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#paginedigrazia - La giustizia? Specchio dell'imperfezione umana

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La giustizia
di Grazia Deledda
Ilisso, 2011

Prefazione di Aldo Maria Morace

pp. 218
€ 11 (cartaceo)
€ 4,90 (ebook)


"Se Stene muore io resto solo e assassineranno anche me! Già, quante volte non me l'hanno minacciato? E Silvestra mia? Assassineranno anche lei, povera colomba! E il processo come andrà? E i miei beni a chi resteranno? I beni, i beni miei?".
Specialmente quest'ultima paura lo angustiava.
(pp. 38-39)

Pubblicato nel 1899, un anno prima del trasferimento a Roma che tanto avrebbe influenzato Grazia Deledda, La giustizia è un romanzo che fin dal titolo evoca una delle aspirazioni più inafferrabili dell'uomo: la definizione da vocabolario di "giustizia", già di per sé rimasticata e sviscerata da tanta filosofia etico-politica, viene ogni giorno ridiscussa nella realtà fattuale. Quali sono i confini della giustizia? A quali compromessi è bene piegare i propri ideali, pur di stare nel mondo? 

La giustizia inizia nel segno della malattia (non solo fisica, ma anche dell'animo, come si scoprirà via via): Stefano, unico figlio maschio sopravvissuto di don Piane Arca, rientra a casa, provato da una febbre particolarmente violenta. Il padre si preoccupa, non solo per la salute del giovane uomo, ma anche per i propri beni, messi in pericolo dalla possibile morte di un altro erede. Ed ecco che si fa cenno all'antefatto del romanzo, filtrato volutamente dai pensieri e dalle parole dei personaggi, in pieno rispetto delle norme veriste: Carlo, uno dei figli di don Piane Arca, è stato assassinato in circostanze misteriose e senza un movente chiaro. Si ipotizza che l'omicida sia Filippo Gonnesa, fidanzato della sorella di Carlo, Silvestra. Ora è tempo di fare giustizia, perché don Piane è rimasto con un solo figlio maschio, Stefano, mentre Silvestra - affranta per l'accusa contro il fidanzato - si è ritirata in una monacazione volontaria e rigida, in un piccolo santuario costruito vicino a casa. 
Le vicende di casa Arca vengono in parte smosse dall'arrivo di Maria, vedova di Carlo, al capezzale del cognato, Stefano. Presto, l'uomo intravede nella donna un ideale di bellezza severa, al tempo stesso interrotta dai tratti ingenui da bambina. Il desiderio prende il sopravvento nella prima parte del romanzo, e Stefano si propone di corteggiare e conquistare la giovane vedova, ferma sulla sua fedeltà al marito defunto. Ma sono certi sguardi di Stefano, il sorriso, le parole, a ricordare a Maria quanto il marito Carlo volesse la sua felicità. 

