#Scrittori in ascolto - Quello che mi interessa della vita sono gli altri. L'incontro con Garth Risk Hallberg

Non bisogna sottovalutare l'importanza dei gesti in una conversazione anche e soprattutto quando colui il quale li compie è considerato da buona parte della critica a livello internazionale il migliore narratore della sua generazione. Non si poteva introdurre diversamente l'incontro organizzato da Mondadori presso l'Hotel Manin di Milano mercoledì 30 marzo con Garth Risk Hallberg, l'autore di Città in fiamme (qui la recensione ). Infatti lo scrittore statunitense si è letteralmente prodigato a spiegare ai blogger invitati le ragioni del suo romanzo-fiume, riuscendo con un mix di frasi mai banali e di gesti inequivocabili a rendere plasticamente l'idea di quale fosse l'intenzione che muove l'intera opera.

Rileggiamo con voi - marzo 2016

Il Ticino a Pavia, foto di @gloriaghioni


Cari lettori,
la primavera è arrivata, ma non vi consiglieremo solo testi "stagionali", ma libri che travalicano qualsiasi confine di tempo e di stagione. Bestseller e nuove uscite, ma anche sempreverdi per voi nell'appuntamento mensile con il #RileggiamoConVoi. Come sempre, potete cliccare sulle nostre recensioni o cronache per saperne di più. 

Buona lettura! 
La redazione

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Splendi più che puoi: la recensione in anteprima



Splendi più che puoi
di Sara Rattaro
Garzanti, 2016

pp. 250
€ 16,90 (cartaceo) 

L'espressione “amore mio” è un ossimoro. Il sentimento più libero e l'aggettivo più possessivo.

Che cosa è l'amore? Ecco la domanda delle domande. Quel sentimento che ti travolge senza chiederti il permesso, arriva all'improvviso e ti porta con sé togliendoti il respiro. Donandoti gli attimi più belli della vita, ma anche le sofferenze più grandi. Ma c'è un punto in cui l'amore finsce, non è più definibile tale, e diventa altro? Amare qualcuno davvero significa concedergli di toccarci il cuore senza difese o precauzioni. Esiste un limite, l'amore è sempre amore?

"Città in Fiamme" di Garth Risk Hallberg: la Tetide di New York City

Città in fiamme
di Risk Hallberg Garth
Mondadori, 2016

pp. 1005 
 25


Città in Fiamme di Risk Hallberg Garth edito da Mondadori è una Tetide. Per Tetide si intende l’oceano primordiale che, grosso modo intorno all’era in cui i Dinosauri erano gli assoluti dominatori della terra (tra il Permiano e il Miocene), separava l’Africa Settentrionale dall’Europa e dall’Asia. Come la Tetide era una spazio onnicomprensivo, che frazionava ma anche e soprattutto univa tutte le specie esistenti in un costante “non isolamento” delle specie (cosa questo che invece si verificherà sempre di più con i mammiferi), allo stesso modo Città in Fiamme è un’opera che fagocita tutto quanto e che, via via che la storia anzi le storie proseguono si alimenta di nuova linfa, di nuova energia vitale e di nuova dissacrante carica nichilista. Un misterioso omicidio che sconvolge la vita di vari personaggi sul fondo della New York anni Settanta, dove i fumi della discomusic stanno per lasciare il tempo e lo spazio ai furori del punk. Dire se questo sia o meno il libro dell’anno è un mero esercizio di stile: quello che proprio non si può dire a meno  è che sia un libro che lascia  indifferenti.

Tra fantastico e reale: il "giusto" secondo Nicolàj Leskóv

Tre giusti
di Nikolàj Leskóv 

Traduzione e cura di Paolo Nori
Marcos y Marcos
2016

pp. 256
€ 13 (cartaceo)


Chi è il 'giusto' a cui Nikolàj Leskóv (1831-1895) nella sua opera narrativa dedica una ricca e variegata galleria di ritratti leggendari? Walter Benjamin, acuto lettore dello scrittore russo, nelle sue Considerazioni sull'opera di Nikolàj Leskóv (che si legge in Angelus Novus), sembra avere le idee piuttosto chiare: "raramente un asceta, quasi sempre un uomo semplice e attivo, che diventa santo, a quanto pare, nel modo più naturale del mondo. L'esaltazione mistica non è affare di Leskóv. [...] Il suo modello è l'uomo che sa orientarsi sulla terra senza impegnarsi troppo a fondo in essa". 
Di questo identikit Paolo Nori, affermato scrittore nel panorama letterario italiano contemporaneo, sceglie tre diverse realizzazioni narrative che traduce e cura editorialmente per i tipi di Marcos y Marcos. I tre giusti del titolo fanno riferimento infatti ai protagonisti di altrettante storie di Leskóv più o meno note al pubblico italiano. 

