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Invito alla lettura di "La marcia di Radetzky" di Joseph Roth

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La marcia di Radetzky
di Joseph Roth
Adelphi, Milano, 1987 

[Ed. orig. 1932]



Nella Marcia di Radetzky Joseph Roth racconta attraverso la specola di tre generazioni della famiglia Trotta, poi von Trotta, la dissoluzione dell’Impero asburgico all’indomani della Grande Guerra. Con la potenza austro-ungarica, in realtà, si dissolse non solo l’ultima possibilità reale di una dominazione sovranazionale, ma anche quel clima culturale poliglotta e cosmopolita che permeava la Vienna di fine Ottocento e primo Novecento. Roth, che di quel clima fu acceso e illustre protagonista, ne racconta la fine politica, anzi più specificatamente politico-militare. E le più vibranti e turgide pagine del romanzo sono proprio quelle in cui Roth descrive l’annuncio della notizia dell’attentato all’Arciduca Francesco Federinando a Sarajevo, durante una grande festa in una guarnigione di confine, dove si trovano riuniti diversi ufficiali dell’esercito austro-ungarico. Già solo la notizia scopre le crepe sotterranee che i nazionalismi aveva scavato tra quelli che avrebbero dovuto combattere e morire per la saldezza dell’Impero: slavi, magiari, ruteni, tedeschi s’accapigliano fin da subito. La guerra è persa prima ancora di cominciare. I decenni che l’avevano preceduta, cui si dedica la narrazione di Roth, erano stati una lenta e implacabile china verso il prevedibile epilogo. E i personaggi del romanzo, dal capostipite Sottotenente Joseph Trotta al figlio e al nipote, fino ai molti che ne incrociano le vicende, non ultimo lo stesso Imperatore Francesco Giuseppe, sono sbozzati a rilievo entro un arco fatale, un destino, che li sovrasta, indifferente alle virtù o ai vizi di ognuno.

La scrittura di Roth è una lama che taglia con precisione millimetrica la sezione di realtà che intende rappresentare. Su tutta la narrazione aleggia un’idea di rigidità, di controllo e autocontrollo, che, però, nasconde barbagli di tempesta e di oscure minacce. La prosa di Roth è piana, affabile, non si concede incursioni nelle profondità della psiche, non fa sfoggio d’ingegnose sentenze gnomiche, non ha bisogno di una sintassi o di un lessico ricercati. Si tiene a distanza dalle coeve sperimentazioni stilistiche e s’accontenta di una sapiente alternanza tra i tempi grammaticali del passato, imperfetto e perfetto, e un presente storico che sbalza e vivacizza la narrazione. Fissa lo sguardo all’esterno, da grande giornalista che è anche stato, ne riferisce i dettagli e l’aspetto, con precisione e sicurezza.

Il ferreo disegno ebraico-cristiano della linea nonno/padre/figlio (che riguarda i Trotta, ma anche altri personaggi importanti – e forse non un caso che la catastrofe precipita proprio quando questa linea viene recisa dall’attentato di Sarajevo) spartisce tutto ciò che è ai lati di essa (comprese le donne, alle quali è negato ogni ruolo attivo, se non in termini di “riposo del guerriero”: in questo romanzo non ci sono madri): il fulcro della narrazione e della Storia che ne è il referente è attorcigliato a quella linea, che tutto giudica e alla quale tutto dev’essere riportato.

La Marcia di Radetzky è un romanzo di grandi e dettagliate descrizioni, le azioni sono poche e quasi assenti i dialoghi, proprio perciò le poche azioni e i pochi dialoghi acquisiscono una risonanza simbolica di grande effetto. Roth grazie al suo acutissimo sguardo-memoria descrive il mondo prima del crollo: paesaggi, interni domestici, vestiti, alimenti, spazi urbani, abitudini, costumi, leggi. Come ne facesse un inventario da tramandare ai posteri. E dalle dettagliate descrizioni si sprigiona un che d’inquietante, d’inesorabile, verso il quale Roth ci conduce con mano commossa, ma ferma.

Gran parte delle azioni salienti del romanzo sono ripetute a distanza di tempo e la replica è una degenerazione dell’azione originaria: l’amore della signora Slama per il giovane von Trotta è replicato in forma corrotta da quello della signora Taussig; l’atto d’eroismo del capostipite, aver salvato la vita all’Imperatore nella battaglia di Solferino, è replicato in effige dal nipote strappando dai muri d’un bordello un ritratto dello stesso Francesco Giuseppe; l’udienza che il capostipite ottenne dell’imperatore per chiedere “verità e giustizia” è replicata da quella ottenuta dal figlio per impetrare grazia per il giovane Sottotenente nipote di cotanto nonno e finito in una brutta storia di debiti; il capitano Demant muore in duello per una questione d’onore, il capitano Wagner perché rovinato dal gioco e così via per quasi tutti i fatti importanti del romanzo.

Inventario, degenerazioni del passato, china implacabile sono avvolte da un trattamento davvero ragguardevole del tempo dell’orologio, più ancora di quello della storia e mai quello interiore, e della vita della natura. Il tempo dell’orologio è scandito con precisione cronometrica e spessissimo è tempo dell’attesa (si vedano l’incontro del giovane Trotta con il brigadiere Slama o il duello che vedrà affrontarsi due ufficiali), ed è scandito non dagli orologi privati (magari spersi in tasche inaccessibili), bensì dai rintocchi delle campane o dalle pendole: è scandito dall’esterno e porterà quello che deve portare, quasi fosse una marcia militare. Ed esterni sono anche i versi degli uccelli, i ronzii, i gracidii che accompagnano e frastornano costantemente le azioni dei personaggi. L’involucro del mondo degli uomini che crolla gli sopravvivrà: i minuti, i quarti, le ore, il cielo, le stelle, il sole, la luna, gli uccelli, gli insetti, gli alberi non ne saranno coinvolti, ma non potranno nemmeno salvarlo.

Paolo Mantioni


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