#LibrinTrincea - Caporetto nella letteratura di guerra pt. 2

In questa seconda raccolta dedicata alla Prima Guerra Mondiale per la rubrica #LibrinTrincea, riprendiamo degli scritti di Mario Puccini che espressivamente rappresenta la “carovana” dei soldati che hanno sopportato di tutto. Una rappresentazione vicina a quella di Paolo Monelli, intento a richiamare la condizione umana più che quella di soldati in guerra per la patria. 
Il racconti distaccato di Alfredo Panzini, che riporta come la città continui con le sue vivacità nonostante la terribile sconfitta, si scontra invece con il dolore del racconto in prima persona di Aldo Palazzeschi quando apprende della disfatta.

NdA: le pagine di riferimento sono quelle del volume di Mario Isnenghi I vinti di Caporetto nella letteratura di guerra (Venezia, Marsilio, 1967)




#CritiComics - Il selvaggio e romantico West di "Gus"

Gus - 1. Nathalie
di Christophe Blain
Traduzione di Michele Foschini
Bao Publishing, 2014

pp. 79
€ 16,00 cartaceo

Per me il selvaggio West ha sempre rappresentato il luogo dove il valore della parola veniva sospeso per lasciare spazio all'importanza dell'azione. Pur esercitando il massimo dello sforzo sulla mia memoria, mi viene difficile ricordare più di cinque o sei sequenze del cinema western rese famose da un dialogo, mentre potrei fare un elenco pressoché infinito di sparatorie, duelli, fughe, attacchi indiani o assalti ai treni, e questo coinvolgendo il classico John Ford (la cui visione del West è stata purtroppo invecchiata più dalla critica cinematografica che dall'età), l'apocalittico Peckinpah, o molto di quel cinema degli anni Settanta che - citando il western - metteva in scena personaggi silenziosi (basti guardare il carpenteriano “1997: Fuga da New York”).

Il cinema western trova la sua misura morale proprio nel giudicare gli uomini dalle proprie azioni, scartando del tutto il peso delle loro parole. Perché quando un uomo con molte cose da dire incontra un uomo con il fucile, quello con molte cose da dire è un uomo morto perché durante un duello non bisogna parlare, bisogna semplicemente sparare.

L'accumulo dei malesseri singoli nell'Italia di oggi

La ferocia
di Nicola Lagioia
Einaudi, 2014


pp. 418


Il consiglio spassionato è: divorare “La ferocia”. Magari, successivamente, ci sarà bisogno di chiarire certi passaggi, depositarli, ricostruirseli in testa, perché no rileggerli. La ferocia a chi appartiene? È una parola impegnativa, io la trovo anche letteraria. La ferocia è una condizione che si raggiunge per accumulo. I singoli personaggi, infatti, non sono delle belve assatanate, non ci sono i cartelli messicani della droga di Don Winslow, nonostante si finisca per indagare pure qui, e smascherare, un contesto malavitoso.

Da Vittorio Salvemini agli ultimi comprimari, alcuni sono peraltro ben caratterizzati, tutti si sostengono grazie a un intricato sistema di alleanze di comodo dove entrano in ballo galoppini, affari sporchi, paesaggi sventrati, sporchi festini. Perfino una figlia. E ricatti. Eppure in ciascuno cresce di pari passo un senso di profondo malessere, vuoi per l’età vuoi per margini di coscienza, un malessere paludoso, quello della gente di potere ma sull’orlo perenne di un burrone in fondo al quale sta la sconfitta. Delineabile.
Lagioia s’immerge in questa palude con una perseveranza che per qualcuno può essere fastidiosa. Personalmente non ho provato questo sentimento, nemmeno quando dalle pagine emergono gli aspetti più perversi, perché si parte sempre da un’esplorazione a monte: quella del cuore dei “cattivi”, una prospettiva che svela una traccia di umano. Non sono feroci, assumono semmai atomi di una ferocia schizzata ovunque.

Marco Saverio Loperfido, "Claude Glass"





Claude Glass
Marco Saverio Loperfido

Annulli Editori, 2014
pp. 159
12,00


Il paesaggista si piazza alle spalle a ciò che vuole ritrarre e proprio grazie allo specchio convesso lo vede tutto racchiuso davanti a sé. Non trovi che ci siano delle similitudini con il tuo modo di guardare l’Italia, ovvero attraverso la lente del mio sguardo, posto dietro di te nel tempo? (Pag 73)

Coloro i quali nel settecento ritraevano paesaggi ad acquarello, usavano il claude glass, il cui nome ricorda Claude Lorraine. Il claude glass era un piccolo specchio convesso e annerito, da usare posizionandosi con le spalle rivolte verso ciò che si voleva dipingere. Lo specchietto creava una migliore inquadratura della scena e un ammorbidimento dei colori che prendevano così una sfumatura languida. Era usato anche dai viaggiatori dell’epoca.
Claude Glass” è anche il titolo del romanzo d’esordio di Marco Saverio Loperfido, per la Annulli editori. Il romanzo si rifà alla tradizione della “simulazione del vero”, con l’espediente del ritrovamento del manoscritto o delle lettere. Nello specifico, Claude Glass è il nome di un negozio di robivecchi nel quale il protagonista, Sebastiano Valli, trova, chiusa nel cassetto di un mobile, una lettera scritta da Robert Grave, giovanotto inglese, giunto in Italia nel 1792 per fare il Gran Tour, cioè quel giro d’istruzione finanziato dai genitori, che erano soliti compiere i ragazzi della buona società anglosassone. Spinto da un impulso bizzarro, Sebastiano risponde alla lettera. Inizia così un favoloso carteggio fra due uomini che vivono a distanza di duecento anni l’uno dall’altro. Robert e Sebastiano diventano amici, approfondiscono la reciproca conoscenza, aprono l’un l’altro il proprio cuore, litigando e riappacificandosi, come capita spesso nelle amicizie reali e in quelle virtuali. Anche Hollywood ha sfruttato la trovata dell’epistolario sfasato nel tempo in alcuni film, ci viene in mente “La casa sul lago del tempo” di Alejandro Agresti, a sua volta remake di un film coreano.
I tempi divergenti di Sebastiano e Robert si avvicineranno sempre più, le donne amate avranno lo stesso nome, fino alla conclusione che, pur lasciando aperte tutte le possibilità, fa intuire la probabilità di una sovrapposizione dei due. Forse Robert Grave è solo una proiezione di Sebastiano, il suo bisogno di vedere la realtà con gli occhi del passato o, meglio ancora, di “tornare” al passato.