#ScrittoriInAscolto: incontro con Antonio Moresco e il suo "romanzo d'addio"

Sono qui da solo, con il telefono staccato, le ante chiuse, nella città spopolata in questi giorni di ferragosto. Sono venuto qui per scrivere questo romanzo d'addio. La mia situazione è questa: ho pubblicato un anno fa Gli increati e mi trovo in un momento cruciale della mia vita, in cui ho bisogno di stare il più possibile da solo. Ho bisogno di tornare sotto terra, da dove sono venuto, ho bisogno di ricongiungermi a quella dolorosa libertà e a quella forza, a quella parte di me stesso dalla quale non mi sono mai separato e che è rimasta sempre lì ad aspettarmi. (L'Addio, Preambolo, pag. 5)

Foto di Claudia Consoli
Quando entro nella stanza della sede Giunti Editore di Milano Antonio Moresco è già lì ad aspettarci, seduto su una delle sedie che spetterebbero al pubblico. Ci saluta e ci accoglie con un sorriso, insieme attendiamo l'inizio dell'incontro. 
L'atmosfera è intima e raccolta, appena Moresco prende posto sulla sedia dedicata all'autore sembra quasi non esserci separazione tra lui e la platea. Non comincia in modo autoreferenziale parlando solo di se stesso. Ancora una volta ci sorride e aspetta le nostre domande: inizia un incontro all'insegna del dialogo.

A gran parte delle domande che avremmo voluto fargli in realtà lui ha già risposto nel Premabolo del suo ultimo romanzo, L'addio. È qui che racconta da cosa è nato il suo libro, quale serie di riflessioni e di sentimenti porta con sé. Un romanzo di congedo, appunto, o forse il romanzo di un ritorno a casa, in quel luogo da cui è nato il Moresco scrittore, che ha vissuto il suo percorso come "un lungo ed estremo combattimento".

#PagineCritiche - Il Genio




Il Genio
di Harold Bloom
BUR, 2004
pp. 945

€ 12,90





“Lo studio della mediocrità, qualunque sia la sua origine, genera mediocrità”

(Harold Bloom)


La prima cosa che faccio ogni mattina, una volta connesso alla rete, è aprire la pagina inglese di Wikipedia dedicata ad Harold Bloom per controllare che sia ancora tra noi… A seguire un doveroso controllo incrociato su Google... L’acqua per il tè già scalpita e BBC Radio 3 is on the air… La mia giornata può cominciare, felice che ce ne sia un’altra anche per le macerie della civiltà letteraria. Eh già… Perché una volta scomparso il suo ultimo custode assisteremo all’arrivo di una figura ubuesca che distruggerà anche le rovine… E poi? Probabilmente accadrà qualcosa di simile alle ultime pagine de il “Meridiano di sangue” di Cormac McCarthy

Al di là del nero: Se c’è un imbroglio è sotto gli occhi di tutti. Talmente tanto da non vederlo

Foto di Debora Lambruschini
Al di là del nero
di Hilary Mantel
Fazi editore, Febbraio 2016

Traduzione di Giuseppina Oneto

pp. 493
euro 19.00


È un romanzo strano, l’ultimo lavoro di Hilary Mantel, da poco tradotto in italiano per Fazi editore. L’acclamata scrittrice inglese, unica donna ad aver vinto per due volte il Man Booker Prize, abbandona per questa volta l’ambientazione storica e i suoi personaggi, per dare voce ad una storia contemporanea ambientata nella periferia inglese tra la fine degli anni Novanta e i primi duemila, a tratti surreale, in un misto tra ironia feroce ed orrore. Protagoniste due donne, Alison e Colette, che non potrebbero essere più diverse, nell’aspetto e nel carattere.
Alison, corpulenta e stravagante, è una medium dotata, in contatto con il mondo al di là del nero, il mondo degli spiriti:
Alison era una sensitiva: in altre parole aveva i sensi predisposti in modo diverso rispetto alla maggior parte delle persone. Era una medium: i morti le parlavano e lei parlava loro. Era una chiaroveggente: riusciva a vedere attraverso i vivi, ad arrivare alle loro ambizioni e ai loro dolori segreti e a dire cosa tenevano nei cassetti del comodino e come erano arrivati al locale. Non era (per natura) un’indovina, ma era difficile farlo capire alla gente.
In piccoli teatri in giro per il paese o in consulenze private, giorno dopo giorno intuisce le storie disperate di quelle persone che si avvicinano a lei, ne interpreta desideri, antiche sofferenze, dicendo loro quello che vogliono sentirsi dire. Empatica e rassicurante, unisce ai poteri da medium l’acuta deduzione psicologica con cui comprendere il proprio pubblico e la sensibilità che la spinge a rivelare dell’al di là solo ciò che in fondo le persone sono disposte ad accettare:
Ci sono delle cose sui morti, voleva dire, che dovete sapere, che dovreste veramente sapere. […] non sono affidabili, vi faranno mancare il terreno sotto i piedi: non diventano brave persone solo perché sono morti. La gente ha ragione ad avere paura dei fantasmi. […] Però queste cose non le diceva mai. Mai.

Carissimi Padri... Intervista a Claudio Longhi e Giacomo Pedini




Carissimi Padri... è un progetto, promosso da ERT, che ha coinvolto la città di Modena per la durata di un anno, attraverso eventi, spettacoli e attività legate al centenario della prima guerra mondiale.
Intervistiamo il regista del progetto, Claudio Longhi, e l'assistente alla regia Giacomo Pedini.

