in

"L'Arte ormai perduta del dolce far niente" di Dany Laferrière: ovvero l'arte di vivere

- -

L'arte ormai perduta del dolce far niente
(L'Art presque perdu de ne rien faire)
di Dany Laferrière


66thand2nd, 2016

trad. Federica Di Lella e Francesca Scala

pp. 385
€ 18,00



Dany Laferrière, autore di questo L'arte ormai perduta del dolce far niente, si presenta subito al lettore come un maestro indiscusso nell'arte della divagazione. Tra riflessioni sul trascorrere del tempo e appunti sparsi riguardanti l'uso mediatico della guerra, chi si immerge nella lettura di quest'opera così difficile da comprimere nella rigida classificazione dei generi letterari ha la netta impressione di ritrovarsi seduto al tavolino di un bistrot di Parigi o di un Cafè di Montreal vis-à-vis con lo scrittore haitiano-canadese. E in fondo è proprio questo il privilegio nonché il piacere della lettura che Laferrière rivendica in queste pagine: quello, cioè, del dialogo intimo, a cuore aperto, tra il lettore e lo scrittore. Tuttavia, dietro questa cortina di familiarità evocata anche da un certo gusto sornione nella scrittura del Nostro, si capisce bene che L'arte ormai perduta del dolce far niente, pubblicato di recente in Italia per le edizioni di 66thand2nd, ha tutte le carte in regole per rientrare nella categoria delle opere-mondo, e non solo perché queste digressioni abbracciano una gamma veramente eterogenea di argomenti.


Il fondo proustiano, già in evidenza nell'aggettivo 'perduta' del titolo che caratterizza questa insolita quanto anacronistica Arte (maiuscola non casuale), ci offre qualche indizio a riguardo. Basti leggere, a titolo esemplificativo, questo aneddoto risalente all'infanzia dell'autore:
Ricordo uno di quei lunghi pomeriggi che trascorrevo con mia nonna nella veranda della casa di Petit-Goâve. Ce ne stavamo lì da tre ore, senza fare niente [...]. Ad un certo punto vediamo una macchina coperta di polvere, proveniente dalla capitale, che passa senza rallentare. Ho avuto il tempo di incrociare lo sguardo di commiserazione della donna seduta sul sedile posteriore. Sembrava chiedersi che gusto potesse mai esserci in una vita senza cinema, né televisione, né teatro, né danza contemporanea, né festival letterari, né viaggi, né rivoluzioni. Ebbene quello che resta è la vita pura e semplice. (p. 30)
"La vita pura e semplice": ecco in definitiva cos'è l'Arte di cui scrive Laferrière. Un'utopia, verrebbe da dire potendo constatare, nella realtà giornaliera, l'accelerazione e la compressione del tempo e dello spazio dettate dai ritmi standard del nostro Occidente industrializzato. O, meglio ancora, la rivendicazione di un'altra forma possibile di esistenza, ecologica e a misura d'uomo, che affonda le sue radici nell'ideale dell'otium latino tanto caro a Cicerone, Orazio e co. Come è noto, tale prerogativa non consiste nella neghittosità, nell'accidia pure condannata come peccato capitale dalla Chiesa cattolica, bensì in quello stile di vita che permette all'uomo saggio di abbandonarsi alle attività intellettuali, non meno prestigiose e redditizie dei negotia pubblici. Proprio l'idea oraziana del Carpe diem viene ripresa esplicitamente in un testo poetico che chiude la ricca sequenza di riflessioni sull'argomento: qui lo scrittore, passeggiando con la figlia in una Miami "artificiale", vede quest'ultima chinarsi su un fiore cosicché proprio "in quell'attimo / che per il fiore è durato un'eternità ho avuto / il tempo di notare il viso stranamente calmo / di mia figlia" (L'arte di cogliere l'attimo, p. 57).

Non c'è nessun argomento, dalle verità universali alle più insignificanti abitudini del vivere quotidiano, che la penna di Laferrière tralascia di annotare in questo zibaldone che fonde la nitidezza della prosa agli slanci della poesia, la satira sociale ai semplici appunti per un eventuale progetto di critica letteraria. Soprattutto sono le pagine dove quella zona d'ombra tra lettore e scrittore sembra annullarsi, avverando così il sogno del Calvino di Se una notte d'inverno un viaggiatore, che manifestano, nonostante l'understatement dell'autore, l'ambizione di conciliare opera d'arte e mondo reale in un'unica entità. Quando i confini tra i due poli risultano difficilmente distinguibili, infatti, l'ars vivendi di Lafferière raggiunge i risultati sperati:
Bene, mi siedo su questa panchina del centro e cerco di pensare con la mia testa. È ancora possibile dopo tante letture? Ho pensato così poco e letto così tanto nella mia vita. Non so più ragionare autonomamente, questa è la verità. (p. 94)


Pietro Russo