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Come nasce un classico? Il carteggio tra Calvino, Rigoni Stern e Vittorini

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Come si fa a riconoscere uno scrittore? Quali sono gli ingredienti per fare di un libro un classico della letteratura? Per capirlo non basta andare per librerie, allungare il braccio e leggere i libri più belli di sempre, perché si resta comunque all’oscuro di cosa c’è stato dietro la manifattura di un testo: quello sotto i nostri occhi è solo il progetto finito. Per indagare bisogna mettere il naso nelle carte dell’editore, tra le lettere dei suoi redattori e, se pensiamo alla casa editrice Einaudi di qualche decennio fa, tra loro figuravano nientemeno che Italo Calvino, Elio Vittorini, Cesare Pavese e Raffaele Crovi. 
Nella Storia dei Gettoni, la collana diretta da Vittorini, ritroviamo le lettere che ricostruiscono il caso del Sergente nella neve di Mario Rigoni Stern, che fu sergente durante il periodo della Seconda guerra mondiale nel corpo degli Alpini. 
Nell’ottobre del ’51 Vittorini si adoperava per far pubblicare Il sergente, che gli sembrava «la cosa più viva» che avesse letto sulla guerra, seppure rimaneva forte il dubbio che fosse un tema ormai sviscerato in numerosissime pubblicazioni politiche; ma poi tornava di nuovo a pensare che se Einaudi non avesse voluto pubblicarlo l’avrebbe proposto a Laterza. Rifletteva sulle imperfezioni del testo, Vittorini, ma sapeva che con qualche modifica il testo sarebbe stato perfetto. Poco più di un anno dopo, Rigoni Stern riceveva una lettera dell’editore in persona: Giulio Einaudi dichiarava che il suo libro fosse «di grandissimo interesse», ma la copia che l’autore ha inviato risultava «molto scorretta», bisognava dunque intervenire sul testo. Nel carteggio relativo al romanzo di Stern ritroviamo molte lettere di Calvino: nella prima, ad esempio, richiedeva a Vittorini di scrivere la quarta di copertina e un buon titolo; fu Vittorini a proporre Il sergente nella neve, che in seguito venne confermato, e scrisse un breve testo di rara efficacia per la quarta: 
Mario Rigoni non è scrittore di vocazione. […] alpinista, impiegato statale, forse non sarebbe mai capace di scrivere di cose che non gli fossero accadute. Ma può riferire con immediatezza e sincerità di quello che gli accade. […] Rigoni non testimonia per rendersi utile a una causa o a un’altra, ma per il semplice gusto che prova, in comune coi poeti, a testimoniare.
Compie prima una manovra un po’ azzardata, affermando con sincerità che l’autore non è un vero e proprio scrittore, quindi ne esalta le qualità narrative che possono destare in un lettore l’interesse per il libro. Rigoni si mostrò soddisfatto sia per il titolo che per la presentazione, riconoscendosi in quelle poche parole. Il sergente nella neve vinse il premio Viareggio opera prima ed Ermanno Olmi ne trasse una sceneggiatura purtroppo mai diventata un film, e pubblicata soltanto nel 2008. Nel ’53 lo scrittore chiese notizie sulla segnalazione del suo libro al premio Strega e a questa sua segue una lettera di Calvino, una sorta di gioiello che ogni scrittore potrebbe desiderare: 
Caro Rigoni Stern, abbiamo la Sua lettera del 22 giugno, che ci ha riempito di rimorso perché non l’abbiamo tenuta al corrente della grande fortuna del suo libro. Di fatto siamo abituati a trattare con autori molto vanesii, abbonati all’Eco della Stampa e che non perdono una sillaba di quanto si dice e si scrive di loro in tutta Italia, e abituati a molestare critici e recensori per far parlare di loro; e il Suo caso, di Lei così modesto e appartato che ottiene tanto spontaneo successo è davvero un caso nuovo e confortante. Ma come? Lei non sa d’essere lo scrittore del giorno? L’uomo più discusso, esaltato, celebrato su tutti i giornali italiani?