CriticaLibera - Commencement Speech: di paure, fallimenti e gentilezza

Foto di Debora Lambruschini
Ho sempre trovato molto interessante la tradizione, per lo più statunitense, del commencement speech: il discorso, qualche volta ispirato altre un po’ troppo retorico e banale, tenuto da personaggi di spicco della politica, della cultura, dello spettacolo, alla classe di laureati di quell’anno. È un augurio, un momento di riflessione, una serie di consigli che la persona invitata ad intervenire rivolge a quei ragazzi un attimo prima del loro ingresso nel mondo reale degli adulti, fuori dall’ambiente accademico.
E fa un po’ paura, uscire dopo cinque anni dall’ambiente protetto dell’università e cercare in qualche modo di inserirsi a tutti gli effetti là fuori, nel mondo vero, lasciandosi definitivamente alle spalle un certo grado di spensieratezza ed incoscienza che non torneranno, diventando a tutti gli effetti degli adulti. Un po’ più istruiti e consapevoli – si spera – di quando si è messo piede per la prima volta in quelle aule, con la testa piena di sogni, nozioni qualche volte inutili, competenze e pensieri che ora sembra arrivato il momento di mettere in pratica. Un rito di passaggio fondamentale, soprattutto nelle realtà come quelle di stampo anglosassone in cui gli studenti sono stati immersi completamente nell’esperienza universitaria, che per tutta la durata dei corsi è il mondo che hanno imparato a conoscere ed entro cui muoversi più o meno a proprio agio. Un rito di passaggio, quindi, che un po’ spaventa.
Alcuni di questi discorsi, negli anni sono usciti dalle università e diventati piuttosto celebri non solo grazie alla fama del loro autore ma perché particolarmente ispirati e capaci di arrivare ad un pubblico più vasto e variegato di quello per cui inizialmente erano stati concepiti. Sono tanti, alcuni più famosi di altri, di genere diverso, e questa è solo la mia personalissima selezione, sicuramente non definitiva: ci sono alcuni dei commencement speech di autori molto amati come Kurt Vonnegut (Quando siete felici, fateci caso, Minimum Fax, 2015), George Saunders (L’egoismo è inutile, Minimum Fax, 2014), D. F. Wallace (Questa è l’acqua, Einaudi, 2009), tutti usciti in volume anche in Italia nel corso degli ultimi anni; testi e video facilmente rintracciabili online come i discorsi di J. K. Rowling (Failure and Imagination, Harvard, 2008), Toni Morrison (How to be your own story, Wellesley College, 2004), Neil Gaiman (Make good art, The University of Arts, 2012), Steve Jobs (Find what you love, Stanford, 2005); e quello che forse – nessuno me ne voglia – mi ha toccata di più, il testo di Marina Keegan (Il contrario della solitudine, Mondadori, 2015) scritto per il numero speciale che il giornale di Yale dedica ogni anno alla classe di laureati.

Quella giustizia un po' fai da te, annebbiata dal fumo e dall'umore di oggi

Cinque indagini romane per Rocco Schiavone
di Antonio Manzini
Sellerio, 2016

pp. 256
€ 14 (cartaceo)


Chi non si è ancora imbattuto nel vicequestore Rocco Schiavone, può farlo partendo da qui: cinque racconti che sono un perfetto antefatto per capire da dove è partito questo grande personaggio, ormai pluri-acclamato per la capacità di far sorridere e riflettere su cosa sia la giustizia. Già ce lo vedo, Schiavone, con il suo spinello mattutino tra le labbra, un sospiro o uno sbadiglio pronto all'arrivo di una nuova telefonata, l'accento che tradisce un po' delle origini romane e... Sì, ecco: le cinque indagini raccontano proprio di quando Rocco era ancora a Roma, prima del trasferimento ad Aosta, che comunque gli grava già sulla testa come una spada di Damocle. Sa che dovrà partire, ma non sa ancora per dove, e al lettore non è dato sapere per quale ragione sia costretto al trasferimento. E allora da qui al vicequestore sale a volte l'indolenza per il presente e la malinconia per quella Roma che pare già passata, e così i colleghi sono già larve che andranno salutate e il fantasma della moglie...? Perché Rocco parla ancora a Marina, si confronta con lei sulle sue decisioni e non la lascia mai da sola. Ma che è successo veramente alla coppia? 

L'ultimo capitolo della Trilogia dell'Ibis dello scrittore indiano Amitav Ghosh

Diluvio di fuoco (Flood of Fire)

di Amitav Ghosh

traduzione di Anna Nadotti e Norman Gobetti
Neri Pozza, 2015

pp. 704
18,50


Eccoci arrivati alla conclusione della Trilogia dell’Ibis già sviluppata su Critica Letteraria con “Mare di papaveri” e “Il fiume dell’oppio”. In una recente intervista, Amitav Ghosh ha assicurato che è davvero finita qui, con “Diluvio di fuoco”, aggiungendo tuttavia di volere lavorare a due ulteriori volumi, uno sul rapporto tra letteratura e ambiente, l’altro sulla ricerca storica compiuta. Cercherò di tenere separati due aspetti, quello relativo al perché Amitav Ghosh si è imbarcato, è il caso di dire visto che la Ibis è una goletta, in una simile avventura e il messaggio che vuole trasmetterci e l’aspetto prettamente letterario.