Scrittori in Ascolto - "Atlante immaginario", incontro con Giuseppe Lupo


L'utopia come sguardo sul mondo, come modo di essere, forma e traccia della speranza. Ma utopia intesa anche come molteplicità di lingue, rotte e ipotesi che ciascuno si porta dentro, viaggiando su linee immaginarie tracciate su mappe imprecise e diverse, verso luoghi ipotetici ma sempre possibili se solo si ha il coraggio di immaginarli.

Il volume "Atlante immaginario" (Marsilio) scritto da Giuseppe Lupo - docente di letteratura italiana contemporanea presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e di Brescia nonché editorialista del «Sole 24 Ore della Domenica» - è una raccolta di articoli e riflessioni sull'altrove - sull'utopia - che sempre ci circonda, nos non sentientes. Un altrove caleidoscopico fatto di storie e vite che si ritrova e ritorna in quasi tutti i romanzi di Giuseppe Lupo (L'Americano di Celenne, Ballo ad Agropinto, La carovana Zanardelli, L'ultima sposa di Palmira e Viaggiatori di nuvole), scrittore con la capacità di suggerire ai propri lettori la possibilità di compiere quel passo in più verso uno sguardo creativo sul mondo. A ciascuno - pare essere questa la sintesi estrema delle tante brevi riflessioni contenute nel volume - è data ed è riservata un'utopia personale, fatta di un altrove colorato e vivo, un campo fiorito dove scorazzare, tracciando mappe e confini diversi, storie e "carovane". E la testimonianza è l'autore stesso e il suo sguardo sul mondo.

"Il contrario dell'amore" di Sabrina Rondinelli

Il contrario dell'amore
di Sabrina Rondinelli
Indiana Editore srl, 2014

pp. 265


Mancano tre giorni a Natale in una Torino addobbata di tutto punto, che invita i suoi abitanti a trascorrere le festività nel pieno rispetto di una tradizione ormai plurisecolare. Fra questi, s'insinua anche un pizzico di civetteria che induce le signore di ogni età a voler farsi belle o, quanto meno, a prepararsi ad affrontare i lunghi pranzi e le riunioni familiari di rito con la testa in ordine. Le clienti del salone Daniela Acconciature in cui lavora Eva non fanno eccezione, e vi confluiscono in massa ben felici di appagare questa innocente vanità: tutto sommato, una volta l'anno vale la pena pagare dei prezzi salati per essere trendy.
I ritmi sono così sincopati, che a stento Eva riesce a scambiare due chiacchiere al volo con Katia, mentre entrambe sono impegnate al lavateste. Eva non è ancora riuscita a ritagliarsi un po' di tempo per comprare i regali, forse anche perché sotto sotto vorrebbe cancellare con un colpo di spugna le feste comandate che la obbligano a sorbirsi quelle tremende riunioni di famiglia dove tutti, a cominciare dalla sorella perfettina, si sentono autorizzati ad affibbiarle l'etichetta della perdente per antonomasia.

"I ragazzi Burgess" di Elizabeth Strout

I ragazzi Burgess
di Elizabeth Strout
Fazi editore, 2013

pp. 447
€ 18.50 cartaceo



«Credo che scriverò la storia dei ragazzi Burgess».
«È una bella storia», approvò lei.
«La gente dirà che non è corretto scrivere di persone che conosco».
Quella sera mia madre era stanca. Sbadigliò. «Be’ in realtà non li conosci», mi rispose.
«Nessuno conosce mai veramente qualcuno».

Sull’incapacità di conoscere fino in fondo le persone con cui condividiamo pezzi di vita, perfino noi stessi a volte, la letteratura non ha mai smesso di interrogarsi; l’umana fragilità, i rapporti famigliari, le relazioni, sono topoi che non è difficile rintracciare in buona parte della narrativa moderna e contemporanea. Ma negli autori nordamericani sembra esserci un talento tutto particolare nel raccontare famiglie disfunzionali, rapporti in crisi, conflitti irrisolti; è l’incrinarsi del mito della famiglia borghese, è il racconto delle frustrazioni quotidiane, della città alienante o della provincia bigotta e crudele.
Elizabeth Strout, che già aveva stregato pubblico e critica con il romanzo-racconto Olive Kitteridge, si è imposta sulla scena letteraria internazionale proprio per la straordinaria capacità di raccontare la fragilità umana, la complessità di sentimenti e legami famigliari; a fare da sfondo la provincia americana, le piccole comunità, spesso contrapposte alla metropoli newyorkese. Il Maine, luogo d’origine dell’autrice, reale ed immaginato è ispirazione e sfondo dei suoi romanzi, dai racconti di Olive fino all’ultimo lavoro, I ragazzi Burgess. A cinque anni dall’assegnazione del premio Pulitzer, ad oggi ancora tra i più prestigiosi premi giornalistici e letterari di richiamo internazionale, Strout è un’autrice molto apprezzata dal pubblico e celebrata dalla critica e con quest’ultimo romanzo - in Italia edito sempre da Fazi editore lo scorso anno- ha saputo dare ulteriore prova del proprio innegabile talento narrativo.

"A sud del confine, a ovest del sole" di Murakami Haruki



A sud del confine, a ovest del sole
di Murakami Haruki
Einaudi, 2013

pp. 204
€ 20 cartaceo - € 9,99 ebook



A dodici anni Hajime viene preso per mano da Shimamoto e percepisce già che “in quelle cinque dita e in quel palmo era racchiuso, come in una minuscola vetrinetta, tutto quello che c’era da sapere sulla vita”.
Parte da qui la sua educazione sentimentale.
Le strade di Hajime e Shimamoto si dividono presto ma dopo anni la donna, silenziosamente, riapparirà stravolgendo la vita e gli equilibri dell’uomo, generando nel romanzo una potentissima tensione emotiva che cattura il lettore e lo coinvolge andando a toccare corde nascoste del suo animo.

È sempre complesso ricostruire e rendere il senso delle trame dei romanzi di Murakami; il concetto rimane valido anche per un romanzo come A sud del confine a ovest del sole che non fa parte del cosiddetto filone del “realismo magico”. Qui le vicende si susseguono in maniera lineare ma è necessario che sia il lettore a percorrerle per rendersi conto con quanta profondità e naturalezza Murakami riesca a rivelare e narrare la vita di un uomo qualunque, e con quanta bellezza riesca a legare la superficie degli eventi che si susseguono con gli intricati meccanismi della mente e dei sentimenti.

