Presi il binocolo, ed eccola: prima la schiena, una macchia marrone che si confondeva con la corteccia. Il resto sembrava nascosto, ma quando mi concentrai su una sottile crepa nell’orlo anteriore della cavità incrociai un occhio giallo e severo che fissava il mio. L’uccello misterioso si trovava a pochi passi, a cinque o sei metri da terra. Ero al settimo cielo. Ebbi l’ennesima conferma che il gufo pescatore non abita nella foresta, ma ne fa parte: […]
Il gps ci portò sull’isola più grande, attorniata da acque placide e quasi paludose; la parte emersa era dominata da un bosco di pioppi colossali che si innalzavano tra arbusti aggrovigliati ai resti dei loro fratelli abbattuti dal vento. Con il binocolo guardai ogni loro cavità; il numero di nidi potenziali era quasi sconvolgente. Al centro del bosco c’era un elegante pino, sembrava una dama in mezzo a spasimanti intimiditi. Era di una bellezza sana e robusta, con un solido tronco di corteccia rossa che scompariva sotto una falda di rami verdi, tra i quali vidi una penna di gufo pescatore che tremava nella brezza impercettibile.
Ho letto con particolare trasporto il passaggio in cui Slaght avvista per la prima volta una femmina di gufo pescatore, silenziosa e immobile dentro la cavità di un albero che lo scruta con i suoi grandi occhi gialli che incutono timore e rispetto. In quel momento, lo scrittore resta senza fiato, quasi incapace di respirare o di muoversi, come se il minimo sussurro potesse spaventare quel volatile elusivo e protettivo accanto alla nidiata nascosta. Sono righe intrise di fascino e, allo stesso tempo, di rispetto verso la natura, capaci di incantare il lettore e far sentire il peso della magia di quell’istante quasi sospeso.
Rimasi incantato ad ascoltare i gufi e cercai di placare i battiti del cuore che mi pulsavano nelle orecchie, di non deglutire né fare il minimo movimento che rischiasse di interrompere quell’affascinante rituale.
Čepelev, con gli occhi ben puntati sull’orizzonte sotto l’orlo di pelliccia del cappello, portò il trattore sul sentiero sconnesso che andava verso il Nord e la foresta. Con una mano stringeva il volante instabile, con l’altra il fucile. Sembrava la parodia di una battuta di caccia alla tigre nell’India imperiale, con il sovrano che va tutto fiero in sella a un elefante in cerca del suo sfuggente trofeo a strisce. Qui, al suo posto, c’era un russo eccentrico in mutandoni a bordo di un trattore rantolante.
Dalla lettura del libro I gufi dei ghiacci orientali, emerge con forza la passione che anima la sua ricerca e il profondo impegno per la salvaguardia dei gufi pescatori, creature magnifiche e sfuggenti, carismatiche direi. È il racconto avvincente di un’avventura vissuta in prima persona, in cui ogni pagina trasmette la dedizione ostinata e rispettosa di chi si muove in punta di piedi in un ambiente remoto e selvaggio insieme. I capitoli che mi hanno maggiormente conquistata sono quelli in cui l’autore descrive le operazioni di cattura degli uccelli, finalizzate a installare tra le ali piccoli trasmettitori, indispensabili per monitorare gli spostamenti di questi rapaci per mesi. Si tratta di interventi delicatissimi, condotti con estrema cura, ingegno e pazienza. Le trappole devono essere pensate e costruite con attenzione, e collocate nei luoghi giusti, spesso dopo giorni, settimane intere di appostamenti silenziosi e senza successo.
Ho appreso che questi interventi avvengono in condizioni climatiche estreme: le operazioni si svolgono in inverno, quando le notti scendono ben oltre i trenta gradi sotto zero, perché in primavera quei luoghi diventano proibitivi per muoversi e lavorare in sicurezza. In più, ad aggiungere alta tensione al racconto, c’è l’urgenza di agire in un breve arco temporale, prima del disgelo.
Il maschio si spostò su un ramo orizzontale dell’albero con il nido e perlustrò il terreno con gli occhi gialli come un drago furioso. Era un animale impressionante in ogni dettaglio. Il piumaggio pettorale color camoscio, con una spolverata di strisce laterali più scure, lo faceva somigliare quasi a un prolungamento dell’albero, una sua fiera sporgenza divenuta viva e vendicativa. Quando strideva la macchia bianca sulla gola si gonfiava e i ciuffi delle orecchie, eretti, arruffati, massicci e comici, dondolavano a ogni movimento.
Slaght riesce a rendere concreta e viscerale questa lotta per la conservazione, dove la scienza si intreccia con l’avventura e la natura non è uno sfondo, ma la vera protagonista. Come lettrice, avrei gradito però qualche mappa dei luoghi, qualche immagine o fotografia del gufo pescatore, delle tigri e degli altri animali che popolano la taiga siberiana, in modo da non dover ricorrere a ricerche esterne su Internet per farmi un’idea di quelle creature quasi mitologiche e di quei paesaggi.
Consiglierei questo libro a chi ama la natura vera, quella non addomesticata, che richiede rispetto, attenzione e tempo, ma anche a chi è affascinato dalla ricerca scientifica come esperienza concreta, fisica, faticosa, lontana dai laboratori. Il gufo pescatore è un libro per chi sa meravigliarsi di fronte alla bellezza della natura, è attratto dall’invisibile e da tutto ciò che si muove al limite del nostro sguardo.
Marianna Inserra
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