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Un nuovo oggetto narrativo non identificato: "L'invisibile ovunque" di Wu Ming

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L'invisibile ovunque
di Wu Ming

Einaudi, 2015

pp. 216
€ 17,50


I Wu Ming affrontano la Prima Guerra Mondiale costruendo un libro diviso in diverse parti a sé stanti, come tanti racconti che mostrano il conflitto da punti di vista particolari, gettando nuove luci su un repertorio storico che offre ancora, a distanza di un secolo, spunti da indagare per chi abbia la voglia di cercare.

Adelmo Cantelli vive con la sua famiglia (il padre, la madre ed il fratello maggiore) in un paesino sull'Appennino tosco-emiliano. Contadini, lavoratori della terra che con fatica tirano a campare. Ma il ragazzo non è attratto da quella vita, ha in mente solo la caccia. Il 16 settembre 1916 scappa di casa e parte volontario per la guerra. Dopo il suo battesimo di fuoco nelle trincee contro gli austriaci, Adelmo sente la necessità di passare agli Arditi: il reparto d'assalto è più consono alle sensazioni che prova, lì il conflitto assume i contorni che lui sta cercando.



Mentre era in azione, mentre sparava da dietro un riparo ai corpi che venivano avanti o mentre cercava il momento giusto per correre da una roccia all'altra, mentre le pallottole alzavano nuvolette di polvere sotto e vicino ai piedi, il suo corpo reagiva in modo automatico, facile. La tensione si mutava in energia forte, compressa, direzionabile. La prossimità della morte lo tranquillizzava, lo esaltava, alle volte. Era la vita così come era stata a fargli paura. La guerra quando si combatteva davvero era un tempo vivido, un presente dilatato, una libertà inattesa, lontano dai comandi insensati del padre, dei superiori, di una parte della sua testa, che li ripeteva con stanchezza, per abitudine, senza dargli più nessun vero valore.
La guerra è stata anche questo: un passaggio, ottuso ma pregnante, che ha determinato le identità di tanti giovani stagliatisi dalla propria famiglia in quei giorni di conflitto.
Pur procedendo col narratore esterno il punto di vista è quello di Adelmo, che come abbiamo detto aderisce compatto agli eventi bellici: per questo motivo nel primo episodio i Wu Ming descrivono in maniera asciutta la realtà quotidiana della guerra, facendone apparire l'orrore e il terrore senza cercare soluzioni ad effetto o calcando la mano nel patetismo.
La battaglia è fonte di emozioni contraddittorie, anche nel soldato più restio al combattimento resta insopprimibile un senso di disagio che rende difficile allontanarsi dal conflitto:
Non la Patria, non l'Onore. Quelle sono favole: puoi fingere di crederci come no. È il vincolo che si stringe quando rischi la vita insieme ad altri uomini, che non puoi cancellare con una semplice bugia. È il senso di colpa che ti prende il cuore, quando pensi che in trincea, a farsi ammazzare, resterà quel calabrese analfabeta che ti è venuto a recuperare oltre i reticolati, senza esitare, come se fosse uno dei tanti carichi che ti mette in schiena la vita.
Il rapporto tra narratore e materia raccontata si declina in diverse modalità originali lungo il corso del libro; nella vicenda di Adelmo, ad esempio, viene inserito un particolare riferimento alla realtà che si cela dietro la fiction, spiegando che in alcune (vere) fotografie degli Arditi si può scorgere il protagonista scelto dai Wu Ming. Nella seconda parte, che segue le vicende di Giovanni, un soldato che ha deciso di fingersi pazzo per evitare di tornare al fronte, il narratore esterno si alternata alla prima persona ed entrambe sono contaminate da stralci di diari, resoconti e testimonianze reali, esplicitate da note di chiusura bibliografiche. È una scrittura particolare che risulta efficace sia negli intenti narrativi tout court (col suo procedere spezzettato, a scardinare la sequenza temporale attraverso l'uso di flashback e anticipazioni) che in quelli di resoconto storico, dal quale emerge la questione delle patologie mentali generate dalla frequentazione dei campi di battaglia e la folta schiera di simulatori impegnata ad architettare sempre nuovi stratagemmi per passare da “scemi di guerra”. In questo contesto si consuma il destino tragico di Giovanni, che sarebbe piaciuto molto al Pirandello dell'Enrico IV.
Il matto è come un disperso, un soldato smarrito sul fronte più interno di tutti.
La terza parte racconta di André Breton e di Jacques Vaché, “santo martire del surrealismo”. Di nuovo eventi e personaggi reali, dunque, ed ancora un interessante missaggio di scrittura espressiva (ricca di immagini inconsuete) e reportage sui due scrittori francesi, entrambi coinvolti nelle vicende delle Grande Guerra. La sorella del secondo, scoperto tardivamente di avere avuto un fratello la cui “morte disgraziata” è stata rimossa dall'album di ricordi di famiglia, si reca dal celebre autore di Nadja per saperne di più: Breton è stato infatti un caro amico di Vaché e ne ha pubblicato le lettere dal fronte, condividendo la sua opposizione alla guerra, “macchina decervellante”. Corredata di disegni (proprio come il famoso libro del teorico del surrealismo), questa sezione narra dunque di due anime erranti che hanno cercato la loro strada senza compromessi col mondo che ha scatenato il conflitto bellico e della sorella di Jacques, turbata dall'incontro con Breton che la farà vibrare dell'onirismo surrealista.