#LibrinTrincea - Caporetto nella letteratura di guerra

Per arricchire la nostra rubrica #LibrinTrincea dedicata alla Prima Guerra Mondiale in occasione del Cenetenario, abbiamo scelto alcuni momenti significativi tratti dalla raccolta di Mario Isnenghi I vinti di Caporetto nella letteratura di guerra che riprende pagine di diari e racconti di protagonisti della Grande Guerra, destinati già e affermatisi poi come alcuni dei più grandi intellettuali italiani del Novecento.

Questa raccolta si divederà in tre parti; nella prima citiamo il Diario di un imboscato di Attilio Frescura (Vicenza 1919), Dalla Bainsizza al Piave all’indomani di Caporetto. Appunti di un ufficiale della Seconda Armata di Valentino Coda (Milano, Sonzogno,1919), il Diario di un fante di Luigi Gasparotto (Milano, Treves, 1919) e Introduzione alla vita mediocre di Arturo Stanghellini ripreso in Tre romanzi della Grande Guerra pubblicato da Longanesi nel 1966.

NdA: le pagine di riferimento sono quelle del volume di Mario Isnenghi I vinti di Caporetto nella letteratura di guerra (Venezia, Marsilio, 1967)


#CriticaNera. Non solo Maigret: "L'uomo che guardava passare i treni" di George Simenon

L'uomo che guardava passare i treni
George Simenon
Milano, Adelphi



George Simenon (1903-1989) è forse uno dei più prolifici scrittori che siano mai vissuti. Il suo celebre commissario Maigret, protagonista di ben settantacinque romanzi, rappresenta la punta di diamante di una produzione letteraria che alla quantità ha saputo affiancare la qualità. Simenon è un'eccezione: ha conosciuto il successo, ha sempre venduto, è commerciale, ma è un maestro, se non il maestro, del poliziesco nel XX secolo. A confermarlo le innumerevoli citazioni che gli scrittori che vennero dopo di lui gli dedicarono, da Vázquez Montalbán a Leonardo Sciascia, da Jean-Claude Izzo a Camilleri, fino a Petros Márkaris: il personaggio da lui creato, Kostas Charitos, è stato anche definito “il fratello greco di Maigret”.

Rete padrona: tutto quello che sapevamo già sulla rivoluzione digitale

Rete padrona. Amazon, Apple, Google & Co. Il volto oscuro della rivoluzione digitale
di Federico Rampini
Feltrinelli, 2014

pp. 288
€ 18,00



L'autore lo presenta come un viaggio. Un viaggio attraverso il tempo, per analizzare le rivoluzioni digitali che negli ultimi vent'anni hanno mutato tanto profondamente il mondo in cui viviamo, il nostro rapporto con la comunicazione, l'informazione, la conoscenza, la socialità, le persone. Attraverso lo spazio, dalla California della Silicon Valley ai regimi autoritari di Cina e Russia, per mostrare le vie spesso tortuose percorse da tecnologie che, concepite per aiutare l'uomo, finiscono per trasformarsi in strumenti di oppressione e squilibrio sociale. E attraverso le esperienze individuali degli uomini che queste tecnologie ci hanno donato: Bill Gates, Mark Zuckerberg, Steve Jobs. Rete padrona è il tentativo di Federico Rampini di sviscerare il gap che riconosciamo oggi tra l'esultante fase pionieristica di vent'anni fa, quando si vedeva nella Rete lo strumento definitivo di liberazione dell'uomo attraverso la conoscenza, ai più discutibili esiti moderni della rivoluzione digitale: i nuovi Padroni dell'Universo divenuti controllori onnipresenti della nostra privacy, elusori fiscali, generatori di sperequazione economica e disagi sociali. Un viaggio che Rampini considera "indispensabile per cogliere la vera natura del capitalismo contemporaneo", e che ha il difficile compito di districarsi tra i due opposti estremi dell'ottimismo tecnocratico e della disintegrazione apocalittica:
Non sono un luddista contrario per principio al progresso tecnologico: se lo fossi, non avrei subìto l'attrazione irresistibile verso la modernità che mi spinse a emigrare in California. Volevo andare a vedere da vicino il laboratorio del futuro. Quella che state per leggere non è una lamentazione a senso unico sui danni di Internet e dei gadget digitali, anche se di alcune derive patologiche bisogna essere consapevoli: il progresso è tale se ne restiamo noi i padroni.

Un "pontos" antico che unisce rive e uomini

Mare di zucchero
di Mario Desiati
Mondadori, 2014





pp. 187


La delicatezza di Mario Desiati questa volta non sta dentro la sua Puglia arcana. O meglio, non solo. Comincio a seguire con grande attenzione questo scrittore che mi ha perfino accompagnato alla scoperta di un retaggio potente come quello della dea madre che si aggira per i torrenti asciutti della valle d’Itria e del mondo sommerso ma vivo dei muretti a secco che tracciano perimetri di storia nelle campagne sconfitte del meridione.

Srebrenica I giorni della vergogna di Luca Leone: memorie del passato presente

Srebrenica I giorni della vergogna
di Luca Leone
Infinito Edizioni, maggio 2014

pp 175




Provate a dire alle donne, alle madri, alle sorelle e alle figlie di Srebrenica che la guerra è finita, che i colpevoli sono stati assicurati alla giustizia, che il dolore provato e subito dovrà essere, d’ora in avanti, coniugato al passato. Provate a dire ai ragazzi e ai giovani uomini che nell’afoso luglio del 1995 erano poco più che bambini che gli assassini dei loro genitori, dei loro fratelli e dei loro amici hanno subito regolare processo e d’ora in poi pagheranno per i crimini commessi. Andate a dire agli essere umani che erano a Srebenica dal 1993 al 1995, “il più grande lager del mondo”, che i giorni della vergogna sono terminati per sempre: nessuno di loro vi crederà, vi diranno che le ferite non sono state curate, che i colpevoli non sono stati trovati (volutamente non sono stati trovati) e che il dolore, almeno a Srebenica, la città d’argento, non è mai finito.