#LectorInFabula - Il Vento tra i salici






Il vento tra i salici   
di Kenneth Grahame  
BUR, 2013

pp. 291
€10,00






“sento l’acqua del lago sciabordare lieve sulla riva
mentre sono per la via o lungo grigi marciapiedi
la sento nell’intimità più profonda del cuore”
(W. B. Yeats)


Non c’è libro migliore di questo per festeggiare l’arrivo della primavera. Un esemplare di specie rara il cui destino è di abitare quel limbo, destinato alle opere capaci di donare gioia a fanciulli e adulti, che il tempo si rifiuta di scalfire. Sebbene la storia della letteratura per l’infanzia, non a torto, lo abbia posto nell’olimpo, una volta aperto, più che dalle teorie critiche, cerchiamo di farci guidare dalla bellezza che incontriamo. 

Come per altri capolavori del genere anche questo nasce dal rapporto diretto tra l’autore e un bambino. All’origine ci sono alcune storielle narrate prima del sonno da un padre a suo figlio, inviategli in seguito sotto forma di lettere, durante i suoi viaggi di lavoro. Saranno proprio queste a diventare nel 1908 la prima edizione de “Il Vento tra i salici”. L’invito a delibare la versione originale è d’obbligo, per godere appieno della bellezza della lingua scoprendo echi di Keats, Shelley, Wordsworth e Shakespeare, magari attraverso queste due splendide edizioni, illustrate e annotate.

"Perché guardiamo gli animali?" di John Berger



Perché guardiamo gli animali?
Dodici inviti a riscoprire l'uomo attraverso le altre specie viventi

di John Berger
Il Saggiatore, 2016


traduzione italiana di Maria Nadotti

pagine 120


C'era una volta un uomo che, ogni giorno, aprendo la dispensa trovava il pane che vi aveva custodito rosicchiato dai topi. Deciso a liberarsi di questo inconveniente, sistemò una trappola per catturare i roditori lì dove essi consumavano il banchetto. La caccia ebbe esito fortunato e, mattina dopo mattina, un nuovo ospite si agitava all'interno della minuscola gabbia. Anzi che disfarsene in maniera cruenta, l'uomo prese a osservarli, a contemplare come essi reagivano in quella nuova situazione, chiusi nella loro piccola prigione e sotto lo sguardo umano, a valutare le differenze fisiche e di personalità che intercorrevano tra l'uno e l'altro. Non se ne sbarazzò con un colpo di scopa o con del veleno ma, al contrario, li liberò tutti, uno a uno, in un campo. Persino il modo in cui essi si relazionavano alla ritrovata libertà variava da esemplare a esemplare ed egli ne rimase colpito ed emozionato.
“Perché guardiamo gli animali?”, di John Berger, si apre con questa breve parabola che, da sola, basterebbe a giustificarne il titolo. Andando avanti con la lettura ci si accorge presto che il nome dell'opera è invece fuorviante: in essa converge una raccolta estremamente eterogenea di testi - brevi saggi, articoli, racconti e persino una poesia - scritti tra il 1971 e il 2001, che più che prendere in esame le analogie che legano uomo e animale (come il sottotitolo ribadisce: “Dodici inviti a riscoprire l'uomo attraverso le altre specie viventi”), ci parla delle conseguenze etiche ed estetiche della relazione tra l'essere umano e l'ambiente naturale.

Veronica è mia: quando l'eros diventa pornografia dell'anima

Veronica è mia
di Giulia Mastrantoni
Panesi Edizioni, Genova, gennaio 2016

pp. 57
1,99 euro (solo formato ebook)



Veronica è mia, primo romanzo di Giulia Mastrantoni, è la storia di un amore non corrisposto in quella terra di deserto e sete che è spesso l’adolescenza; è la storia di un sentimento puro e sensuale allo stesso tempo, quello di Veronica per Max, il suo primo ragazzo, il giovane uomo con cui perde la verginità e che ripaga il suo forte sentimento con indifferenza e sporadici incontri di mero sesso.
Veronica è giovane, molto giovane, e la delusione per quel primo rapporto sessuale consumato nell’indifferenza e nel frettoloso egoismo di ragazzo affamato di solo sesso, la segna nel profondo. Con tutta la sensibilità tipica di una giovane donna in un’età così delicata, Veronica inizia un percorso di spasmodica ricerca del piacere sessuale, illudendosi che insieme a quello, che le richiama alla mente gli incontri con Max, troverà anche qualcosa di più prezioso, una parte di sé innocente e fiduciosa che ha donato senza riserve e che le è stata sottratta per sempre.

India: E mi fissi con gli occhi di una capra di Giorgio Serafino: il viaggiatore punk

India. E mi fissi con gli occhi di una capara
di Giorgio Serafino
Terra&Asfalto, 2015

pp.153
15 



India di Giorgio Serafino non è un libro di viaggio sull'India. O meglio non è il classico libro di viaggio sull'India.  Perché nel resoconto di viaggio di Serafino non c'è spazio per la veduta da cartolina, la riflessione un po' scontata sulla ridondante spiritualità di quella terra o il continuo arrovellarsi sulle colpe dell'uomo bianco. No, niente di tutto questo: India è un libro di polvere, sterco di vacca e tanti colori, suoni, odori, sorrisi e piedi di un mondo tanto lontano da noi da sembrarci alieno. Ma in fondo non è il nostro destino di esseri umani nati da qualche parte nel Corno D'Africa, di andare  erranti per la nostra bella Terra?

