RileggiamoConVoi e LibriSottoLOmbrellone - giugno 2014

Sestri Levante, 21 giugno 2014 (foto di Debora Labruschini)

Cari amici lettori,

come ogni anno, da giugno il #RileggiamoConVoi si trasforma in #LibriSottoLOmbrellone: la rubrica  estiva che a fine mese vi accompagnerà per scegliere qualche titolo inaspettato, che noi porteremmo volentieri al mare, in montagna o, semplicemente, in ferie a casa! 

Come sempre, non aspettatevi solo ultime uscite o bestseller: vi suggeriremo titoli più o meno nuovi, più o meno spensierati, più o meno impegnativi! 

Fateci sapere come è andata la lettura e buone vacanze! 
La Redazione

La dimensione dell'ancestralità


Il serpente di Dio
di Nicolai Lilin

Einaudi, 2014
pp. 343



Visto che siamo in Caucaso, in una terra impossibile da vivere secondo i canoni classici che noi occidentali traduciamo con civiltà, stato di diritto, tolleranza, mi viene in mente che più o meno all’altezza di questa fetta di mondo, indecisa tra Europa e Asia, si accavallarono molti miti, dal Vello d’oro a Giasone, dagli Argonauti al Tartaro. Quest’ultimo, nella tradizione letteraria greca, era il luogo sotterraneo dove Zeus relegò i Titani vinti. Da non confondere con l’Ade che era il regno dei morti destinato agli umani, il Tartaro era abitato da esseri mitici mostruosi. Qualcosa di questa mostruosità, risalente anche a prima del padre degli dei classici, risalente a Urano divoratore dei figli, deve essere emersa. Con pazienza ma tenacemente. È affiorata a condizionare il presente.
«Questo mondo non è reale. Anche se ti sembriamo vivi, in realtà siamo morti. Siamo ombre e il mondo delle ombre è fatto di buio. Nel mondo delle ombre non c’è posto per l’innocenza, non esiste chi ha ragione e chi ha torto. Esistono solo ombre informi che si muovono nel caos cercando invano di ritrovare una forma, di tornare uomini. Siamo morti, morti! Mi ci pulisco il culo con l’innocenza». 

Pillole d'Autore: paulo maiora canamus

Henri Matisse, La danza (1909)


La IV egloga. Paulo maiora canamus, solleviamo il tono del canto, dice Virgilio, non più capellae ma myracae, non più molli viburni ma arbusti e selve (forse), qualora fossero degne di un console.

Perché myracae, che sono, che vogliono dire?
Il termine ha probabilmente qualcosa a che fare con il greco mica “briciola”, le tamerici sono piante tipiche dei luoghi salmastri, con piccoli fiori rosati che crescono in cespugli tendenzialmente bassi e fitti, diventate un elemento ricorrente nella Poesia Bucolica “alta” ma anche espressione di una Poesia di cose minute e delicate (si pensi a Pascoli e alla sua prima raccolta poetica o a “La pioggia nel pineto” di D’Annunzio).

Virgilio invoca le Muse di Sicilia (di Sicilia come Teocrito, il padre della Poesia Bucolica) e parla di un ritorno della Vergine con il Grande Ordine dei Secoli; in Esiodo, Dike, la dea della Giustizia, aveva abbandonato gli uomini nell’ Età del Ferro, e si era trasformata in una costellazione chiamata Virgo (Vergine madre,  leggenda o Madonna?).

Chi è questo bambino? Chi è questo puer che porrà fine all’ Età del Ferro e farà sorgere l’Età dell’Oro?

Critica Libera: una Buenos Aires a tinte bianconere



Combi, Rosetta, Caligaris, Varglien I, Monti, Bertolini, Munerati, Cesarini, Vecchina, Ferrari, Orsi. Non so se dice nulla questa accozzaglia di nomi. Ma a qualsiasi tifoso juventino scalda il cuore. E comunque non mi pare neppure giusto trascurare altri aspetti: ovvero che raccontando le loro storie si entra diretti nel cuore di Buenos Aires. Che, d’accordo, non è Brasile ma Argentina e quindi non siamo in linea con il mondiali. Ma sempre di calcio e Sudamerica si tratta.

