La giusta distanza dal male
di Giorgia Protti
Einaudi, maggio 2025
pp. 256
€ 19,50 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)
C’è un luogo nella modernità che più di ogni altro richiama il regno di Ade: il pronto soccorso. Non per i corpi che vi giungono in fin di vita, ma per l’invisibile processo di passaggio che vi si compie. In La giusta distanza dal male, Giorgia Protti — dottoressa e scrittrice al suo esordio — non si limita a raccontare la vita ospedaliera: ne fa una metafora mitologica, un sogno febbrile in cui il tempo si distorce, la realtà si frantuma e le presenze si fanno archetipiche.
Le barelle traghettano anime in pena in purgatori asettici, come l’obi (Osservazione Breve Intensa), l’odore di disinfettante non copre quello della paura e l’antagonista – che non è la morte – ha il più classico degli aspetti: Lucifero. Ma non il diavolo delle catechesi infantili, o quello disegnato da Dante: il Lucifero di Protti è sottile, insinuante, bello e ordinario. Jeans, t-shirt dei Rolling Stones, sguardo penetrante. Ama la birra, le domande provocatorie e il mettere in crisi con la sola dialettica il prossimo.
E poi c’è lei, questa giovane dottoressa, che si divide – in maniera del tutto sproporzionata – tra il pronto soccorso e una vita al di fuori, con una casa e un compagno. Si divide tra il dolore dei suoi pazienti, alle prese con malattie vere e immaginarie, e il suo dolore, per il compagno che la lascia e la solitudine nella quale è immersa. Si divide tra le responsabilità del suo lavoro e l’incapacità di poterlo svolgere al meglio, tra personale mancante e protocolli arrugginiti. Si divide tra una lucidità che non può perdere e il desiderio – anzi, la necessità – di non pensare alle conseguenze, agire d’istinto e farsi guidare da altri, anche se si tratta di Lucifero pronto a trascinarti letteralmente all’inferno, perché tanto lei all’inferno c’è già.
All’inizio sembra avere tutto sotto controllo: gestisce i pazienti sperando di non sforare troppo l’orario di lavoro; corre a casa dal compagno, dagli amici. Ma poi arriva lui, il male, prima ancora di assumere le sembianze di Lucifero. E, nonostante ci si trovi all’inferno, il pronto soccorso non brucia: gela. Così come gelano le risposte di Lucifero, alle domande al limite del naïf che lei gli pone. Lucifero si trasforma in Caronte, la prende letteralmente per mano e le mostra le conseguenze del male.
Ma quale male? La risposta sembra banale, ma è più raffinata di quanto si possa immaginare. C’è il male inteso come il dolore dei pazienti, le loro paure, angosce, sotto forma di domande, risposte maleducate, gesti violenti. Quel tipo di dolore che ti si appiccica addosso come una maglietta bagnata che non riesci più a toglierti. Poi c’è il male in risposta a quel male, quello che ti porta a spegnerti, a sopravvivere piuttosto che vivere. E poi c’è il male finale, quello che mescola i due mali precedenti, nutrendosi di lucidità e disperazione, trasformandoti completamente.
In maniera molto allegorica il male è rappresentato da Lucifero, un elemento fantastico che non disturba affatto la narrazione, sottolineando il lato morale, ponendo attenzione non tanto sui fatti ma sulle conseguenze: un invito costante alle riflessioni. Come lo stesso Lucifero comunque fa, con le sue continue domande.
Finalmente posso condividere con qualcun altro l'orrore che provo per me stessa. (p. 222)
Vengono raccontati tanti fatti e aneddoti, con un tono che non è né una lamentela né un pianto: non c’è vittimismo, ma solo una rassegnazione composta, di chi non solo accetta il suo destino, ma vede l’importanza del suo destino. Le parole scelte da Protti trasudano dignità e amore – nonostante tutto – verso un lavoro che è più una vocazione. Sono asciutte, scelte con cura, senza fronzoli e in grado di arrivare dritte all’essenza del messaggio. I pazienti riportati, le loro malattie, le loro domande, sono una cronaca lucida di ciò che avviene in pronto soccorso, e anche per questi episodi la modalità narrativa scelta rende la lettura estremamente immersiva, mantenendo quella dignità e quella forza d’animo di poco fa.
Protti scrive con un tono a tratti allucinato, lirico e tagliente. Il suo stile è teso, affilato come un bisturi, eppure capace di aperture liriche sorprendenti. Ogni dialogo con Lucifero — incarnazione del male “banale”, per dirla con Arendt — è una soglia: tra razionale e inconscio, tra etica e sopravvivenza.
In questo diventa anche manifesto politico, forte e potente, infilando nella storia un altro nemico, ovvero il Sistema sanitario, che sembra destinato a soccombere insieme a questi ospedali saturi, a questo personale carente, stanco, arrabbiato, rassegnato, depresso. La nostra protagonista si attacca a barlumi di normalità, apprezza le chance che la vita le offre ma senza avere il coraggio di coglierle. Pur essendone consapevole, non sa come uscirne.
Ci si chiede, durante la lettura, come tutto ciò potrà evolvere – in un senso o nell’altro -, soprattutto quando la nostra dottoressa perde completamente la lucidità accettando – letteralmente – un patto con il diavolo, trasformandosi in un essere brutto quanto lui. Il finale è estremamente fiabesco, a tratti può disturbare, ma la lezione che ci insegna rende questo testo un grido di aiuto di ogni medico e un invito – che arriva forte e chiaro – a ragionare sulla nostra distanza dal male, a metterci esattamente in mezzo, per non subirla ne possederla.
Un anno fa sono stata in pronto soccorso – codice arancione, ma sono ancora qua, canterebbe qualcuno – e la dottoressa che mi prese in carico mi disse: “il dolore non è nemico, è messaggero”, ed è un po’ il senso delle parole di Protti, a patto però che lo si accetti come tale e ci si metta in ascolto, piuttosto che al suo servizio.
Giovanna Scalzo
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