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"La misura della felicità" di Gabrielle Zevin

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La misura della felicità
di Gabrielle Zevin
Editrice Nord, 2014

pp. 320
€ 16,00 cartaceo





Ci sono libri che d’istinto ti conquistano dalla prima all’ultima pagina con egual trasporto, ti stregano con una prosa perfetta, una storia intrigante e personaggi che in qualche modo ti entrano dentro e che ti scrollerai di dosso con un po’ di difficoltà. Libri come questi se ne incontrano raramente, davvero troppo raramente per un lettore appassionato ed esigente che si innamora follemente e in modo totale; ma così travolgenti passioni non capitano spesso e «bisogna leggerne molti, bisogna crederci, bisogna accettare che ti deludano, perché qualcuno, di tanto in tanto, ti possa entusiasmare». Noi, lettori di professione, divoriamo libri su libri sempre con sguardo lucido e attento, leggiamo con la testa e il cuore, pronti a lasciarci travolgere dalla passione e allo stesso tempo critici intransigenti che scompongono l’opera pezzo dopo pezzo, alla ricerca di punti di forza e debolezze. 
Inquadriamo il testo nel panorama letterario del suo tempo, lo confrontiamo con altre opere dell’autore e di scrittori del periodo. Lo viviamo più volte, su livelli differenti di lettura e analisi, senza perdere il piacere primordiale che ci reca la lettura. Qualche volta veniamo conquistati e tessiamo lodi da adolescente innamorato, altre volte restiamo profondamente delusi, le aspettative non soddisfatte, ma consapevoli della responsabilità verso i lettori (di cui il numero non ha importanza: anche solo un lettore della nostra recensione merita l’onestà intellettuale che guida il lavoro di critico) che leggeranno le nostre righe. Come citato poco più sopra, nel marasma di libri che ci passano davanti capita – e mai così di frequente come vorremmo- che uno di questi ci entusiasmi. Ma, molto più spesso, un libro ci suscita sensazioni contrastanti, ci conquista per certi versi e profondamente, ma ci lascia perplessi per altri; difficile in questi casi dare netti giudizi, non possiamo fare altro che scoprire tutte le nostre carte, essere onesti su pregi e difetti che inevitabilmente compongono un’opera e lasciare al lettore il giudizio definitivo. La misura della felicità, appartiene a quest’ultimo caso. È un romanzo che si inserisce nel filone dei libri che parlano di libri, sottogenere interessante per tutti i bibliofili appassionati, autoreferenziale per certi versi ma senza dubbio interessante per i molteplici spunti tra le pagine; in questo caso la riflessione sui libri si giustifica anche nella scelta del protagonista, il libraio A.J. Fikry, proprietario di una piccola libreria ad Alice Island che dopo l’improvvisa morte della moglie si è ritrovato a gestire da solo. Entrato in una spirale depressiva autodistruttiva, incarna lo stereotipo dell’intellettuale di mezza età che la vita ha messo a dura prova, ne ha spento l’entusiasmo e le passioni, rivelando la sua anima più cinica, solitaria e a tratti rabbiosa, che si ripercuote su un’attività in decadenza e un’insofferenza sempre più acuta per il mondo che lo circonda. Misantropo e scontroso, del tutto indifferente alle leggi del mercato librario, ha ben chiaro tutto ciò che detesta:

Non mi piacciono il post modernismo, le ambientazioni post-apocalittiche, i narratori post-mortem e il realismo magico. Raramente mi colpiscono gli espedienti formali che vogliono sembrare intelligenti, tipo l’uso di molteplici caratteri tipografici, le immagini là dove non dovrebbero esserci … insomma, i trucchi di vario genere. Troppo ripugnante la finzione letteraria sull’Olocausto o su ogni altra grande tragedia mondiale. Solo non-fiction per piacere. Non mi piacciono i classici rivisitati in chiave “poliziesco letterario” o “fantasy letterario”: la letteratura dovrebbe essere letteratura, e il genere dovrebbe essere genere, e le ibridazioni raramente portano a qualcosa di soddisfacente. Non mi piacciono i libri per bambini, specialmente quelli con orfani, e preferisco non riempire i miei scaffali con romanzi per ragazzi. Non mi piace niente sopra le quattrocento pagine o sotto le centocinquanta. Mi urtano i romanzi scritti per conto delle star dei reality show, i libri illustrati di personaggi famosi, le biografie sportive, le edizioni la cui copertina è il manifesto del film, i gadget in genere e- immagino che non sia nemmeno il caso di dirlo- i vampiri.
Lettore esigente Fikry è altrettanto esigente come libraio. Da un personaggio di tale genere ci aspettiamo quindi riflessioni sulla letteratura moderna e contemporanea, sul mondo dell’editoria, sulle abitudini dei lettori, sul ruolo del libraio in questo nuovo sistema. E in questo senso non si resta delusi, il libraio protagonista del romanzo è un fiume in piena, la voce spesso dissacrante, che riempie gli scaffali solo con i libri che ama indifferente alla crisi del mercato e non ha paura di esprimere la propria opinione:
“Infinite Jest è un capolavoro” aveva detto Harvey. “Infinite Jest è una gara di resistenza. Se riesci ad arrivare alla fine, puoi dire soltanto che ti è piaciuto. Altrimenti devi ammettere di aver sprecato parecchie settimane della tua vita”, aveva ribattuto A. J.
Ma, come ci avvisa l’insegna all’entrata della libreria «Nessun uomo è un’isola. Ogni libro è un mondo» e la spirale autodistruttiva in cui la vita di A. J. sembra essere finita all’improvviso viene interrotta da qualcosa di tanto inaspettato quanto straordinario, che cambia ogni cosa per sempre. Quella piccola libreria di fronte alla quale fino a poco tempo prima tutti «trattenevano il fiato […] come se fosse un cimitero» lentamente ma irreversibilmente ritorna alla vita, apre le porte alla comunità e segna una nuova inaspettata fase nelle esistenze che vi orbitano intorno. Il libraio scontroso scopre riserve d’amore inattese, uomini timidi e soli trovano un luogo dove socializzare e acquistare coraggio, mentre le vite di altri di fronte a tanto rifiorire si confrontano più duramente con l’infelicità della propria esistenza. Solo una cosa è rimasta invariata: l’amore per i libri, la fiducia verso la parola scritta capace di salvare in tanti modi diversi. A. J. si reinventa padre e in quella bambina curiosa riversa tutto il suo amore per la lettura, per i buoni libri capaci di parlare al cuore di ognuno di noi, maestri a cui possiamo fare riferimento nei momenti di difficoltà; la libreria diventa casa, dove sdraiati ai piedi degli scaffali osservare la vita che passa di lì e misura della felicità di questa nuova famiglia:
Talvolta, dopo che i clienti e i commessi se ne sono andati, pensa che lei e suo padre siano le uniche persone al mondo. Nessun altro le sembra reale come lui. Gli altri sono scarpe per le diverse stagioni, niente di più. Suo padre, invece, tocca la carta da parati senza salire sulla sedia, usa il registratore di cassa mentre parla al telefono, solleva scatoloni di libri sopra la testa, usa parole incredibilmente lunghe. Sa tutto di tutto. Chi regge il confronto con A. J. Fikry?
La libreria è il cuore del romanzo, qui passano le vite di quella manciata di personaggi che popolano la storia, con le loro personali esistenze di miseria, sogni infranti e desiderio di riscatto. Tra queste mura A. J. impara ad essere padre, mette da parte egoismo e dolore e si apre ad una vita che dipende da lui. Scopriamo una storia che alterna interessanti spunti di riflessione a scelte narrative piuttosto convenzionali: il cinico vedovo tornato alla vita che scopre l’amore, gli ostacoli e una buona dose di drammi, amori non corrisposti, segreti dal passato, colpe e bugie. A tratti la storia non convince fino in fondo, non riesce a spiccare il volo nonostante le promettenti premesse, la psicologia dei personaggi poco approfondita e una storia che si dipana dopo tutto come ci si aspetta. I numerosi titoli citati e le acute osservazioni del protagonista sul panorama letterario contemporaneo sono la colonna portante del romanzo, ma il progetto di A. J. di mettere insieme una personale raccolta di titoli per la figlia Maya resta purtroppo una questione solo accennata; leggiamo con estremo piacere e divertimento le poche righe destinate alla figlia che introducono per mezzo delle parole del libraio i vari capitoli del romanzo ma si resta un po’ delusi di fronte all’incompiutezza del progetto, alle intenzioni vaghe. Di un libro che parla di libri inevitabilmente abbiamo aspettative altissime e il romanzo della Zevin in questo senso conquista e delude insieme; affascina l’ostinata sicurezza di un uomo deciso a non cedere alle pressioni del mondo, sicuro del potere della parola più letteraria e della capacità di strappare dalla solitudine per aprirsi al mondo, così come l’acuta intelligenza del protagonista che guarda gli altri con occhio da lettore. 
Solitudine, paternità, amore, destino, colpa, morte: sono i temi più presenti nel romanzo, che assumono di volta in volta nuovi significati e definiscono le vite dei personaggi che popolano la libreria Island Books. Alcuni di questi ci sono chiaramente comprensibili fin dalle prime righe, ne intuiamo segreti e destino, altri inaspettatamente riescono a sorprenderci: sono proprio questi ultimi a far nascere nel lettore i dubbi e le riflessioni forse più forti, perché in fondo è dal confronto con quella parte più oscura del cuore umano che a volte impariamo di più. In quello sfondo di personaggi secondari c’è la vita più vera e miserabile, fatta di solitudini e rancori, disperazione in cui il potere salvifico della letteratura sembra una flebile luce a cui aggrapparsi diventa impossibile. Ma questi restano sullo sfondo appunto, il messaggio di speranza che nonostante tutto emerge fortissimo dalle pagine è un inno alla vita, all’arte, al potere salvifico delle parole e dell’amore.
Non credo in Dio e non professo nessuna religione, ma, per me, questa libreria è la cosa più vicina a una chiesa che abbia mai conosciuto. È un luogo sacro. Di fronte a librerie come questa, mi sento di dire con fiducia che il settore librario funzionerà ancora per molto tempo.

Debora Lambruschini