#ScrittorinAscolto - incontro con Wilbur Smith

GMGhioni e Wilbur Smith per l'incontro con i blogger
16 novembre 2014
h. 12.00, Hotel Principe di Savoia (Milano)

Nella suite del bellissimo Principe di Savoia ci aspetta il re dell'avventura, Wilbur Smith, per pochi giorni in Italia in occasione dell'uscita del suo nuovo Il dio del deserto (Longanesi). Ci riceve con un gran sorriso, una stretta di mano cordiale e tanta voglia di raccontarsi, prima dell'incontro pomeridiano con i lettori al Castello Sforzesco. 
L'occasione è doppiamente ghiotta: da un lato, noi blogger abbiamo un'ora per chiedere a uno degli scrittori più amati in Italia tutto ciò che vogliamo; dall'altro, reincontriamo con Wilbur anche uno dei suoi protagonisti preferiti, Taita, al centro del ciclo sull'Egitto (chi, ad esempio, non ha mai letto Il settimo papiro o Il dio del fiume?). Il personaggio, come ci dice subito Wilbur, «in realtà non se n'è mai andato. È rimasto lì finché ho ripreso a contattarlo». D'altra parte, che Taita avesse un ruolo preminente per l'autore, era già chiaro: è l'unico personaggio a parlare in prima persona, e probabilmente continuerà a farlo: «ci aspettano altre storie con Taita», confessa Wilbur Smith con un sorriso. 

Che si tratti di un'anticipazione di un lavoro in corso o di un semplice progetto, non lo sappiamo, ma di certo l'Egitto è di nuovo al centro degli interessi di Wilbur Smith: in parte perché lì sono radicate le sue origini (lo scrittore è nato nell'ex-Rhodesia settentrionale, attuale Zambia); in parte per interesse storico, dal momento che lì tutto ha avuto origine, dalla matematica, alla scienza; dalla medicina alla scrittura con i geroglifici.

Applausi a scena vuota: l'ultimo struggente romanzo di David Grossman

Foto di Debora Lambruschini

Applausi a scena vuota
di David Grossman
Mondadori, 2014

pp. 176
€ 18,50 cartaceo

Voglio che tu venga a vedermi. Che mi guardi bene. E poi mi dica. Dirti cosa? […] Quella cosa, aveva detto Dova’le sottovoce, che una persona trasmette senza rendersene conto, che è forse l’unica al mondo a possedere. Una proiezione della personalità, avevo pensato, una luce interiore. O un buio interiore. Il segreto, il fremito dell’unicità. Tutto ciò che descrive un essere umano al di là delle parole.


Una telefonata inattesa, un amico d’infanzia di cui nel vortice della vita ci si era dimenticati e una stravagante richiesta: l’invito ad assistere ad una serata di cabaret di cui l’amico è protagonista per cercare di cogliere la sensazione che trasmette nel pubblico, ciò che le persone percepiscono di lui, lì, sulla scena. Una richiesta tanto inconsueta quanto irresistibile, a cui dopo l’iniziale esitazione Avishai Lazar, giudice in pensione, decide di acconsentire. È così che, più di quarant’anni dopo il loro primo incontro, Lazar e il comico Dova’le si ritrovano in un modesto cabaret di Netanya, piccola cittadina a Nord di Tel Aviv, l’uno sul palco in uno spettacolo non convenzionale e l’altro mischiato tra il pubblico, venuto a giudicare come presto scoprirà l’intera vita del vecchio amico e soprattutto sé stesso.

È con un romanzo originale, intenso e scorrevole, che David Grossman è da pochi giorni tornato in libreria regalando ai suoi lettori una storia che si presta a numerosi livelli di interpretazione. Incontrare l’autore è stato il mezzo ideale per scoprire chiavi di lettura di una storia che dietro l’apparente semplicità rivela invece interessanti spunti di riflessione in cui Grossman dimostra ancora una volta la straordinaria capacità di elaborare tematiche ricorrenti della tradizione letteraria contemporanea in modo sempre nuovo, sorprendente, costruendo quindi un romanzo che all’immediatezza linguistica coniuga sapientemente la capacità di spingere il lettore di fronte ad interrogativi sempre attuali.
Partiamo dalle scelte formali: Grossman costruisce un romanzo a due voci, quelle di Dova’le e di Lazar, che si alternano ognuna inequivocabilmente distinguibile ed unica nella ricostruzione frammentaria delle proprie esistenze, che per un breve momento tanti anni prima si erano intrecciate in una stravagante, improbabile amicizia per poi perdersi lungo il corso della vita adulta e ritrovarsi ora in quel piccolo cabaret: «Mi hai cancellato, aveva detto lui, sbigottito.» quando la voce di Dova’le inizialmente non sembra resuscitare il ricordo dell’amico d’infanzia. È Lazar in realtà l’io narrante della storia, ma il lungo frammentato monologo di Dova’le accompagna il racconto del giudice e di fronte al lettore si dispiega non solo la tragica vicenda di Dova’le tra passato e presente, ma anche pezzi di vita di Lazar dagli anni in cui ha conosciuto il vecchio amico ad oggi, giudice in pensione da pochi anni rimasto vedovo.

#BCM14: incontro con Sophie Kinsella

Si chiama Madeleine Wickham ma è meglio nota con lo pseudonimo di Sophie Kinsella ed è la più famosa scrittrice di letteratura glamour e commedie romantiche. 
21 libri per un totale di 36 milioni di copie in tutto il mondo e una serie, I love shopping, dedicata alle buffe vicende di Becky Bloomwood, la più nota shophaolic della letteratura.
Sophie Kinsella ci saluta con un gran sorriso nella sala dell'Hotel Manin di Milano e sembra davvero contenta di essere lì, con noi, a raccontarsi. Il pubblico milanese l'ha già accolta con affetto la sera prima, al Castello Sforzesco, nella cornice di un incontro di Bookcity Milano dedicato proprio al fascino della letteratura glam. Ironia, humor e talento narrativo fanno di Sophie Kinsella l'idolo di milioni di lettrici di ogni lingua e cultura, che si riconoscono in Becky, in quelle attitudini tutte femminili e nelle ossessioni che almeno una volta nella vita ogni donna ha vissuto sulla propria pelle.

Passione senza redenzione: "L'amore contro" di Mauro Covacich


L'amore contro
di Mauro Covacich
Einaudi, 2009

pp. 249
€ 11,50



Quella di Covacich è una scrittura decisamente poco convenzionale: piena di artifici e piccole strategie retoriche, rimane ancorata a un realismo che si trasforma facilmente in iperrealismo, costringendo il lettore a seguire un discorso che dice il vero più vero del vero, ma che lo sfida costantemente all'incredulità. Lontano dalle elaborate costruzioni dei Wu Ming, ma anche dal sensazionalismo di autori come Isabella Santacroce e Massimiliano Parente, Covacich rappresenta quanto di più vicino l'Italia possegga ad autori come Don DeLillo e Chuck Palahniuk, soprattutto per la sua capacità di far esplodere su carta la drammatica assurdità dell'ordinario. Ma cosa è l'amore contro? E contro cosa?

