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Il troppo che a volte "stroppia": "Nulla (o forse qualcosa) da ridire"

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Nulla da ridire 
di Marco Cubeddu, Christian Raimo, Carola Susani, Filippo Tuena, Antonella Cilento, Emiliano Ereddia
Corrimano edizioni, 2015

pp. 143
€ 17,00


Copertina accattivante, edizione gradevole, Nulla da ridire è un'opera che parte da una bellissima idea, ma presenta qualche inconveniente nella realizzazione. L'intento è ambizioso: sei scrittori prestano le loro voci (e le loro penne) per “ridire” grandi classici della letteratura. Come osserva Francesco Romeo, autore della prefazione, "le grandi opere racchiudono l'istigazione alla propria profanazione" (d’altronde, ci ricordava Italo Calvino, il classico è “un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire”). È sempre suggestiva l’idea della riscrittura, che ricrea e plasma parole amate dando loro nuova vita. Così è con curiosità e grandi aspettative che ci addentriamo nel testo e ritroviamo tra le pagine alcuni vecchi amici: Stefan Zweig, Herman Melville, Anton Čechov, Aleksander Puškin, Giovanni Boccaccio e addirittura Omero, che a loro volta concedono alcuni dei loro passi più celebri alla manipolazione e rielaborazione degli epigoni. L’esito di tale procedura sono racconti che “non dicono niente di nuovo, ovvero non dicono alcunché una seconda volta, dicono invece qualcosa di nuovo”. Un sofisma linguistico che anticipa alcune delle problematiche insite nella realizzazione del volume, colpevole a tratti di pretese eccessive e non sempre sufficiente chiarezza.

Non si riesce a capire, ad esempio (né l'introduzione fornisce indicazioni in tal senso) quale sia il criterio di selezione dei brani che gli scrittori hanno rielaborato, quale il criterio di ordinazione delle riscritture all'interno del volume. La bandella di copertina aiuta, segnalando un'intenzione (che viene definita “metodo”) quanto mai nebulosa di "rimontare le correnti del tempo". Non si capisce però come, non se ne vede il perché. 
È poi senz'altro lodevole l'iniziativa di proporre, delle fonti, il testo in lingua originale, ma in un'opera destinata alla divulgazione e alla fruizione non specialistica questo può forse avere senso con l'inglese, ne ha già un po' meno con il tedesco, non ne ha nessuno con il russo o il greco antico. Si sarebbe potuto serenamente, pur mantenendo l'idea di base, accostare al classico la sua traduzione, in modo da rendere davvero possibile un confronto con la rielaborazione. Senza comprensione – e interiorizzazione – degli originali, non si può avere una piena valorizzazione dei racconti ad essi ispirati. Neppure la prefazione chiarisce appieno il rapporto, risultando a volte più affettiva che esplicativa, configurandosi più come esercizio di stile che come interpretazione chiara e lineare dei contenuti che si andranno a incontrare. Una prova di tale scelta espressiva può essere il commento al racconto di Cubeddu, che vorrebbe essere una rielaborazione del primo capitolo de Il mondo di ieri di Stefan Zweig (ma casi analoghi si danno per ogni riscrittura). Così scrive Romeo, facendo riferimento all'inquietudine del protagonista:
la scrittura di Cubeddu non si arresta, non c'è mai il punto, anche se non è questo il punto, e di sicuro non è uno scimmiottamento di Molly Bloom, semmai il punto è il molle sfiorito ritmo della vita fuori dal flusso dei grandi Eventi Incandescenti che va interrotto, dire sì sì lo voglio sì lo voglio, alle clamorose vibrazioni nel centro dei Fatti, cogliere il perno dell'essere in vita e nel tempo pernottando all'addiaccio delle propria biologica paura, puntare i piedi e non transigere, transitare nella propria epoca con una banditesca macchina del tempo, puntare gli occhi su tutto ciò che conta e risuona ed è azione, uncinare l'essenza della propria biografia con una teleologica visionaria serie di punti interrogativi.
Alla fin fine, dunque, si salvano i racconti, che per fortuna parlano da soli. Accomunati da un'alta cifra stilistica, non tutti risultano – va detto – ugualmente accessibili. Alcuni scivolano lontano dal modello, desiderando produrre qualcosa di nuovo; altri hanno invece il coraggio di addentrarcisi, di scavare in profondità. I più non sono pensati per l'intrattenimento, ma per la riflessione: vogliono farsi specchio della contemporaneità, indagare la condizione dell'uomo d'oggi, spesso dello scrittore. Lo fanno con stili diversi, ma con un'uguale pretesa intellettualistica: il monologo-fiume di Cubeddu, il ritmo epico e sincopato di Ereddia, l'aneddotica divagante di Raimo... è però sui tre brani centrali, quelli che più hanno il coraggio di rinunciare a una morale, che l'esperimento si rivela più efficace. Sono questi, più degli altri, che lasciano al lettore qualcosa, fosse anche solo una scintilla di comprensione, di reale empatia: la protagonista del racconto di Carola Susani, ossessionata (e migliorata, e rassicurata, e squilibrata, e reinventata) dalle sue visioni; l’ingenuo Enzino di Antonella Cilento, con l’ape sul naso che fa primavera; il commento acronico – puntuale, evocativo – al duello di Eugenio Onegin di Filippo Tuena. Racconti che, ispirati e vivificati dai testi di partenza, riescono a parlare al lettore nonostante i difetti strutturali del libro. Rivelando che forse, e come sempre, Calvino aveva ragione.   
  
Carolina Pernigo