Qualche tempo fa ascoltavo in radio Matilde Castagna, una giovane ed importante fotografa, che raccontavo del suo ultimo viaggio sulla via della Seta. Castagna raccontava senza paura di essere stata per quasi quattro mesi nei luoghi più pericolosi e difficili sulla Terra, con una sorta di ingenuità mista a pura passione per la conoscenza ammirevole in una ragazza così giovane. E quando ho chiuso il libro di Serafino questo ricordo mi è tornato in mente. Perché Matilde Castagna era così entusiasta per quel paradiso colorato in terra e perché invece Giorgio Serafino era così negativo di fronte a quell'inferno reale e concreto, tutto brulicante, tutto verminoso, tutto pieno di muffa?

#PagineCritiche - A spasso in mezzo alla neve con Gopnik

L'invenzione dell'inverno
di Adam Gopnik
Guanda, 2016

Traduzione di I. C. Blum
pp. 269
€ 20 (cartaceo)



Tutti a parlare di primavera e a voi manca già l'inverno? Esiste un rifugio perfetto dove potete tornare indietro nel tempo, non solo per raggiungere il presunto inverno 2015, ma soprattutto per rievocare inverni rigidi come non se ne vedono più, quelli che oggigiorno si trovano solo a latitudini particolari... Ecco il vostro biglietto speciale per l'inverno: si tratta del saggio L'invenzione dell'inverno di Adam Gopnik, uscito per Guanda all'inizio di quest'anno. 
Gopnik ci invita a salire sulla slitta trainata dalle sue passioni e dai suoi ricordi, a partire da una premessa fondamentale: 
Oggi noi vediamo, udiamo e percepiamo, nell'inverno, note e sfumature emozionali che i nostri antenati e le nostre antenate non avvertivano. Spero di descrivere alcune di queste nuove mappe del sentimento e dell'inverno, e di raccontarvi qualche storia sulle persone - folli, avide e a volte ispirate - che le hanno ridisegnate. (p. 16)

Vite congelate: Un solo essere di Marco Montemarano

Un solo essere
di Marco Montemarano
Neri Pozza, 2015
 

 pp. 251
€ 17,00


L’opera di Marco Montemarano si apre con una dichiarazione d’intenti: viene immediatamente svelato lo spunto autobiografico della narrazione, insieme al bisogno dell’autore di ritornare su una vicenda di cronaca nera che lo ha interessato da vicino, nel vano tentativo di trovarvi un senso. L’esplorazione del crimine, ci viene suggerito, diventerà indagine esistenziale, riflessione sulle sorti umane, sul coraggio e la determinazione con cui si può affrontare un lutto, su una città con tutte le sue contraddizioni:

Monaco è una provincia di un milione e mezzo di abitanti dove sembra che nulla possa davvero interferire coi tuoi piani. Una città di artefici del proprio destino che a volte fanno l’errore di credersi immortali mentre invece la morte è ovunque (p. 12).

VersoPrimavera - Un'ebbrezza simile a quella del vino, per Cardarelli

Pavia, il 20/3/2016 per Gloria Ghioni
Oggi la primavera
è un vino effervescente.
Spumeggia il primo verde
sui grandi olmi fioriti a ciuffi
ove il germe già cade
come diffusa pioggia.
Tra i rami onusti e prodighi
un cardellino becca.
Verdi persiane squillano
su rosse facciate
che il chiaro allegro vento
di marzo pulisce.
Tutto è color di prato.
Anche l'edera è illusa,
la borraccina è più verde
sui vecchi tronchi immemori
che non hanno stagione,
lungo i ruderi ombrosi e macilenti
cui pur rinnova marzo il greve manto.
Scossa da un fiato immenso
la città vive un giorno
di umori campestri.
Ebbra la primavera corre nel sangue.

(Vincenzo Cardarelli)



VersoPrimavera - Le rose di Poliziano

La primavera che arriva nella Bergamo di Elena
























I’ mi trovai, fanciulle, un bel mattino
di mezzo maggio in un verde giardino.

Eran d’intorno violette e gigli
fra l’erba verde, e vaghi fior novelli
azzurri gialli candidi e vermigli:
ond’io porsi la mano a côr di quelli
per adornar e’ mie’ biondi capelli
e cinger di grillanda el vago crino.

Ma poi ch’i’ ebbi pien di fiori un lembo,
vidi le rose e non pur d’un colore:
io colsi allor per empir tutto el grembo,
perch’era sì soave il loro odore
che tutto mi senti’ destar el core
di dolce voglia e d’un piacer divino.

I’ posi mente: quelle rose allora
mai non vi potre’ dir quant’eran belle:
quale scoppiava della boccia ancora;
qual’eron un po’ passe e qual novelle.
Amor mi disse allor: «Va’, co’ di quelle
che più vedi fiorite in sullo spino».

