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"Una specie di Spoon River": "Nulla", di Marcello Fois

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Nulla
di Marcello Fois
Il Maestrale, 2010
(prima edizione Il Maestrale, 1997)

pp. 134
Euro 10,00




In caso di recensione, si sa, la prima persona è sempre sconsigliata: è la terza a creare quella distanza igienico-oggettiva che disinfetta il giudizio da ogni coinvolgimento eccessivo, rendendolo, agli occhi di chi legge, di più sana e robusta credibilità. Ma è altrettanto vero che alcuni libri semplicemente la pretendono, la nostra prima persona, e che nei loro confronti l’eccesso di formalità sarebbe più straniante di due coniugi che si diano del lei fuori dalle mura domestiche. Certi libri, in un certo senso, si maritano e si ammogliano con noi, e dal momento di quella cerimonia ci impediscono di andare in giro senza la fede al dito. Nulla di Marcello Fois è uno di questi, e siamo “sposati” da due decenni esatti, ovvero dalla sua pubblicazione per la casa editrice Il Maestrale di Nuoro e dalla sua vittoria, nello stesso anno, del Premio Dessì.

Nel 1997 avevo quattordici anni, frequentavo il ginnasio, e Nulla è stata una delle letture più coraggiose che la mia professoressa di italiano potesse sottoporre alla mia classe. Lo scrittore, che già si era trasferito a Bologna, venne poi a parlarne proprio nella mia scuola, in quello stesso Liceo Classico nuorese in cui anche lui era stato studente non troppo tempo prima. Se ripenso oggi a quell’esperienza nel suo insieme, non sono affatto sicura (ma magari mi sbaglio) che l’esperimento sarebbe attualmente replicabile con la stessa disinvoltura: chiedere a un gruppo di ragazzini e ragazzine ancora nel pieno della loro fessacchiottaggine post-licenza media e pre-mediale (social networks e telefoni cellulari inesistenti) di affrontare un libro che parlava esplicitamente di suicidio, declinando il tragico copione in quindici storie differenti, e che per di più lo faceva adottando un’ambientazione ambigua e sibillina, per la quale “Nulla”, la cittadina di provincia in cui tutto accadeva, rimandava giocoforza a Nùoro, il capoluogo barbaricino che, a quanto pareva, quasi un secolo prima era stato così culturalmente vivo da meritarsi la fama di “Atene della Sardegna” mentre adesso faceva registrare un’impennata statistica di morti violente e volontarie. Niente di più traumatico, insomma, per farci riflettere sul senso della vita e dello stare al mondo. Ma la prendemmo (quasi tutti) benissimo. 

Sempre precedute da brevi epigrafi letterarie ad hoc – c’è anche l’omaggio all’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Master, di cui Nulla stesso, nelle intenzioni (e parole) dell’autore, rappresenta «una specie» – le quindici storie raccontate non fanno distinzioni per età, sesso, sembiante, censo e professione. Proprio come la morte, per l’appunto. O, meglio ancora, come il male di vivere, che può fare il nido in una gioventù piena (o vuota) di prospettive come in una vecchiaia di presupposta saggezza, nella dolcezza degli agi economici e materiali come nello squallore rancido della più ordinaria modestia. Ieri, vent’anni fa, allo stesso modo di oggi. Perché a rileggerle adesso, o ad averle rilette con regolarità negli anni, come è capitato a me, queste storie non hanno perso niente della loro incisività. Raccontate dal suicida di turno, da un narratore esterno o da un coro instancabilmente pettegolo – fino all’efficacissimo “espediente” stilistico che al capitolo Undici richiama l’articolazione delle voci tipica del canto a tenore – queste storie senza nome (senza nomi) attraggono e ci respingono come il riflesso del nostro volto se guardato troppo a lungo in uno specchio: siamo noi, non lo siamo più, non lo siamo affatto, potremmo sempre esserlo (o esserlo stati). E quando il contesto descritto e, soprattutto, il linguaggio utilizzato rivelano con evidenza un orizzonte e un sottotesto sardo, specificamente nuorese, è impossibile, per il lettore indigeno, non sentirsi chiamato in causa e riflettere sullo stato di salute di una città rigurgitante di simboli, icone e simulacri, che non smette di somigliare alla straniante e malintesa modernità di quella immortalata recentemente dallo stesso Fois in Luce perfetta, il “terzo tempo” della saga familiare I Chironi pubblicato da Einaudi nel 2015 – e  appena riunito in volume unico dallo stesso editore con i precedenti Stirpe (2009) e Nel tempo di mezzo (2012). Nulla come Nùoro, come centro del mondo, come – per ennesimo riflesso – tutto il mondo.

Dalla sua prima uscita ho letto e riletto Nulla innumerevoli volte, scoprendo nella sua prosa – così perfetta nella resa semplice di una disperazione che non riesce a concepire alternative alle pillole, alla droga, allo sparo, al cappio, al salto nel vuoto – le note di una musica che ne fa imparare a memoria interi brani come versi di poesia, strofe di ballata piene di nostalgia per la dolcezza (pur esistente, pur desiderata, pur sognata) del consumare per bene i giorni. Più che una raccolta di raccontini programmaticamente disturbanti, Nulla è un Memento che ricorda non il “dovere” inevitabile di morire, ma quello di trovare un senso al proprio esistere, ovvero una ragione che non tradisca la propria identità, il proprio personalissimo “perché”. I personaggi di Nulla sono poveri e ricchi, brutti e belli, vecchi e giovani, padri e madri, figli e figlie: sono individui comodamente incasellabili in predeterminate categorie professionali, estetiche, genetiche, ma privi di coordinate consapevoli, troppo certi o troppo illusi di averle trovate solo al di qua o al di là del mare. Leggere le loro storie aiuta a ricordare il proprio orientamento, o a prenderne finalmente coscienza: a me, da vent’anni, ricorda l’importanza di credere nella possibilità di centri – fisici e metaforici – privi di periferie. Anche e persino a “Nulla”.

Cecilia Mariani