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Diventare invincibili a vent'anni, in una lunghissima estate

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Un'invincibile estate
di Filippo Nicosia
Giunti, 2017

pp. 217
€ 15,00 (cartaceo)
€ 9,99 (ePub)



Ho conosciuto Filippo Nicosia nella primavera del 2013. All’epoca insegnava editing al Master in Editoria e Comunicazione che frequentavo a Roma. A colpirmi furono, da subito, l’enorme dedizione e la passione – che quasi declinava nella vera e propria riverenza – per il mondo dell’editoria e della narrativa. Come se i libri – la scrittura – fossero dei totem in cui credere per atto di fede, per puro trasporto, con amorevole rassegnazione.
Furono probabilmente questi sentimenti che, l’anno successivo, lo spinsero a lanciarsi in un’impresa totalmente pazza e insensata. Lasciare (o quasi) le case editrici (ovvero i luoghi in cui i libri si fanno) per aprire una libreria (lo spazio, allo stesso tempo concreto e irreale, in cui i libri vengono messi in contatto con i loro destinatari immaginari, i lettori). Ma non si trattava di una libreria tradizionale; parliamo infatti di un vecchio pulmino di nome leggiu che, imbottito con soli titoli di case editrici indipendenti, girava per i borghi più sperduti d’Italia nel tentativo di portare i libri – gli amuleti, gli oggetti del culto misterioso e misterico – laddove più ce n’era bisogno (e l’entità di questo bisogno è sempre inversamente proporzionale alla loro diffusione). La strana avventura che ne venne fuori è contenuta nel volume Pianissimo – libri sulla strada (Terre di Mezzo, 2014).
Un’invincibile estate (Giunti, 2017) è il primo romanzo del nostro folle librario itinerante. Si tratta, a una prima lettura, di un regolare romanzo di formazione: il protagonista Diego, nel corso di una lunghissima (e invincibile) estate, compie il complicatissimo giro di boa che segna il passaggio dall’adolescenza all’età adulta. Tutto avviene in fretta, senza pietà né vie di fuga. In apertura, il nostro studente di lettere e aspirante chef trova suo padre stecchito, con il volto riverso su un piatto di spaghetti al sugo. In breve, sarà costretto a riallacciare i rapporti con il fratello mai (o solo appena) conosciuto, a perdere Ester e trovare Martina, a sostenere il peso immane delle scoperte sentimentali, professionali, esistenziali. Nel raccontare tutto questo Nicosia si muove all’interno dei parametri del genere, ma solo in apparenza. Perché un romanzo non è mai il semplice prodotto delle cose che racconta. Esso anche il frutto di ciò che l’autore ci dice, mentre ci racconta d’altro. O di quello che l’autore ci dice senza dirlo. O, infine, di quello che l’autore non ci dice, sopprimendo il fortissimo desiderio di dirlo.
Se Un’invincibile estate è, in primo luogo, il racconto delle peripezie di un giovane ventenne messinese esso è, in secondo luogo, un libro che parla di libri, una scrittura che riflette sul senso stesso della scrittura. Il testo è infarcito di citazioni, quasi tutte esplicite (Vincenzo Consolo, Andrea Pazienza, Stefano D’Arrigo), mentre il titolo così come l’epigrafe, rimandano apertamente a una raccolta di saggi di Albert Camus. Inoltre, nei molti dialoghi del libro sono frequenti i commenti sul mondo dell’editoria, così come le letture emozionali e sentimentali di alcuni testi cari a Diego/Nicosia. Notiamo infine l’aperto rimando al già citato scrittore francese presente nella prima parte del romanzo di Nicosia; la perdita del padre, la distanza emozionale, l’incapacità di avvertire il lutto, la quasi indifferenza per la perdita, sembrano ricalcare le prime, laceranti, pagine de Lo straniero e le gesta del leggendario protagonista Meursault.
Ma dietro questo evidente gusto citazionistico, si cela un messaggio che sembra invertire la polarità degli elementi in gioco. Per quanto plasmare il mondo con le parole sia stupendo e appagante, per quanto ammantarlo con i nostri sentimenti e filtrarlo con le nostre emozioni rappresenti un piacere indescrivibile, nessuna di queste cose potrà, alla fine, metterci al riparo dalla violenza delle cose: alla fine subentrerà sempre la vita a sparigliare le carte. All’improvviso, ci si ritrova ad essere padri (o figli), ci si riscopre fratelli, si diventa amanti e amati, e ognuna di queste cose va presa per quello che è: un secchio d’acqua ghiacciata in cui si deve immergere la testa. In Diego il velleitario poeta e non troppo convinto studente di lettere cederà il passo all’aspirante cuoco. All’accarezzare la vita con le parole, Diego preferirà il condirla e modellarla con le mani, con i gesti, con il corpo. In questo senso, Filippo Nicosia ha scritto un romanzo con cui sottilmente ci dice che un romanzo è tutto, eppure non è mai abbastanza.
A questa analisi se ne accompagna un altra, altrettanto significativa; una di quelle cose che Filippo Nicosia cerca di non dire, sperando però che qualcuno, cogliendolo di sorpresa, lo scopra proprio nell’atto di nasconderla. La storia di Diego e di Giovanni, di Ester e Martina è, in fondo, solo un pretesto. Quello che l’autore vuole mettere in scena è in realtà un dramma diverso. Quel dramma infinito contenuto nei tre chilometri di mare che separano Messina da Villa San Giovanni, la Sicilia dall’Italia, l’isola dal resto del mondo. Quei tre chilometri che sono una distanza breve eppure incolmabile, ferita fisica ed esistenziale. La differenza tra il distacco fittizio di Diego e quello profondo di Meursault sta tutta qui. Il primo non può rimanere straniero alla vita, perché è un siciliano; e in Sicilia tutti sono stranieri, e quindi nessuno può esserlo davvero. Ogni siciliano è un arcobaleno che vive a cavallo tra due mondi, contiene tutti i difetti di ognuno, ma anche tutti i pregi: è inferno e paradiso, tutto e niente, brillantissima estate e lunghissimo inverno.
Per questo, al termine del suo percorso di formazione, Diego si troverà di fronte a una scelta senza scampo: decidere di andare via solo per scoprire che andarsene è impossibile. Cambiare pelle solo per scoprirsi immutabili e, dunque, felici. È così che Diego, (come forse Camus e come, sempre forse, Filippo Nicosia), conquisterà la luce al di fuori dal tunnel dell’inferno. Perché non c’è altro modo, per diventare invincibili, che quello di esperire, sopportare e superare il peso atroce della sconfitta.

Emiliano Zappalà



Anche David Valentini si è occupato di questo romanzo: leggi qui la sua recensione