Scrittori in ascolto - Incontro con David Grossman

Foto di Debora Lambruschini
Milano, 13 novembre 2014
h. 11.00 

Dialogare con un autore nell’ambito di un incontro riservato ad una manciata di blogger, avere la possibilità di seguire le sue riflessioni su letteratura, processo creativo, arte, è sempre emozione e privilegio. Quando poi l’autore è uno scrittore ed intellettuale del calibro di David Grossman, voce pacata e mente brillante, l’esperienza è senza dubbio speciale e il breve spazio che la casa editrice Mondadori ha riservato a quattro blogger invitate a Milano ieri mattina per incontrarlo privatamente prima delle presentazioni al pubblico nell’ambito di Bookcity, si carica forse inevitabilmente delle mille domande per cui il tempo non è stato sufficiente, ma soprattutto del piacere di un dialogo intelligente e partecipe che va ben oltre la presentazione dell’ultimo libro da pochi giorni pubblicato. 

Un incontro quasi a tu per tu quindi, al quale Critica Letteraria era presente insieme ad altre blogger e professioniste come Noemi Cuffia, Sul Romanzo e Finzioni, l’occasione si accennava per porre a Grossman domande sul suo ultimo romanzo, Applausi a scena vuota, ma anche per riflettere su letteratura e scrittura. E se Grossman è noto anche per l’impegno politico nei confronti della situazione israelo-palestinese, è stata consapevole la scelta di non puntare tutta l’attenzione dell’incontro sul discorso politico e soprattutto sulla tragedia personale che qualche anno fa ha colpito la famiglia dell’autore, con la morte del figlio Uri coinvolto nel conflitto.

CriticaLibera: un viaggio nell'editoria di collana insieme a Gian Carlo Ferretti

Storie di uomini e libri. L'editoria italiana attraverso le sue collane
di Gian Carlo Ferretti e Giulia Iannuzzi
Minimum Fax, 2014

pp. 298
€ 13,00


C'è una "identità editorial-letteraria che nasce dal rapporto tra un editore, il suo progetto, i suoi funzionari e consulenti, i suoi redattori." Questa identità si concretizza in una determinata politica d'autore, di collana, di prodotto. 
Siamo alla prima pagina della sua celebre Storia dell'editoria letteraria in Italia (Einaudi, 2004) e Gian Carlo Ferretti ha già introdotto il concetto che guida tutta la storia editoriale italiana dalla metà dell'Ottocento alla fine del Novecento. 
Queste prime pagine, lette e rilette negli anni, per me da sole racchiudono il senso compiuto della pratica e del mestiere editoriale come mirata definizione di una immagine coerente, costruzione personale di una storia fatta di scelte, di inclusioni ed esclusioni. 
Nella ricerca e messa a punto della propria identità editorial-letteraria gli editori hanno per decenni raccontato se stessi, il proprio modo di pensare i libri, di farli vivere e rivivere come unica certezza in un mondo che ha conosciuto vorticosi cambiamenti politici, ideologici, sociali. 
Grazie a Ferretti ho esplorato il carattere degli editori protagonisti, coloro che sono stati capaci di "imprimere una forte personalizzazione al proprio progetto e all'intero processo che va dalla scelta del testo alla veicolazione del prodotto", capendo fino in fondo le differenze tra il fiuto di Angelo Rizzoli e l'innata imprenditorialità di Arnoldo Mondadori, il gusto per l'avanscoperta di Giulio Einaudi e la sensibilità artistica di Valentino Bompiani.
Grazie a Ferretti ho imparato a considerare le collane del Novecento come dichiarazioni di poetica, d'intenti, di politica, a scorgervi tutta quella spinta progettuale di cui oggi si sente tanto la mancanza. 
Per tutte queste ragioni non potevo assolutamente mancare l'appuntamento con Storie di uomini e libri, un volume che Gian Carlo Ferretti ha scritto insieme alla studiosa Giulia Iannuzzi e che Minimum Fax ha pubblicato lo scorso maggio. 
Una storia dell'editoria italiana attraverso le sue collane più celebri che raccontano pezzi di storia del nostro Paese, battaglie culturali e non solo. 

Oltre il fiume: il reportage su Gee's Bend di J. R Moehringer




Oltre il fiume
di J. R. Moehringer
Piemme Voci

traduzione di Giovanni Zucca


pp. 93
€ 10.00



L’Alabama è un fiume «che ha il colore della Coca-Cola». Il suo percorso, tutto fatto di svolte, si addentra in un territorio umido e paludoso, quello del profondo Sud degli Stati Uniti.
Da un lato scorre lungo la cittadina rurale di Camden, dall’altro, ha modellato una penisola a forma di U, ultimo recesso di un luogo inospitale, non solo per il suo clima e gli alligatori che infestano le acque fangose.
I tempi della schiavitù sono finiti anche se Gee’s Bend è rimasta la stessa. Dopo la Guerra Civile il Sud era ancora disseminato di comunità mandate avanti da ex schiavi. La differenza è a che Gee’s Bend, vecchia piantagione di cotone dell’Alabama, i suoi discendenti hanno deciso di restare fino a oggi.
Nel 1999 qui è arrivato J. R. Moehringer allora inviato per il Los Angeles Times che con questa inchiesta vinse il Premio Pulitzer.

"L'adorazione del piede" di Berarda Del Vecchio


L'adorazione del piede
di Berarda Del Vecchio 
Castelvecchi Editore, 2006
pp. 220, € 18,00



Come addentrarsi in quelle zone a metà tra il tabù e il “meglio evitare”, lungo le strade che molti frequentano senza farsi vedere e giurano di non conoscere? Berarda Del Vecchio decide di farlo con una giocosità che non cede alla banalità e che, anzi, convive con un rigore spesso degno di un vero e proprio saggio scientifico.

L'adorazione del piede ha dalla sua la forza dell'originalità. Non che nessuno abbia mai scritto sulla rilevanza che i piedi hanno avuto e hanno a livello erotico, storico e sociale, tutt'altro, ma l'autrice miscela in maniera accattivante un registro colloquiale e scanzonato con numerosi riferimenti 'alti', ottenendo un testo godibilissimo che si lascia leggere letteralmente d'un fiato.
Se è problematico e al limite dell'impossibile comprendere appieno l'origine dell'attrazione esercitata dai morbidi scrigni di sublime erotismo che sono le estremità inferiori delle donne (e del resto, sapreste spiegare perché considerate irresistibile il seno florido o un paio di cosce toniche?), è invece possibile – ancorché né semplice né immediato – ricercare in diversi ambiti i segni, o forse qui è meglio dire le orme, della loro importanza. Questo è ciò che, in parte, si prefigge di fare il libro, articolato in sette capitoli e corredato da molteplici foto e illustrazioni, due appendici (di cui una, assai sfiziosa, che raccoglie proverbi e modi di dire a tema) e una ricca bibliografia finale.

