il 14 dicembre scorso in una nuova legge che riconosce la libertà dell’individuo di scegliere del proprio destino in caso di malattia.
Che cosa si aspettava di trovarci? Non aveva bisogno di istruzioni. Di certo non le occorreva una spiegazione, e meno che mai una richiesta di scuse. Qualunque biglietto non avrebbe potuto dirle niente che già non sapesse. (…) Avevano parlato – anzi, lui aveva parlato – della soglia tollerabile di invalidità, dolore fisico e ripugnanza, e di come fosse essenziale riconoscerla e non superarla. Meglio troppo presto che troppo tardi. (p. 119)
I libri non ti dicono mai cosa pensare, né quali scelte fare. Ti mostrano un sentiero, attraverso il quale puoi ampliare il tuo orizzonte, imparare a guardare con occhi diversi, più consapevoli.
In questo passaggio c’è tutto il senso, il valore di un principio che si è fatto legge: il testamento biologico è il riparo e il baluardo di coloro che vedono la malattia e la sofferenza come invalidità, dolore, ripugnanza. Una scelta civile che offre, al malato, il conforto della dignità.
È qui che si giunge all’estremo filo conduttore dei nove racconti, forse il senso fondante dell’intera raccolta: storie di sofferenza, è vero; storie d’amore, anche, sebbene lontano da quello che la letteratura usualmente ci racconta; ma storie, sopra a tutto il resto, di umano conforto (e così si intitola, infatti, uno dei più bei racconti di questo libro).

Conforto: una parola desueta, eppure di tale dirompente forza. Confortare è qualcosa di più che provare pietà, è estremamente più significativo di aiutare. Conforto è essere in due, respirare vicini, condividere calore.
In ognuno di questi racconti, alla sofferenza fisica e mentale si trova sollievo in un conforto offerto sempre (e soltanto) da individui altri, esterni alla propria famiglia e alle relazioni, da sconosciuti.

Alice Munro offre in questo libro, in definitiva, una risposta originale ai dubbi sollevati al principio di questo articolo: c’è gente che affonda, che nessuno aiuta?
Il conforto è possibile, se si è disposti ad aprirsi agli occhi di un estraneo: uno sconosciuto non giudica, non ha, osservandoci, un bagaglio di rancori e retrospettive; uno sconosciuto può abbracciare la nostra sofferenza «foderando di calore umano la solitudine» (p. 175).
Ed ecco, allora, che si ottiene una risposta tutt’altro che scontata alla domanda fondamentale: cos’è l’amore?
Molto vicino all’interpretazione poetica di Fabrizio De André, che si innamorava delle «belle passanti» («e magari sei l’unico a capirla, e la fai scendere senza seguirla»!), l’amore per Alice Munro è un fugace momento di conforto scolpito nella tua anima da una mano sconosciuta.

Barbara Merendoni