Andrebbe scritto un libro per ciascuno, per i loro riccioli trapezoidali, i capelli con la riga in parte o nel mezzo, comunque pieni di brillantina e sudore, sbiaditi in foto di regime. Sembravano pronti a emulare Rodolfo Valentino e Carlos Gardel piuttosto che i fuoriclasse del calcio danubiano che dettava legge in Europa negli anni Trenta. Era gente che aveva fatto il percorso inverso dei nostri migranti che toccavano Buenos Aires stravolti e più in malora delle loro valigie di cartone legate con lo spago.

Approdarono dall’Argentina con chissà quali speranze: ingrassata come Luisito Monti, a cui gli inglesi nel ’34 in un incontro internazionale maciullarono un alluce neanche fossero alla guerra delle Falkland; oriundizzata senza preamboli dal fascismo come Mumo Orsi che, a dispetto del cognome aveva movenze feline e non da plantigrado; con ancora il tango nel sangue come quello strambo ribelle di nome, appunto, Renato Cesarini.

Monti, Orsi, Cesarini inocularono nella Torino delle ciminiere, che già appannavano la vista del  profilo delle Alpi, quel qualcosa in più di spudorato che trapelava dalla loro patria originaria. Buenos Aires… terra di sogni coltivati fin da bambini, nei campetti polverosi nascosti dalle variopinte facciate del Caminito e nelle straducole lungo il Riachuelo, dove capitava di seguire mestamente il pallone perdersi in acqua e proseguire verso la foce. Un’Argentina ancora innocente, senza traccia delle camionette militari che facevano irruzione nervosa nei quartieri: «Ehi niños, aquí». Con Videla era questo l’approccio dei soldati che salutavano, regalavano cioccolate e chiedevano di Tizio o Caio. Poi se ne ritornavano in caserma con qualche prigioniero. Magari un familiare.

Meridione, razzismo e disinformazione: "Lombroso e il brigante" di Maria Teresa Milicia

Lombroso e il brigante. Storia di un cranio conteso.
di Maria Teresa Milicia
Salerno Editore, 2014


12.00




Maria Teresa Milicia è una professoressa di Antropologia culturale dell'Università di Padova, ma è anche una calabrese che non ha mai perso il contatto con la propria terra. Il suo ultimo lavoro, un buon compromesso tra la divulgazione e la ricerca, prende spunto da un dibattito ormai quinquennale, nato su carta stampata e poi proseguito sul web. A partire dal 2009 la riapertura del museo "Cesare Lombroso" a Torino ha infatti sollevato una selva di polemiche da parte di movimenti meridionalisti e neoborbonici, scatenati contro la scelta di dedicare uno spazio pubblico alla figura di uno scienziato da sempre additato come "nemico del Sud". Al centro delle polemiche la decisione di esporre il cranio di Giuseppe Villella, calabrese di Motta Santa Lucia morto in carcere e sospettato di brigantaggio, lo studio del quale fornì a Lombroso l'idea che lo avrebbe portato a fondare l'antropologia criminale, e a diffondere in tutta Europa le celebri tesi sull'Uomo Delinquente come tipo umano biologicamente determinato.

#BigJump: la premiazione


Aiutare gli esordienti a fare il grande salto, metterli in contatto con i lettori in maniera diretta attraverso la rete: questo era l'obiettivo principale del concorso letterario Big Jump, nato da un'idea di Rizzoli libri, Amazon e 20lines. Lunedì 23 giugno siamo andati al Corriere della Sera per la premiazione. 
Prima della proclamazione abbiamo assistito ad alcuni interventi sui nuovi modelli di scouting e di editoria digitale. 
Daniele Manca, vicedirettore del Corriere, ha introdotto gli ospiti accennando alle sfide dell'innovazione tecnologica, che ha portato alla frammentazione e alla creazione di molteplici comunità che oggi vivono sulla rete e grazie ai nuovi media. Mettere in contatto comunità anche lontanissime tra loro è una scommessa e per farlo servono cambiamenti anzitutto sociali, oltre che tecnologici. 