Vittorini, tra una lettera e l’altra, si fece via via più sfuggente e impegnato, sebbene sempre molto cordiale, Rigoni intrecciò invece con Calvino una corrispondenza più fitta, fatta di consigli sullo scrivere, sulle letture; risolsero così malintesi alle volte molto gravi e questioni amministrative. Tra quelle lettere leggiamo: «Caro Rigoni, ho letto L’ultimo urogallo. Promette bene, ma poi delude.[…]», cui Rigoni risponde così: «Caro Calvino, ho ricevuto la tua lettera con il racconto e ti ringrazio per i tuoi consigli che mi sono cari […]». 
E poi: 
Caro Rigoni, in agosto Il sergente esce in Inghilterra dall’editore McGibbon & Kee. Il traduttore è quello che ha tradotto I promessi sposi!
Ciao 
Scrive Rigoni: 
A volte penso di essermi esaurito con il Sergente; altre, invece, di aver ancora qualcosa da dire. Non so. Forse avrei bisogno di muovermi dal mio paese, conoscere gente, soffrire fisicamente per raffinarmi i sensi. Sono contento solo quando vado a lavorare nei boschi o a caccia o quando coltivo l’orto. Il lavoro dell’ufficio mi leva ogni energia e anche la soddisfazione dell’energia fisica. Le cifre, i ruoli delle imposte, le volture, i certificati non riescono a darmi niente. Mi dico sempre: mettiti a lavorare, scrivi. E cosa dire? […] Vedi, in una tua lettera mi rimproveravi perché non ti scrivevo e ora ti ho detto delle cose che nemmeno pensavo di dirti quando stasera mi son detto: scriviamo a Calvino. E così ti saluta
Mario Rigoni Stern 
Una buona parte della corrispondenza riguarda anche qualcosa di più prosaico, i compensi su cui Rigoni contava per arrotondare lo stipendio, di cui fa spesso richiesta nelle sue lettere: «Ti chiedevo, tempo addietro, dei diritti dell’edizione giapponese del Sergente e non ho avuto nessuna risposta in merito. Non potrei avere cinquanta mila lire? Forse è triste parlare di queste cose ma, del resto, è necessario. Poi, altrove: «Ti saluto con cordialità e scrivimi qualcosa». 
Più in là, nel 1959, Rigoni scrive una lettera più malinconica a Vittorini: 
Non sono capace di fare discorsi di critica; sono quello che sono e scrivo quello che scrivo. A volte cose buone, così per istinto, a volte no. Non sono neanche un letterato né pretendo esserlo o diventarlo: è una cosa troppo seria scrivere storie. Per questo ne scrivo poche e vedo anche che aveva ragione Lei quando, presentando il Sergente, scrisse di me quelle cose: “Rigoni non è scrittore per vocazione…”. Ed è ben vero che, quando scrivo cose che non ho vissuto direttamente, calo, calo e calo di tono. […] avrei bisogno di continue e nuove esperienze che mi disincantano dal torpore e scuotono la mia pigrizia. E di un po’ di tranquillità economica anche. 
Calvino incoraggia l’autore, «aspetto da te qualcosa di nuovo, mi raccomando!» e poi «Il giorno che lo continuerai [Si riferisce a Lettera dall’Australia, N.d.R.] e allargherai magari facendoci entrare storie di parenti e amici, e i figli, la cronaca della tua gente in questo dopoguerra ‒ avrai fatto il tuo grande romanzo». E Rigoni scrive Il bosco degli urogalli. Oltre che per la gentilezza Rigoni si distingueva per la sua straordinaria umiltà, qualità che ‒ sempre più spesso ‒ scarseggia negli aspiranti scrittori di oggi. Narrare non è per molti un istinto puro e semplice, ma una sorta di vanità, che si afferma su tutto il resto, anche sull’idea stessa del libro.