Il capitolo quarto è un saggio-racconto su F. P. Bonamore, pittore misconosciuto ed incompreso nella sua opera di saboteur tranquille: i Wu Ming ci guidano lungo la sua vicenda in trincea spiegandoci la nascita delle sue intuizioni sulla “guerra mimetica” e del suo tentativo di introdurre il camouflage come tecnica per proteggere non solo gli strumenti bellici ma soprattutto i soldati; idee che trovarono poco spazio nel contesto delle strategie insensate ed ottuse con le quali i superiori (Cadorna compreso) conducevano le azioni d'attacco. Nonostante in apparenza nei suoi quadri paesaggistici la violenza di quegli anni non compaia, “l'opera di Bonamore non è semplicemente arte, ma il più originale trattato visivo sull'arte della guerra alternativa partorito dal primo conflitto mondiale”.

Con L'armata dei sonnambuli i Wu Ming avevano dichiarato di aver chiuso un ciclo, ed in effetti L'invisibile ovunque marca la propria differenza rispetto agli altri lavori del collettivo: non solo, come abbiamo visto, non si tratta più di fiction pura (il che non sarebbe una totale novità, per i teorici degli Oggetti narrativi non identificati), ma viene meno anche il tratto epico che aveva caratterizzato i volumi precedenti. Mi sembra anche che, nonostante le ricerche storiografiche siano dovute essere molte ed articolate, gli scrittori abbiano scelto di rendere il testo più leggero rispetto a quelli degli altri loro libri, senza far affiorare troppo il lavoro preparatorio. Resta comunque un'opera dei Wu Ming, sempre attenti a snidare narrazioni alternative e a sondare i terreni limacciosi della storia. Ciò è evidente soprattutto nel racconto dedicato a Bonamore, quando, dati alla mano, viene svelata la realtà ideologica che ha sostenuto la Prima Guerra Mondiale, criticata nei suoi aspetti disumani e classisti (con gli alti papaveri così distanti dalla carne da cannone), legati alle strutture economiche che regolavano la società. Si arriva così al finale, più apertamente politico, che riavvicina L'invisibile ovunque al canone dei Wu Ming: la loro arte, in fin dei conti, è rimasta la stessa.
La verità storica non coincide con la verità dei singoli esseri umani. E non ce n'è una sola quando si tratta di capire come andarono davvero le cose. Occorre sommare, sovrapporre, scremare.
Nicola Campostori