Quando la rosa ogni suo’ foglia spande,
quando è più bella, quando è più gradita,
allora è buona a mettere in ghirlande,
prima che sua bellezza sia fuggita:
sicché fanciulle, mentre è più fiorita,
cogliàn la bella rosa del giardino.

Angelo Poliziano

VersoPrimavera: Petrarca e Sereni

   Zephiro torna, e 'l bel tempo rimena,
E i fiori, et l'erbe, sua dolce famiglia,
Et garrir Progne, et pianger Philomena,
Et primavera candida et vermiglia.
   Ridono i prati, e 'l ciel si rasserena.
Giove s'allegra di mirar sua figlia.
L'aria, et l'acqua, et la terra è d'amor piena.
Ogni animal d'amar si riconsiglia.
   Ma per me lasso tornano i più gravi
Sospiri, che del cor profondo tragge
Quella ch'al ciel se ne portò le chiavi.
   Et cantar augelletti, et fiorir piagge,
E 'n belle donne honeste atti soavi
Sono un deserto, et fere aspre, et selvagge.  
(F. Petrarca, Rerum Vulgarium Fragmenta, CCCX, ed. critica di Giuseppe Savoca, Olschki, 2008)

Cos’è una "ninfetta": le eroine dei romanzi di Nabokov, Buzzati e Cabrera Infante



Ci sono parole che risuonano come spie precise, tracce inequivocabili delle letture che un autore ha fatto proprie, prima di scrivere un libro. Viene spontaneo seguire il percorso che queste parole suggeriscono, per rintracciare motivi letterari della letteratura e per capire da dove derivano. Per questa riflessione ho scelto di concentrarmi solo su alcuni testi di Calasso, Nabokov, Cabrera Infante e Buzzati.
Riferendosi a Nabokov, Roberto Calasso scrive: «Non sarà che quella frase sopra citata sia stata buttata lì dall’autore fra tante altre, come per decorazione? No, mi rincresce, Signori della giuria, ma i veri scrittori non operano così». Cioè un vero scrittore, quando ne cita un altro, sa benissimo cosa sta facendo.
Leggendo Un amore di Buzzati, ho incontrato il termine ninfetta. È una delle primissime parole che l’autore usa per introdurre Laide, una bella prostituta minorenne che diventa in fretta un’ossessione per il protagonista:
Un breve percorso in macchina, sei piani di ascensore, ed ecco già la ninfetta stava togliendosi il reggipetto, sorridendo.

#Festadelpapà - Otto Frank e quel bisogno di vivere in armonia, nonostante tutto

Diario
di Anna Frank
traduzione di Arrigo Visa
Einaudi, pp. 306

L'invasione tedesca dell'Olanda segna l'inizio della fase più cruenta della Seconda Guerra Mondiale e dell'Olocausto. Due famiglie ebree tentano di sottrarsi all'orrore nazista, accettando di buon grado una reclusione forzata in un alloggio segreto allestito all'interno dell'edificio di Prinsengracht 263, nel cuore di Amsterdam, dove ha sede la società di cui è titolare Otto Frank.
Nel Diario, scritto dalla sua secondogenita Anna e pubblicato per la prima volta nel 1947 per espressa volontà dello stesso Otto Frank, affiora prepotentemente quella joie de vivre che impedisce alla giovanissima autrice di cedere alle insidie del disincanto e del pessimismo della ragione. Perfino nei momenti più bui, quando le notizie sconfortanti che giungono dal mondo esterno si intrecciano con i conflitti familiari esasperati dalla convivenza forzata, basta davvero poco per farle ritrovare il sorriso.

#Festadelpapà - Un padre galeotto


Si possono dire molte cose sulla figura di Jean Valjean, il protagonista indiscusso del capitale I Miserabili di Victor Hugo, tuttavia credo che ancora poco si sia indicato sulla valenza di questa figura anche nel ruolo, va detto piuttosto inedito, di padre.  La storia è nota a tutti: Jean Valjean, il più volte ri-nato si potrebbe definire, dopo varie peripezie, entra in contatto con Cosette, “la piccola rosa”, una bambina di neppure sette anni che gli spietati coniugi Thénardier sfruttano quasi alla stregua di una schiava per pulire e rassettare la loro infima locanda. Valjean quando scorge le piccole manine della bambina sorreggere un enorme secchio quando, in pieno inverno, è costretta ad andare a prendere l’acqua, ha un moto d’ira e capisce fin da subito che d’ora innanzi la missione della vita sarà assicurare un avvenire a Cosette. Ma chi era Cosette? 