#LibrinTrincea - 11 novembre 1918. Un estratto da L'uomo è buono di Leonhard Frank

L'uomo è buono
di Leonhard Frank
Del Vecchio Editore, 2014
traduzione e a cura di Paola del Zoppo

pp. 336
15 €

Fatti e riflessioni sulla Prima Guerra  Mondiale hanno interessato tanti contributi di questo 2014 che celebra il centesimo anniversario dal suo inizio. E a lungo si è parlato dell’impegno di intellettuali che hanno descritto tutta la portata di un evento che ha scosso l’umanità.
Tra questi c’è anche Leonhard Frank (1882-1961), autore amatissimo nel primo Novecento, e di cui la casa editrice Del Vecchio ha pubblicato L’uomo è buono a cura di Paola Del Zoppo, che è anche la curatrice.
Si tratta di una raccolta di novelle uscita nel 1917 a cui si aggiunge un altro testo dello stesso genere, L'origine del male, del 1915.
Di umili origini, Frank studia per diventare artigiano iscrivendosi, successivamente, all’Accademia delle Belle Arti di Monaco. Nonostante la carriera presto interrotta si avvicina all’ambiente delle avanguardie che in Germania vede  nell’Espressionismo la manifestazione del dissenso verso una società in cambiamento.

"I labirinti del male" di Luciano Garofano e Rossella Diaz

I labirinti del male - femminicidio, stalking e violenza sulle donne: che cosa sono, come difendersi
di Luciano Garofano e Rossella Diaz
Infinito edizioni, 2014

pp. 176
€ 14


La società occidentale del nostro tempo è connotata da un inquietante crescendo di violenza, che si declina attraverso una gamma oltremodo composita di sfumature dove subdolo e palese s'intrecciano e a tratti si confondono, finendo spesso per accecare le coscienze già indebolite da una carenza di valori solidi e coerenti che esortino a chiamarsi fuori dallo svilimento della vita (non solo umana) in nome di una presunta sopravvivenza di stampo esclusivamente materialistico, dove tutto è concesso senza un rigurgito etico di qualsivoglia natura.
L'asservimento della coscienza umana ai labirinti del male ha innescato un meccanismo perverso, complice forse anche la manipolazione occulta (o storpiatura che dir si voglia, ma questa è solo una considerazione a margine di chi scrive, che esula dai contenuti del libro) di alcune teorie religioso-spirituali della tradizione orientale, così come della tradizione giudaico-cristiana, che esortano a non giudicare. Tale meccanismo ha progressivamente scardinato la capacità di discernere fra l'esercizio del senso critico e l'assenza di giudizio. Una coscienza debole (o indebolita) e confusa privilegerà necessariamente il sentiero più comodo che, nella fattispecie, si delinea in un'assenza di giudizio figlia dell'ignavia, dell'indifferenza e soprattutto di una presunta tolleranza e apertura mentale verso ciò che asseconda le istanze più sordide, viziose e basse delle proprie pulsioni egoiche. Poiché si tratta di uno schema comportamentale spesso attuato in modo inconsapevole, è molto difficile arginarlo e limitarne le conseguenze drammatiche, di cui siamo inermi spettatori nei numerosi comparti del vissuto umano.

Longbourn house: la vita ai piani bassi di casa Bennet

Longbourn House
di Jo Baker
Einaudi, 2014

pp. 386
€ 18




È necessario fare uno sforzo, uno sforzo considerevole, per leggere questo romanzo nella sua unicità e indipendenza rispetto a quella che probabilmente è l’opera più celebre di miss Jane Austen, Orgoglio e Pregiudizio; uno sforzo che forse in fondo non vale nemmeno del tutto la pena compiere, ma che, se si vuole giudicare il romanzo della Baker al di là di possibili parallelismi con la celeberrima storia austeniana, diviene necessario seppure piuttosto arduo. Longbourn house deve infatti moltissimo al sopracitato romanzo della Austen, al punto da essere presentato come una sorta di rilettura del mondo evocato dall’autrice inglese in cui la Baker erge a protagonisti della storia quei fantasmi che in Orgoglio e Pregiudizio si muovono sullo sfondo: la servitù di casa Bennet, un microcosmo pulsante di vita e sentimenti, in attività perenne, persone e storie le cui vite sfiorano quelle della famiglia ai piani alti che sono chiamati a servire e delle cui vicende sono inevitabilmente spettatori più o meno partecipi. Il legame con l’opera austeniana è senza dubbio fortissimo, fatto di costanti richiami alla ben nota trama e nuovi dettagli immaginati dalla Baker, mentre le vicende della famiglia Bennet si intrecciano alle vite della servitù e danno al lettore la possibilità di avvicinarsi alla storia conosciuta da molteplici angolazioni e punti di vista. E innegabile è anche una parziale similarità alla celebre serie televisiva Downton Abbey, ispirata al romanzo Ai piani bassi di Margaret Powell, per la scelta di dare spazio alla rappresentazione della servitù, alle vicende umane e al contesto storico dell’epoca entro cui si muovono i capi opposti della gerarchia sociale. Ma come Longbourn house non è la riscrittura di Orgoglio e Pregiudizio dal punto di vista della servitù, allo stesso modo non è nemmeno una sorta di Downton Abbey ambientato un secolo prima: è una storia pulsante di vita e sentimenti, che merita di essere letta nella sua originalità, cercando il più possibile di non forzare il legame con l’opera della Austen – anche perché ci si avventurerebbe in territorio pericoloso e le debolezze del romanzo della Baker risulterebbero davvero difficili da ignorare di fronte al capolavoro austeniano- ma provando a godere appieno di un romanzo che non nega il proprio debito verso la storia cui è inequivocabilmente legata e che possiede voce e trama assolutamente autonome.