Prima di Big Jump, Rizzoli e il Corriere avevano già intrapreso la strada della sperimentazione editoriale attraverso la rete con YouCrime, primo esperimento di co-publishing in Italia.

La notte bianca delle librerie: cronache da #Lettidinotte 2014

L'estate dell'editoria anche quest'anno è iniziata con Letti di notte

Il 21 giugno librerie, biblioteche, circoli di lettura, musei sono rimasti aperti fino al mattino in tutta Italia e anche in alcune città straniere per festeggiare insieme la notte bianca della lettura. 

Centinaia gli eventi in programma: presentazioni, incontri, reading, feste, giochi, concorsi spettacoli e musica hanno animato le notti delle librerie dalla Svizzera alla Sicilia. 
Anche quest'anno non potevamo perdere l'occasione di passare una notte intera tra librai e lettori.
Abbiamo seguito il consiglio: abbiamo spento la luce e acceso la notte e adesso vi raccontiamo le nostre serate tra Londra e Milano.

#PagineCritiche - Social Network Sites: tutti li usano, pochi sanno come ci scrivono

Scrivere per i social network
di Alessandro Lovari e Yahis Martari
Le Monnier - Mondadori Educational, 2013

pp. VIII - 152
€ 9,90 cartaceo
€ 7,97 ebook (epub)



Sui social network, quante volte ci siamo chiesti come scriviamo e come dovremmo scrivere? Non stiamo parlando di addetti ai lavori, ma degli utenti che si avvicinano ai social per ragioni varie, a cominciare dalla doppia spinta di "narcisismo" e "spettacolarizzazione" (per dirla con Boccia Artieri). Poi certo, ci sono gli account delle aziende e delle pubbliche amministrazioni, sempre più "social" (almeno formalmente) e sorvegliati nelle loro strategie di proposte sul web. Ma quale ventaglio di varietà linguistiche è adottato? Quando e come?

Lo studio di Alessandro Lovari e Yahis Martari toglie almeno in parte la nebbia sulla lingua adottata sui social, e d'altra parte gli autori riconoscono da subito la provvisorietà delle loro analisi, che subiscono il rapido invecchiamento per la rapidità dei cambiamenti sui SNS (Social Network Sites). Eppure, questo non può essere un alibi per disinteressarsi all'italiano della rete, e anzi stanno fiorendo numerosi studi merito, e ricordiamo che anche Bauman di recente si è soffermato sulle novità portate dall'online.
La premessa da cui muove lo studio è quella della profonda interdipendenza tra le diverse logiche che influenzano i SNS: la logica della conversazione, legata alla profonda dialogicità, mimetica dell'oralità; quindi una logica della tribù, ovvero la "ritualizzazione della comunicazione" tra gruppi più o meno strutturati; di qui, la logica del commento, che segna la "pervasività della tipologia commentativa". Da ricordare quindi la logica della quantità (ovvero la dilatazione degli spazi di scrittura), la logica del riuso (tendenza al riciclo e rimescolamento, che vediamo ogni giorno con retweet e condivisioni) e la quasi opposta logica della dispersione, che minaccia la "memoria" dei SNS.

Rock, amore, morte, follia: il leader degli Eels si racconta.

Rock, amore, morte, follia e un paio d'altre sciocchezze che i nipotini dovrebbero sapere
di Mark O. Everett
Elliot Edizioni, 2009

pp. 217
€ 14,00



Mark Everett è, lo dico a beneficio degli sfortunati che ancora non lo conoscessero, il leader di uno dei gruppi musicali più apprezzabili degli ultimi anni. La musica rock, la musica tutta, aveva bisogno di un tipo come lui. «La gente se ne accorge se in ciò che fai non ci metti l'anima», ebbe a dire Garcia Marquez qualche anno fa, ed è verissimo. Con la stessa facilità la gente si accorge se l'anima c'è, invece, come in questo caso, e allora la musica suona davvero. Suona benissimo.