Potrebbe essere facile, per il lettore, parteggiare per un amore nascente, timoroso verso l'esplicitazione e al tempo stesso riottoso nell'intimità; eppure qualcosa nella personalità di Stefano genera perplessità. Come precisa Aldo Maria Morace nella prefazione del volume, Stefano è un «esteta dannunziano a caratura sarda» (p. 12), incapace di aderire al proprio ideale di sé, e per questo infelice e continuamente annoiato. Anche i sentimenti che lo muovono verso Maria nascondono un egoismo spiccato, proprio di chi è cresciuto in mezzo a tutti gli agi, senza alcuna difficoltà a soddisfare i propri capricci. D'altra parte, i vizi sono stati alimentati dagli anni che Stefano ha passato svogliatamente "sul continente", visto da Grazia Deledda come luogo tentatore e, quindi, corruttore. Rientrare in paese dopo tanta mondanità significa restare per esempre un disadattato, incapace di reinserirsi nella statica legge della tradizione nuorese. È palese un'eco verghiana: Stefano si è staccato dal paese, che guarda con disincanto, e non importa se abbia portato con sé tende e mobilio pisano; ormai non apprezza più neanche la pazienza di Maria al telaio, che - novella Penelope destinata a essere insidiata non da uno dei proci, ma dal fratello del suo Ulisse - cede alle lusinghe e sposa Stefano. 
Sotto lo sguardo del burbero suocero e dei gatti di casa, veri e propri numi tutelari nel romanzo, Maria si vede prima idolatrare e quindi mettere in secondo piano da un annoiato Stefano:  
Lavorare? Ma come e perché? Il lavoro, tanto più se spronato dal bisogno, avrebbe acuito il suo pessimismo, forse rendendolo malvagio. Egli dunque mentiva a sé stesso. Mentiva su tutto. Mentiva affermando segretamente che non amava più Maria perché in lei non aveva trovato la donna superiore e spirituale dei suoi sogni. Ella era buona ed onesta, ed aveva finezze che niuna donna côlta poteva superare. Egli cessava d'amarla perché la sua mala indole, ora che Maria lo amava e gli si era tutta data, lo portava al fastidio delle cose possedute; ed altrettanto avrebbe fatto con qualsiasi donna superiore e côlta.
Egli mentiva allorché si sdegnava contro le vigliaccherie e le infamie umane: il suo non era il nobile sdegno d'uno spirito puro, ma la collera dell'uomo che dalle viltà e dalle menzogne altrui vede attraversati i suoi disegni. (p. 157)
Stefano suona musiche europee per distaccarsi dalla limitatezza retrograda del paese, e non sa decisamente adattarsi, né trovare una via di fuga per la propria irrequietezza. Anche nei confronti del processo, manifesta continui dubbi. In particolare, davanti alla proposta di un suo affittuario, il Porri, di compiere falsa testimonianza pur di vedersi abbassato il canone, Stefano si sdegna. Sorprendentemente, gli anziani non sembrano approvare il comportamento di Stefano e, anzi, la suocera suggerisce una visione opportunistica, suffragata da un pessimismo cogente:
"Tu non sai vivere, figlio caro, [...] tu vuoi cambiare il mondo, ma il mondo cambia noi; e da grandi cose che ci crediamo ci riduce come spugne spremute e buttate via" (p. 138)
Ma Stefano non vuole sentirsi vittima del mondo, vuole un riscatto che non sa come raggiungere:
"E poi volete che io non mi sdegni, ch'io non gridi contro questo miserabile mondo, ove tutto, cominciando dalla giustizia, tutto è commedia e viltà? Donde dovrebbe piover la luce viene il buio, donde si spera giustizia viene l'iniquità. E voi volete che se il Porri torna a insozzare la porta di casa mia non lo getti dalle scale a pedate?" (p. 139)
Il Leitmotiv della vita che mette continuamente a repentaglio la propria integrità torna ripetutamente, entra anche nel santuario dove Silvestra cerca - inutilmente - di dimenticare il fidanzato. Ecco, ad esempio, come il confessore mette in guardia Silvestra, riconfermando i vantaggi della clausura:
"Che faresti tu dunque nel mondo, figlia mia? Il mondo è un mare di pece bollente, che si attacca e brucia e macchia coloro che lo attraversano. Beata te che te ne sei lontana, beata te che sei stata illuminata a tempo dall'ineffabile grazia di Dio. Nel mondo non c'è che menzogna, viltà, dolore." (p. 110)
Eppure, per quanto inadatta alla mondanità, Silvestra continua ad avvertire il richiamo alla vita, e quello che doveva essere un suo rifugio, nell'impossibilità di sposarsi, diventa una prigione. Anche la preghiera non calma più le ansie, né mette a tacere le voci che, dal passato, tormentano la ragazza. «Insidia e lotta» (p. 18) sono le parole che Morace ricollega alla memoria: se, nella prefazione, lo studioso traccia convincenti punti di raccordo tra la memoria tormentosa di Maria e quella di Silvestra, è possibile anche unire i due fratelli, Silvestra e Stefano, in nome dell'irrequietezza del presente. Personaggi mai pienamente finiti e realizzati, vedono continuamente frustrata la speranza di pace interiore: come Stefano sembra in parte (ma solo temporaneamente, perché «anche spezzato, il suo orgoglio non poteva dare il perdono, - la misteriosa nota che mancava nella selvaggia armonia della sua anima», p. 217) quietato dalla gravidanza di Maria, Silvestra prova a pregare con più intensità per cacciare il desiderio di rivedere Filippo. 
Ecco che il processo torna nelle ultimissime pagine, con un esito che non sarebbe giusto rivelare qui: basti dire che da lettori si contano le poche pagine rimaste e si attende - con ansia - di arrivare a un epilogo che in qualche modo si ricolleghi al titolo. La giustizia avrà la meglio sull'onore? E che ne sarà dei sentimenti atavici, che hanno mosso gli Arca da sempre?

Un romanzo disincantato, decadente e verista a tratti, dalla struttura calibratissima, fatta di echi lessicali, tematici e pieni di prestiti letterari. Uno dei tratti più caratteristici, al di là di un certo preziosismo spinto che porta a non apprezzare allo stesso modo ogni pagina, è il diverso ritmo narrativo. Quando Grazia Deledda si dedica a Silvestra, anche la narrazione rallenta, si ferma quasi, a lasciar percepire quanto la vita di clausura abbia un rapporto tutto particolare con il tempo e le percezioni: anche un minimo dettaglio del mondo esterno può innescare riflessioni e dubbi cruciali. Al contrario, se la prima parte dedicata al corteggiamento da parte di Stefano ha una marca deleddiana ben riconoscibile, quando la giustizia prende il sopravvento, dialoghi e frasi si sveltiscono, la descrizione perde valore, a vantaggio di un'asciutta brevità per l'azione e i colpi di scena. 
Sorprende, sempre e in ogni caso, la messa in discussione dei valori prototipici della famiglia e della discrasia tra essere e apparire. Come il vero Stefano ha tratti di meschinità, così anche Maria, Silvestra e tanti personaggi minori tradiscono una compiutezza solo apparente, trasformando La giustizia in un romanzo che coglie appieno la drammatica incompiutezza umana, mai davvero perfettibile e, per questo, origine di costanti tormenti.

GMGhioni