Speciale Hofmannsthal - I Greci, l'antichità e il mito


I Greci, l'antichità e il mito
L'assimilazione del mondo classico da parte di Hofmannsthal iniziò già da bambino, come parte di quella accurata e finissima educazione che volle per lui suo padre, poi approfondita al Gymnasium, con lo studio a tratti anche pedante di opere ed autori, da cui ricavò una notevole dimestichezza con i classici e con le loro lingue. Dimestichezza tale – come suggeriscono le testimonianze dell'epoca – da spingerlo a far ricorso ad immagini tratte dall'antichità per spiegare eventi, situazioni, personaggi e procedimenti logici nella conversazione quotidiana come nella scrittura: una sorta di linguaggio primordiale, che il giovane Hofmannsthal ergeva più o meno consciamente a metro costante di paragone con la sua attualità, quasi come fosse una Ursprache pressoché dimenticata, ma le cui regole grammaticali condizionavano ancora la sintassi del comportamento umano. Il legame che così si viene a formare con la tradizione classica è – come evidenzia Hermann Broch1 – un vincolo di sangue con gli antichi, un senso di appartenenza tale da assumere caratteri fisici2. L'antichità per eccellenza è quella greca naturalmente, a cui Hofmannsthal si rivolge non solo per soddisfare le sue esigenze letterarie ma anche per ritrovare le radici dell'identità culturale occidentale e donarle coesione:
“Il mito tragico originario: il mondo frammentato in individui anela all'unità, Dioniso Zagreo vuole rinascere”3.

Scrittori in Ascolto - con Andrea Molesini

Gianfranca Lavezzi (a sinistra) introduce l'incontro con Andrea Molesini, presentato da Gloria Ghioni


Il 29 ottobre, per festeggiare la giornata per la promozione della letteratura italiana indetta dall'ADI, il collegio Santa Caterina di Pavia, da sempre molto sensibile alle iniziative per la lettura e la cultura, ha ospitato Andrea Molesini, scrittore pluripremiato sia per i suoi titoli per adulti (Non tutti i bastardi sono di Vienna ha vinto il Campiello e il Comisso, tra gli altri), sia per i titoli di romanzi per bambini (Premio Andersen alla carriera), per le traduzioni e per la saggistica. 

L'occasione, poi, era particolarmente ghiotta, visto  che ho avuto l'onore e il piacere di parlare con Molesini di Presagio (qui trovi la recensione). Il primo quesito, imprescindibile per la discussione, è stato se definirlo un romanzo breve o un racconto lungo. Al di là dell'etichetta, Molesini commenta che il racconto lungo «ha un bersaglio, e tutto - anche le più piccole metafore - deve puntare al bersaglio, appunto». Che niente fosse casuale, era già chiaro dall'attenzione paratestuale e strutturale dell'opera: si tratta di un "romanzo-teatro", per citare la bella definizione data da Paccagnini in una delle prime recensioni su Presagio. Infatti, dopo la premessa drammatica con l'epigrafe di Rilke, che rimanda all'agguato della vecchiaia, abbiamo un prologo, tre atti (in tre lingue diverse, a conferma del cosmopolitismo alla base dell'opera), e un epilogo.

Il principio, il mezzo, la fine: «L'amore che ti meriti» di Daria Bignardi


L’amore che ti meriti
di Daria Bignardi
Mondadori, 2014

pp. 252
cartaceo € 18





In principio c’è una famiglia.
Alla fine c’è una famiglia.
In mezzo c’è una famiglia. E c’è Ferrara. E ci sono rivelazioni.

Il romanzo di Daria Bignardi, L’amore che ti meriti, in fondo è questo: è il passato, il presente e il futuro di una famiglia.
Tre tempi che si creano attraverso un solo luogo: Ferrara, città eletta a gestire la confluenza di quello che fu, di quello che è e di quello che sarà. Una città che deve gestire il cambiamento, che deve conservare la Storia e le storie, che deve splendere di una bellezza antica capace di incantare. L’autrice restituisce lo splendore di una Ferrara che fu e che ha ancora tanto da dire, da svelare e da nascondere.

Identità ebraica o identità di tutti?

Gli ebrei e le parole
(Jews and words)
di Amos Oz e Fania Oz-Salzberger

Feltrinelli, 2013 (2012)
pp. 229


Non vorrei trascurare un fatto essenziale per cui lo cito subito. Ed è il sottotitolo: “Alle radici dell’identità ebraica”. Così possiamo cogliere che ci troviamo di fronte a un libro importante per gli autori: Amos Oz e Fania Oz-Salzberger. Lui, 75 anni, è uno dei romanzieri più noti e prolifici di Israele. Lei è sua figlia, di anni ne ha 54 e insegna storia all’università di Haifa. La forza di questi due sta nell’adottare un approccio fortemente laico. È chiaro che un testo sulla identità ebraica può partire da molteplici punti di vista e arrivare ad altrettante conclusioni ma se a redigerlo sono esponenti religiosi dell’ortodossia, rabbini o sionisti avremo un’opera a uso e consumo degli ebrei. O degli israeliani. O magari dei coloni.

La famiglia Oz, invece, fonda l’identità ebraica non tanto sulla Bibbia o sulla terra promessa, né tanto meno sul sangue, ma sulla parola: «perché l’eredità, da padri e madri a figli e figlie, viene trasmessa attraverso la narrazione e non tramite i geni». Siamo tutti un’invenzione letteraria. Indistintamente. Per cui questo libro non è solo per gli ebrei «ma per coloro che amano leggere».

Luigi Fontanella, Bertgang


Bertgang Fantasia onirica
di Luigi Fontanella
Bergamo,  Moretti & Vitali, 2012



Ispirato dal racconto breve di Wilhelm Jensen, Gradiva, Luigi Fontanella trasforma la storia onirica che sta alla base della narrazione, in un delicato e appassionato poema in versi che vuol essere sostanzialmente una dedica alla sublimità della bellezza femminile, all’icona onirica per eccellenza che alternativamente compare e scompare dai reali luoghi di pompeiana memoria. Ed è proprio all’interno di una successione di elementi contrapposti, (« il sogno e la realtà», «l’agilità del passo femminile e leggero …» colto sull’ «ultima pietra immobile») e complementari (nel connubio di «spirito e vita», di «luce dorata nella giornata di rovente sole», in un gioco di luci e trapassi continuo) che si staglia l’immagine di questa straordinaria donna, Gradiva, sfuggente, ma fisicamente presente nella mente di chi la osserva ed elegge a protagonista del proprio Io reale.