Festa del papà: il troppo amore di Papà Goriot



Siamo a Parigi, nel 1819. Immaginiamo una vecchia signorotta con le mani sui fianchi che gestisce con assoluta autorevolezza una vecchia pensione. È Madame Vauquer e il suo albergo è il luogo dove si svolge il dramma (Balzac lo definisce proprio così) di Papà Goriot. Una serie di personaggi, la più variegata che si possa credere, popola le stanze della casa secondo un principio molto lampante quanto essenziale: chi meglio paga meglio allogga, ovvero, chi meglio alloggia ha la stanza al piano più basso. Una sorta di recessione al contrario, dove i meno ricchi arretrano verso l'alto. Tra gli ospiti di Madame Vauquer vi è Goriot, che dà il nome al romanzo. È un anziano signore di 69 anni che si ritira nella pensione dopo aver lasciato gli affari. La sua rendita non è bassa, ha di che vivere. Ha un portamento dignitoso nonostante l'età, un guardaroba ben fornito, un aspetto che Madame Vauquer definisce gradevole. Un sornione, un taciturno. Dobbiamo pensare a un uomo ancora nel pieno delle sue forze intellettuali, ma ormai solo. E come l'autore ci ricorda già nel titolo, un padre. Papà Goriot ha due figlie e vive per loro, letteralmente. Le sue due gioie, Anastasie e Delphine, hanno entrambe sposato due uomini molto ricchi e godono appieno della belle vie parisienne. Non mancano a nessun ballo, a nessuna festa presso le eleganti residenze dell'alta borghesia. I loro vestiti sono impeccabili. Come in una vecchia fiaba, due Cenerentole la sera del ballo. Soltanto che qui non c'è nessuna fata turchina a provvedere al loro guardaroba, alla loro felicità. C'è Goriot. Egli nutre un amore incondizionato per le sue figlie, come quello di ogni padre certamente, ma un amore che lo spinge a rinunciare a tutto ciò che ha pur di vederle felici, contente, ben vestite.
La mia vita è nelle mie due figlie. Se loro si divertono, se sono contente e ben vestite, se camminano sui tappeti, che mi importa di come sono la stoffa dei miei vestiti e il posto in cui dormo? Se stanno al caldo io non sento il freddo, se ridono io non mi annoio. Non ho altri dispiaceri che i loro... un giorno saprete che si è molto più felici della loro che della propria felicità. Non posso spiegarvelo: sono dei moti interni che spandono la gioia dappertutto. Insomma, io vivo tre volte. (…) Insomma, io vivo tre volte. Vuole che le dica una cosa curiosa? Ebbene, quando sono diventato padre, ho capito Dio. Egli è tutto quanto in ogni luogo, poiché la creazione è opera sua. Io sono così con le mie figliole, signore. Solo che io amo le mie figliole più di quanto Dio ami il mondo, poiché il mondo non è bello come Dio, e invece le mie figliole sono più belle di me.

#Festadelpapà - un ricordo di arance e mosto nella saga dei Molise di John Fante

Foto di @la_effesenza




È così attaccato alla Famiglia che ne deve scappare. Com’è destino di tutti i figli più legati. Sono sempre loro ad andarsene, si espellono da soli per non perire del tutto.
Tra le migliaia di figure paterne che costellano la letteratura di ogni epoca, è stato il Nick Molise da La confraternita dell’uva di John Fante a venirmi istantaneamente in mente raccogliendo i ricordi legati alla festa del papà. L’autore tra i più dolorosi della narrativa anglo-americana del Novecento ha racchiuso nel libro della sua maturità letteraria la più micidiale e tormentosa elegia della figura paterna; Nick Molise si erge massiccio, tirannico e ingombrante per tutta la durata dell'opera, non rappresentando soltanto l'atavico padre di famiglia, granitico e perennemente legato ai valori trasmessi dal lavoro manuale (incapace di accettare come mestiere l’attività di scrittore del figlio Henry-John Fante), ma anche l'emblema della prima generazione infangata di italiani emigrati in America, oppressi e sommersi dai biechi pregiudizi pronunciati nei loro confronti:

#FestaDelPapà - Atticus Finch


Foto di Debora Lambruschini
Volevo che tu imparassi una cosa: volevo che tu vedessi che cosa è il vero coraggio, tu che credi che sia rappresentato da un uomo col fucile in mano. Aver coraggio significa sapere di essere sconfitti prima ancora di cominciare, e cominciare egualmente e arrivare sino in fondo, qualsiasi cosa succeda. È raro vincere, in questi casi, ma qualche volta succede.


Avevo undici anni la prima volta che ho letto Il buio oltre la siepe, il meraviglioso romanzo di Harper Lee. Era estate, una di quelle lunghe, bellissime estati fatte di sole, giornate al mare o gite in campagna, serate al fresco durante le quali crollare esausti dopo le avventure del giorno. Un susseguirsi di giochi, amici e risate in un incanto che solo settembre – e l’inevitabile ritorno a scuola – poteva spezzare.
Ed erano anche, per me, giorni di letture e scoperte, già irrimediabilmente conquistata dal fascino delle storie. Lì, nella piccola biblioteca del mio paese, quell’estate, ho incontrato Atticus Finch.

#Festadelpapà - la cura dell'infermiere





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Se mi accanisco sulla ricostruzione della sua decostruzione, non è, ritengo, per morbosità. Piuttosto, mi pare che simili modifiche mi abbiano svelato qualcosa della sua personalità che prima non era mai emerso. Di solito è il contrario: la malattia accomuna gli individui, rendendoli indistinti rappresentanti di una classe (gli artrosici, i Parkinson). Nel suo caso, invece, il male costituì una breccia grazie alla quale penetrare nelle difese che per tutta la vita lo avevano protetto.

