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#paginedigrazia - "Ogni uomo ha la sua storia": "L'Argine", di Grazia Deledda

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L'Argine
di Grazia Deledda
Ilisso, Nuoro, 2008

prefazione di Marco Manotta

pp. 207
cartaceo € 11
ebook € 4,90

Stare in casa, lavorare, riposarsi, riprendere il ricamo cominciato, leggere giornali e qualche libro, fare intorno a sé il poco bene che poteva, questa era la linea quotidiana dell’esistenza e della pallida felicità della signora Noemi Davila. Anche quella mattina, anzi più che mai quella mattina, ella si svegliò con la visione di tale strada diritta e chiara davanti a sé. Aveva dormito bene tutta la notte, e al suo primo svegliarsi ringraziò Dio anche di questo. (p. 25)
La vita di Noemi Davila trascorre lungo i binari di un'esistenza tranquilla e abitudinaria, improntata al mantenimento di un rigoroso ordine casalingo e alla totale fedeltà nei confronti del marito ormai morto.
La vedovanza di Noemi, che si dipana dritta e senza sorprese un giorno dopo l'altro, solo di tanto in tanto allietata dalle visite dell'avvocato Franco Franci (innamorato della donna e ormai giunto al capolinea del suo matrimonio con Pia Decobra), viene sconvolta da un episodio che cambierà irrimediabilmente le vite dei personaggi del romanzo: il suicidio della moglie di Franci.
Il tormento e il senso di colpa, annebbiando l'animo dell'avvocato, faranno sì che egli dedichi la sua vita alla realizzazione del progetto filantropico della coniuge: la costruzione di un argine che ripari i campi dalle inondazioni. La vicenda però, si complica ulteriormente, quando le vite dei due personaggi principali, Noemi e Franco, si intersecano con le esistenze di altri personaggi, con la conseguente creazione di un dedalo di percorsi legati dal senso di colpa e dal peccato.
Anche in questo romanzo, quindi, penultimo dell'indimenticabile scrittrice sarda, come già in altri della bibliografia deleddiana (tra cui La fuga in Egitto, recensito qui e con cui condivide anche l'ambientazione extra isolana) si fanno portanti i temi dell'errore e del peccato, col logorìo interiore che ne consegue. Un tormento intimo che, come sottolineato da Marco Manotta nella sua mirabile prefazione, sembra intrinseco della produzione letteraria sarda:

All'interno del saggio Spirito religioso dei Sardi troviamo un'acuta riflessione di Salvatore Satta […]: «Noi siamo forse l'ultima gente che ancora senta il peccato originale come un proprio, individuale peccato, che nessuna redenzione riuscirà mai a cancellare». Viene in tal modo attribuita al popolo sardo una sensibilità religiosa che pare non conoscere la luce della Grazia, un senso di disperazione individuale prodotto da una colpa che non può essere redenta: e può essere questo uno dei motivi per cui sembra di percepire in tanti prodotti della letteratura sarda, primo fra tutti il capolavoro sattiano, il profilo e l'incedere di figure che si collocano in un'atmosfera ideale da Vecchio Testamento. (p. 7)
Caratteristica che ben si affianca ai personaggi di quest'opera, a cui viene affidato il racconto della vicenda, attraverso le quattro parti in cui si divide, con la scelta di un montaggio alternato. Ed è nella seconda sezione che il racconto dell'uomo ci svela tutta la portata simbolica dell'argine che egli intende costruire: non solo una barriera che protegga dalle acque, ma una sponda con la quale resistere alle onde impetuose della vita, a cui l'uomo sarebbe altrimenti destinato a soccombere.
Immediato si staglia, nella mente del lettore affezionato, il ricordo della frase di Efix in Canne al vento, forse la più celebre del romanzo:
«Sì», egli disse allora, «siamo proprio come le canne al vento, donna Ester mia. Ecco perché! Siamo canne, e la sorte è il vento.»
E subito si riconosce anche l'argine a cui stava lavorando Efix, nell'incipit dello stesso romanzo, (come ricorda anche Manotta nella prefazione).
Tutto il giorno Efix, il servo delle dame Pintor, aveva lavorato a rinforzare l'argine primitivo da lui stesso costrutto un po' per volta a furia d'anni e di fatica, giù in fondo al poderetto lungo il fiume: e al cader della sera contemplava la sua opera dall'alto, seduto davanti alla capanna sotto il ciglione glauco di canne a mezza costa sulla bianca Collina dei Colombi.
Eccolo tutto ai suoi piedi, silenzioso e qua e là scintillante d'acque nel crepuscolo, il poderetto che Efix considera più suo che delle sue padrone: trent'anni di possesso e di lavoro lo han fatto ben suo, e le siepi di fichi d'India che lo chiudono dall'alto in basso come due muri grigi serpeggianti di scaglione in scaglione dalla collina al fiume, gli sembrano i confini del mondo.
Come, d'altronde, ugualmente evocativo è lo stesso nome della protagonista, omonima della Noemi di Canne al Vento.
In L'Argine, il rifugio di Franci diviene il luogo della sua espiazione:
Passo buona parte della giornata qui, nella casa sull'acqua. Posto di studio, ho detto. Anzitutto uno studio di me stesso: poiché sono anch'io come questi luoghi devastati, queste acque irregolari e violente che hanno finora portato dolore e rovina senza averne colpa, per fatalità della natura. Ho bisogno anch'io di argini, che regolino il corso della mia vita e la rendano benefica e feconda. (pp.59-60)
L'argine che dà il titolo, così, è «una barriera che freni il dilagare della malattia morale» (Manotta, Prefazione, p. 9). Così, la costruzione della diga diviene metafora e concretizzazione dell'espiazione che deve affrontare Franco, grazie alla quale sente più vicino il perdono:
Il tempo, la strada, la vista del limpido paesaggio, i gridi di gioia delle cornacchie che s'inseguivano fra le querce del poggio accanto, mi rendevano più agile e bravo: sentivo intorno a me, finalmente, un'aria di perdono. (p. 73)
In tal modo la costruzione dell'argine diventa come un processo di purificazione e rinascita morale:

- Non lo so, Agar: non è in nostro potere fissare la linea della nostra vita. Ciò che so, fermamente, è che non farò male a nessuno: bene, sì, se potrò. Questa è la sola fortuna, nella vita, non quella che lei, Agar, vuole cercare per le vie del mondo. Resterò qui, io, invece; almeno finchè la mia opera non sarà compiuta. E l'argine sarà fatto, a tutti i costi: dovessi lavorarlo io con le mie sole mani. (p. 147)
La lettura del romanzo non può che creare nel lettore un forte e deciso coinvolgimento emotivo: la lettura delle sentite lettere inviate da Franco a Noemi, così come il dialogo che i due intrecciano a distanza, la descrizione minuziosa ed efficace del dolore che li anima e li lega, non possono che confermare il talento della Deledda, dal punto di vista stilistico e narrativo certamente accresciuto e maturato rispetto ai romanzi giovanili, ergendola a profonda conoscitrice dell'animo umano e sublime narratrice degli sconvolgimenti emotivi che ne scuotono le fondamenta, poichè:
La vita dell'uomo, anche di quello che sembra il più lineare, ha il suo tempo di inondazione devastatrice: poiché ogni uomo, ripete il vecchio Paolo, ha la sua storia. (p.63)
Valentina Zinnà