In questo quadro scenografico di avvicendamenti, Zoe-Gradiva ricompare «sulla via di Mercurio», sugli stessi ciotoli di pietra dura che ora accolgono, in un luogo geografico che non appartiene alla poetica montaliana ma che ne rinvia agli oggetti desueti in essa situati, una lucertola avvolta anch’essa da «riflessi d’oro e malachite»; allo stesso modo la donna, attraente, emblematica, misteriosa e magra, è una figura allegorica che si presenta avvolta da immagini simbolicamente esemplari:     

#LibrinTrincea - A raccontare la Grande Guerra, la Villa Spada di Molesini

Non tutti i bastardi sono di Vienna
di Andrea Molesini
Sellerio, 2010

pp. 366
€ 14.00

Tutto dentro di me, ogni tendine, ogni cellula, diceva che quegli uomini leggendari erano i nemici e che io dovevo odiarli. Ma, nella tensione di quei momenti, la forza della loro immagine mitica impose una tregua e, nel buio, mi abbandonai a un sentimento di ammirazione. (p. 95)

Si apre nel 1917 il romanzo corale meritatamente pluripremiato di Andrea Molesini. Lo scrittore, già noto per le tante storie per ragazzi e per la carriera accademica come professore di Letterature Comparate, nonché saggista e traduttore, ha scelto la conclusione della Grande Guerra a Villa Spada, a pochi chilometri dal Piave, come ambientazione: luogo e tempo che sono sfondo, motore narrativo e quasi personaggi del suo Non tutti i bastardi sono di Vienna. 

#LibrinTrincea Mario Isnenghi - La tragedia necessaria. Da Caporetto all'Otto Settembre

  Mario Isnenghi
La tragedia necessaria. Da Caporetto all'Otto settembre
Il mulino, 1999

152 pp.


Due eventi, due date, due guerre. Tragedie necessarie che l’Italia avrebbe preferito tranquillamente evitare, quando invece la minoranza interventista ma decisa sostenne la partecipazione alla Prima Guerra Mondiale, e i più o meno fascisti alla seconda.

Eventi. Caporetto – la “disfatta” per antonomasia – e l’Otto settembre – l’Armistizio – così lontani nel tempo ma vicini nel parlare delle difficoltà di una nazione nel ritrovare sé stessa e riconoscersi: l’Italia sconfitta e la ritirata dal fronte della battaglia di Caporetto del 24 ottobre 1917 (e seguenti) e l’Italia sconfitta e in liberazione dell’Armistizio dell’Otto Settembre 1943.

Guerre. Le incongruenze degli interventisti così diversi fra loro, uniti dal generale Cadorna, che rappresenta la volontà di guerra dell’Italia e le divergenze tra i vari resistenti d’Italia, oltre che i fascisti e poi i repubblichini, ritrovatisi dopo la guerra a fare i conti per lungo tempo tra scontri e processi.

SPECIALE Hofmannsthal - La strada al Sociale




Hugo von Hofmannsthal
Formazione, prime opere ed “Ein Brief”


La vita di Hugo von Hofmannsthal (1874 – 1929) è stata spesso felicemente paragonata a quella di Mozart1: entrambi educati accuratamente da un padre sollecito, entrambi bambini prodigio prima, affermati artisti poi. La differenza essenziale risiede però nell'ambito in cui si dispiegarono i loro talenti: il secondo era figlio d'arte e come tale fu educato ad un mestiere, ad un lavoro prettamente artigianale qual era quello del musicista, mentre al primo fu impartita in sostanza un'istruzione che giustificasse e sancisse la piena adesione della famiglia von Hofmannsthal alla classe nobiliare ed alto-borghese di Vienna, segnando il culmine di un processo di assimilazione iniziato con l'immigrazione del bisnonno Isaak Hofmann, commerciante di seta ebreo proveniente da Praga, e la sua nomina ad Edler von Hofmannsthal da parte di Francesco I. L’educazione di Hofmannsthal fu, quindi, dal fine solo latamente pratico, ma profondamente culturale ed estetica. Egli studiò dapprima con i migliori insegnanti privati, per poi entrare a 10 anni nel Wiener Akademische Gymnasium
A casa figlio unico ed a scuola conscio della propria distanza e superiorità rispetto ai compagni, si isolò chiudendosi in quello che Broch descrive non troppo eccessivamente come una forma di narcisismo2. A quest'epoca risalgono il consolidamento delle conoscenze classiche, del latino e del greco, la frequentazione del Burgtheater, le prime poesie pubblicate sotto lo pseudonimo di Loris Melikow3. Nel 1890 conobbe Gustav Schwarzkopf, attore e scrittore che lo introdusse nel Café Griensteidl4, punto di ritrovo di Hermann Bahr, Arthur Schnitzler, Richard Beer-Hofmann, Felix Salten ed altri, definiti in seguito – insieme allo stesso Hofmannsthal – come il gruppo dello Jung-Wien, i rappresentanti delle moderne tendenze artistiche viennesi. Qui Hofmannsthal ebbe modo di conoscere e di confrontarsi con un ambiente di gran lunga più stimolante del Gymnasium, che gli aprì la strada ad importanti incontri (tra gli altri George, Ibsen, Rilke) e la cui frequentazione avrà influito non poco sulla scelta della libera professione d'autore, che intraprese una decina d'anni dopo, rinunciando alla carriera accademica ed alla libera docenza. 

#Criticalibera. 1914-2014: un secolo dopo le "Meditaciones del Quijote" di José Ortega y Gasset

Il 2014 è l'anno in cui giustamente si ricorda il centenario dell'inizio della Prima Guerra Mondiale (1914-1918). Si tratta dell'evento storico di cui la mia generazione è pronipote, perché a vivere e combattere quel conflitto, che segnò la fine di un'epoca e l'irruzione della modernità nella vita quotidiana di allora, furono i nostri bisnonni, nati tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento.

Ciononostante, vi è almeno un Paese in Europa che quest'anno non sarà impegnato nelle celebrazioni. O almeno non lo sarà direttamente. Si tratta della Spagna che in quell'occasione si dichiarò neutrale, per ragioni diverse da quelle che la portarono alla stessa scelta nel 1939 quando scoppiò la Seconda Guerra Mondiale. Se in questo caso vi erano ragioni logiche -il Paese usciva da tre anni di guerra civile che lo devastarono e che terminarono con una dittatura-, nel 1914 era più che altro una sostanziale estraneità alle questioni europee, complice la posizione periferica, a mantenere la Spagna fuori dalla contesa bellica. Inoltre, nel 1898 era calato il sipario sull'Impero coloniale con la sconfitta nei Caraibi contro la flotta degli Stati Uniti e la conseguente perdita di Cuba. Gli strascichi di quello che in Spagna fu un vero e proprio shock erano ancora ben tangibili alla metà degli anni '10 del XX secolo.