Approfittare delle debolezze altrui, potrà sembrare vile, ma io me ne servivo per avvicinarmi alla persona. L’unico motivo per cui intendevo sfruttare la situazione, consisteva nell’intento (questo sì probabilmente sadico) di conoscerlo meglio. Tale desiderio, cioè, rappresentava la mia terapia, come se la malattia dell’infermo avesse potuto costituire la guarigione dell’infermiere.

Ma no, mi ripeto. Il mio era soltanto il martelletto amico che batte sul ginocchio. La malattia come un piede di porco per scassinare i segreti di chi amiamo, la barra su cui fare leva per irrompere all’interno di un altro spazio, forzando i chiavistelli. Un’effrazione, dunque. Sarà vero? Oppure, così facendo, finisco per conoscere soltanto le sembianze del male, e smarrisco il paziente?
da Geologia di un padre di Valerio Magrelli, Einaudi, 2013, p. 69

Questo è un brano che parla da solo, in effetti, ma se volete approfondire, trovate qui la recensione.

#Festadelpapà - "On the road" di Kerouac

"Così in America quando il sole va giù e io siedo sul vecchio diroccato molo sul fiume a guardare i lunghi, lunghissimi cieli sopra il New Jersey e avverto tutta quella terra nuda che si svolge in un'unica incredibile enorme massa fino alla Costa Occidentale, e tutta quella strada che va, tutta la gente che sogna nell'immensità di essa, e so che nello Iowa a quell'ora i bambini stanno certo piangendo nella terra in cui lasciano piangere i bambini, e che stanotte usciranno le stelle, e non sapete che Dio è l'Orsa Maggiore?, e la stella della sera deve star tramontando e spargendo il suo fioco scintillio sulla prateria, il che avviene proprio prima dell'arrivo della notte completa che benedice la terra, oscura tutti i fiumi, avvolge i picchi e rimbocca le ultime spiagge, e nessuno, nessuno sa quel che succederà di nessun altro se non il desolato stillicidio del diventar vecchi, allora penso a Dean Moriarty, penso persino al vecchio Dean Moriarty, il padre che mai trovammo, penso a Dean Moriarty".  
(J. Kerouac, On the road)

#Festadelpapà - Duri dal cuore tenero


Io e loro, I capitolo

Tra tutti i padri letterari, quello che vorrei ricordare in occasione della Festa del Papà è sicuramente il marito di Brunella Gasperini, comprimario indispensabile di tutte le sue esilaranti vicissitudini familiari, uomo rude ma affezionato, burbero ma attento, e capace di grandi slanci di tenerezza. In Io e loro. Cronache di un marito, Brunella immagina che sia proprio l’uomo a descrivere in prima persona la sua strampalata famiglia: dunque se stesso, i tre figli, la moglie e, immancabili aggiunte, il Bu, la Rosa e la Vecchia (ovvero il cane, la domestica e l’automobile). Il tono della sua narrazione e i tratti principali del suo carattere emergono già al momento delle presentazioni:

#Festadelpapà - E quel papà di Natalia Ginzburg...


Nella mia casa paterna, quand’ero ragazzina, a tavola, se io o i miei fratelli rovesciavamo il bicchiere sulla tovaglia, o lasciavamo cadere un coltello, la voce di mio padre tuonava: “Non fate malagrazie!”
Se inzuppavamo il pane nella salsa, gridava: “Non leccate i piatti! Non fate sbrodeghezzi! Non fate potacci!”
Sbrodeghezzi e potacci erano, per mio padre, anche i quadri moderni, che non poteva soffrire.
Diceva: “Voialtri non sapete stare a tavola! Non siete gente da portare nei loghi!
[…] Ogni atto o gesto nostro che stimava inappropriato, veniva definito da lui «una negrigura». […] La gamma delle negrigure era grande. Chiamava «una negrigura» portare, nelle gite in montagna, scarpette da città; attaccar discorso, in treno o per strada, con un compagno di viaggio o con un passante; conversare dalla finestra con i vicini di cassa; levarsi le scarpe in salotto, e scaldarsi i piedi alla bocca del calorifero; lamentarsi, nelle gite in montagna, per sete, stanchezza, o sbucciature ai piedi; portare, nelle gite, pietanze cotte e unte, tovaglioli per pulirsi le dita.
(da Natalia Ginzburg, Lessico famigliare, Einaudi, Torino 1999, pp. 3-4) 
 
Quando ho incontrato il papà di Lessico famigliare per la prima volta,  ho provato fin dalle prime pagine un enorme fastidio che si insinuava prepotente nel suo lessico, tra le parole che ai nostri giorni vediamo "politicamente scorrette". Era il suo tono autoritario, o forse la pretesa di sapere sempre cosa dire e come etichettare le cose e la gente, a darmi così fastidio? O erano dei punti freudianamente in comune con chi sedeva al capotavola di casa? Avevo sì e no 16 anni, a quella prima lettura, e nelle mie vene il desiderio di ribellione accecava tutte le belle ambizioni linguistiche della Ginzburg. Non le vedevo. Per me il papà di Lessico famigliare era un protagonista scomodo, che si impone senza mai chiedere permesso, strabordante rispetto alle richieste e ai bisogni dei figli. A Natalia, poi, non restava che il ruolo di una narratrice timida, che quasi recalcitra a dire "io" e si schiaccia nel ruolo di testimone.