#Festadelpapà - Duri dal cuore tenero


Io e loro, I capitolo

Tra tutti i padri letterari, quello che vorrei ricordare in occasione della Festa del Papà è sicuramente il marito di Brunella Gasperini, comprimario indispensabile di tutte le sue esilaranti vicissitudini familiari, uomo rude ma affezionato, burbero ma attento, e capace di grandi slanci di tenerezza. In Io e loro. Cronache di un marito, Brunella immagina che sia proprio l’uomo a descrivere in prima persona la sua strampalata famiglia: dunque se stesso, i tre figli, la moglie e, immancabili aggiunte, il Bu, la Rosa e la Vecchia (ovvero il cane, la domestica e l’automobile). Il tono della sua narrazione e i tratti principali del suo carattere emergono già al momento delle presentazioni:


IO – Sono l’unica persona normale della famiglia, sebbene mia moglie abbia talvolta l’aria di considerarmi un soggetto da psicanalisi. “È figlio unico”, sospira scuotendo la testa. Secondo mia moglie un individuo, per essere appena appena normale, deve avere un minimo di due fratelli. Lei, infatti, che ne ha avuti qualcosa come cinque, è supernormale: il che significa pazza completa. Ma andiamo avanti con me. “Dino non invecchia mai”, dicono tutti. “Guardatelo, sembra sempre un ragazzo”, dicono. Al che mia moglie mi guarda sollevando un angolo solo della bocca, cosa che mi rende molto nervoso. Ma sto divagando di nuovo. Ho trentasette anni e non li dimostro. Mi piace dipingere, coltivare fiori, sciare. “Dino è un tipo sportivo”, dicono tutti. “Ha un temperamento artistico”, dicono anche. Con tutto questo, faccio l’impiegato. In banca: otto ore dietro a una scrivania a fare statistiche idiote. Questo succede quando uno si sposa troppo giovane. E va in guerra sette giorni dopo le nozze. E quando torna, trova una figlia che cammina e parla e lo chiama zio perché non sa che cosa sia un papà. Poi ha imparato. E intanto, grazie alle teorie psicologiche di mia moglie, sono arrivati gli altri due e… Insomma, sono impiegato. Tipo sportivo, temperamento artistico, e impiegato. Cose che capitano. Sono un padre. Qualche volta mi sembra ancora strano.
È un tipo laconico, Dino. Essenziale, a tratti un po’ caustico. Eppure è innamorato dei suoi cari, e grazie alla sua prosa sbrigativa, che non indulge in sentimentalismi superflui ma riesce comunque a svelare il non detto, fa innamorare anche noi. Quelle da lui descritte sono situazioni quotidiane, in cui chiunque può ritrovarsi. Le ansie genitoriali, le ondate d’affetto, le ire improvvise (montate e subito scemate), l’orgoglio per la prole che lui stesso ha messo al mondo sono sentimenti universali, che fanno scattare immediato il riconoscimento. Lui è un padre come tanti padri. Non padrone, non assente, non eccessivamente presente. Non “nobile” come numerosi altri che affollano la nostra letteratura, non ambizioso, non perfetto. Potrebbe essere il mio, il vostro. Per questo, tra tutte le opzioni possibili, ho scelto lui. Perché oggi è la “festa del papà” e per me, per la mia esperienza del tutto personale, la paternità è esattamente questo: normalità condivisa, tante risate, qualche zuffa furibonda e transitoria, rassicurante solidità. Ho scelto lui perché nel suo sguardo apparentemente disinteressato e sornione si nasconde la premura costante che io ho sempre ritrovato nel mio stesso genitore, che qualche volta non mi ha detto quello che davvero pensava per lasciarmi lo spazio di crescere e di arrivare da sola alle giuste conclusioni. Ho scelto lui perché in una scena particolare mi sono riconosciuta e ho sorriso pensando che anche mio padre deve essersi sentito, in almeno un’occasione, esattamente in quel modo.
La protagonista, in questo caso, è la figlia grande, per il narratore amareggiato troppo grande e troppo presto: “con quell’aria di Alice nel paese delle meraviglie e una maglietta con dentro dei tentativi che l’anno scorso non c’erano, mi fa una rabbia maledetta: chi le ha dato il permesso di crescere?”. Il 21 luglio, in occasione della festa di San Bruno, la ragazzina dovrebbe come di consueto celebrare il suo onomastico ma, nell’estate dei suoi quindici anni, appare per la prima volta scontrosa e irritabile. Quello che le manca sono gli amici, in particolare una lunga rassegna di “tizi, tizioni e tizietti” che il padre certo non vorrebbe vederle intorno, ma che è lui stesso ad invitare pur di sorprenderla e renderla felice:

I tizioni (dai 21 in su) avevano veri o presunti impegni precedenti a Lugano, e non vennero. Ma i tizi (dai 18 ai 20) e i tizietti (dai 15 ai 17) vennero. Erano cinque. Li conoscevo da bambini, li avevo visti ogni estate, sempre un po’ più alti, come i pioppi del giardino pubblico che la prima volta che venni qui erano alti un palmo e adesso sono sei metri; e come i pioppi li avevo sempre considerati: una parte del paesaggio, simpatica, innocua, così nota che non ci si fa neanche più caso.
Ma quella sera, quando li vidi entrare dal cancello, era come se li vedessi per la prima volta. Non erano pioppi. Erano tizi.
Vennero avanti per il viale, stretti nei blue-jeans, molleggiando gambe e voce, i possibili insidiatori di mia figlia.
La figlia li aspettava in veranda con l’inseparabile cugino diciassettenne Emilio e tre o quattro amichette racimolate qua e là che parlavano tutte insieme.
Lei non parlava. Si fermò sulla soglia illuminata, una ragazza con lunghe gambe e lunghe ciglia, e anche lei mi pareva di vederla per la prima volta.
Andai di sopra col cuore in pezzi.


Ed ecco, in questo momento di rivelazione, nella malinconica presa di coscienza del tempo che passa e dei figli che crescono, la miglior celebrazione possibile per tutti i papà. Con l’augurio che portino pazienza, anche se ci vedono crescere, o forse perché ci vedono crescere. Che sappiano che, proprio una volta diventati grandi, i figli capiscono e sono pronti a ricordare e a rendere loro il giusto merito.


Carolina Pernigo