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#vivasheherazade: Deledda, Negri, Serao: vita di tre donne straordinarie

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Tre passioni.
Ritratti di donne nell’Italia unita

di Elisabetta Rasy
Prefazione di Paolo Mieli
BUR, 2011
(prima edizione Rizzoli, 1995)

pp. 279
euro 9,20

Esistono donne incapaci di volere dalla vita una vita qualunque: sono sempre esistite, e ancora esisteranno. Donne desiderose di stare al mondo semplicemente alle proprie condizioni, a dispetto di circostanze variamente sfavorevoli – quando non direttamente ostili – e in aperta contraddizione rispetto a destini già designati (quasi sempre di mogli e di madri, comunque in ossequio all’altrui volontà). Donne ambiziose, sicure della propria atipica femminilità, spesso decise a coltivare un proprio talento nel campo delle arti e per questo destinate al successo come anche al fallimento. In Tre passioni Elisabetta Rasy racconta la storia di tre di loro, tre figure le cui parabole ebbero in comune la nazionalità (italiana), il periodo storico (gli anni a cavallo tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento) e la vocazione letteraria: Grazia Deledda, Ada Negri e Matilde Serao.

Sono passati più di vent’anni dalla prima pubblicazione di questo lavoro – del 2011 è l’edizione BUR corredata dalla breve Prefazione di Paolo Mieli – eppure la sua rilettura non tradisce segni di particolare invecchiamento. Sarà forse proprio per l’insistenza sull’elemento “passionale” che, come da titolo, fa da comune denominatore alla triade di scrittrici, e che ribalta in positivo (ma non per partito preso) quella stessa vulgata pregiudiziale che, al tempo delle tre donne, avrebbe invece insistito sui pericoli insiti nella loro condotta, e dunque sulle derive nell’indecenza, nell’irrazionalità, nell’isteria. Attraverso le lettere, le testimonianze e le opere, Elisabetta Rasy restituisce tre profili destinati a imprimersi nella memoria di chi legge, in capitoli che già a partire dai titoli prescelti e dagli incipit lapidari, tutti nel segno della negazione, sono tra i primi indizi del temperamento atipico dei personaggi in questione, delle loro strade tutte in salita, e – contrariamente a ciò che si potrebbe pensare – della volontà non agiografica dell’autrice. Basta dare uno sguardo alle parole d’esordio del primo capitolo, Due passioni, dedicato a Grazia Deledda:
«la donna che scende dal treno alla stazione di Cagliari la sera del 22 ottobre 1899 non è bella, non è giovane, e lo sa».
Non sono certo più accomodanti quelle scelte per Soltanto una voce, incentrato sulla figura di Ada Negri:
«l’incarico al Collegio Femminile di Codogno non era certo un buon posto».
E che dire di Per invidia, per amore, la formula scelta per la sezione dedicata a Matilde Serao, il cui esordio insiste ancora una volta su una tipologia di negazione che, stavolta, è dell’esperienza:
«all’alba, la campagna su cui correva il treno le rivelò colori e un paesaggio che non aveva mai visto, o immaginato».
Con una prosa suggestiva e assolutamente letteraria, Elisabetta Rasy descrive gli alti e i bassi delle tre autrici senza applicare loro alcuno sconto, dunque senza tacerne miserie, errori, frustrazioni, travagli fisici e psicologici, educazione sentimentale e apprendistato culturale, delineando profili in cui non tardano a farsi notare i tratti comuni; basti pensare alle dinamiche familiari, sempre opprimenti o comunque penalizzanti, che vanno di pari passo con i problemi economici e pratici legati a una gestione del quotidiano faticosa, in contesti in cui le presunte conquiste della cosiddetta società moderna – quella italiana post-unitaria – trovavano invece un contrappasso ostinato nella subalternità obbligata della figura femminile, dunque nella sua sottovalutazione aprioristica; anche nel caso di un futuro Premio Nobel per la Letteratura (Grazia Deledda), dell’unica donna ammessa all’Accademia d’Italia (Ada Negri), della prima fondatrice e direttrice di un quotidiano (Matilde Serao).

Letto oggi, in tempi in cui l’ambizione e l’autodeterminazione femminile si confermano questioni ancora irrisolte e non meno problematiche di un tempo, questo lavoro si fa apprezzare sia per l’intensità esistenziale che riesce a trasmettere pagina dopo pagina, sia per il contributo pioneristico offerto alla ricerca – una caratteristica che risulta evidente soprattutto nel caso di Grazia Deledda, la cui figura, con la complicità degli anniversari della morte (1936) e dell’assegnazione del Premio Nobel (1926), è stata solo recentissimamente oggetto di un rinnovato interesse accademico e di una promozione culturale addirittura ridondante, che per certi aspetti corre il rischio di rivelarsi controproducente, trasformandone la figura (del tutto a sproposito) in un’ammiccante icona pop, e sfruttandone l’immagine all’interno di mere strategie di marketing. Al contrario, il migliore tributo che potrebbe esserle destinato – e lo stesso vale per Ada Negri e Matilde Serao – consisterebbe nell’onesta lettura delle sue molte opere oltre che nel rispetto della sua biografia, nel ricordo di un coraggio, di una forza e di una fatica ancora oggi capaci di muovere il pensiero, di suscitare immedesimazione o desiderio di emulazione.

Cecilia Mariani