In questa sede, però, è il caso di chiedersi se i lettori avevano bisogno di un'autobiografia di Mr. E, e la risposta è un po' più scontata della domanda: sì. Naturalmente, non è necessario conoscere la musica delle “Anguille” per cogliere quello che incendia le righe di questo libro. Bisogna gettarsi tra le parole, di colpo, evitando il rituale mesto del «quanto è romanzo e quanto è vissuto, qui dentro?», scantonando ogni volta che si formano in testa timori ragionevoli in astratto e in astratto probabili (ci troviamo davanti all'ennesima rock star dall'ego smisurato in cerca di soldi e lodi o all'ennesima furbetta operazione di marketing?). L'evidente urgenza di redenzione privata, senza altisonanti ideali posticci e senza la malcelata speranza di vedersi inseriti nell'empireo del maledettismo rock, dissolve ogni possibile riserva pregiudiziale.

Gli esordi di Corto Maltese



Il corvo di pietra
di Marco Steiner
Sellerio, 2014

pp. 194




Per gli amanti di Hugo Pratt e della sua creatura più famosa, al limite fra un riuscito personaggio salgariano e lo stesso alter ego dell’artista, ovvero Corto Maltese, c’è in giro un autentico gioiello pubblicato da una casa editrice che di gioielli se ne intende.
La siciliana Sellerio non poteva non vantare nel suo catalogo un libro che trasuda sicilianità, la fa toccare, risveglia appetiti all’ombra dell’Etna e del barocco trionfante della valle Iblea. Perché in questo romanzo, che narra la prima vera avventura di Corto Maltese, un Corto 14enne in compagnia di alcuni amici, la vera protagonista è proprio l’isola, antica quanto l’infanzia del mondo, gravida di colori, chiaroscuri, durezza, sapori, secoli, tradizioni, leggende. C’è un tesoro, un immancabile tesoro, da scoprire, nascosto in una grotta, apparteneva a una famiglia potente nel medioevo ma sterminata in una delle innumerevoli faide che insanguinarono l’isola per motivi dinastici. Una strana accozzaglia di personaggi si mette alla ricerca.

Pillole d'Autore: Il senso di una fine di Julian Barnes



Il senso di una fine è il romanzo che ha portato Julian Barnes, dopo tre nomination, a vincere il Book prize nel 2011. Si tratta di una storia che analizza il tema del tempo  declinandolo attraverso il concetto di morte, o meglio, di suicidio, come extrema ratio filosofica di fronte ad un dolore che va oltre la capacità di tolleranza umana. La storia si sviluppa attorno a due  blocchi narrativi. Il primo volto a ricostruire gli anni della gioventù del protagonista e voce narrante;  il secondo più concentrato sull’analisi delle conseguenze che questo passato ha avuto sull’oggi. Tutti gli eventi sono quindi esposti con un'unica prospettiva, quella di Tony - testimone dei fatti - l’ex ragazzo che dopo tanti anni si vede costretto ad affrontare di nuovo gli eventi di una fase della  vita che credeva conclusa. Ma la prima cosa che emerge dalla lettura di Sense of an ending  è proprio che il passato non è mai tale. Gli eventi continuano a tornare, modificati nella loro percezione dagli anni e dalla memoria che, si sa, è fallibile, per acquistare ogni volta un altro significato.

Sosia e il suo sosia: il tema del doppio nell'antica Roma


Sosia è una persona talmente simile a un'altra da poter essere scambiata per questa. Non solo: Sosia è un personaggio di una commedia di Tito Maccio Plauto, III secolo avanti Cristo. Da un nome proprio a un nome comune: le meraviglie dell'antonomasia.

Plauto, per chi fosse digiuno di letteratura latina, è stato uno dei commediografi arcaici più noti. Ha goduto di un enorme successo per le sue pièce piccanti, colorite, con personaggi fortemente tipizzati, primo tra tutti, il servus callidus, servo scaltro che in un modo o nell'altro riesce a risolvere ogni situazione. Gli si attribuiscono 21 commedie, alcune delle quali riprese da autori più vicini a noi come Molière. Stilisticamente si parla di “officina verbale plautina”: una capacità inventiva assoluta, fatta di neologismi, nomi parlanti, giochi di parole, creatività pura.

Lezione finita, torniamo a Sosia.
Sosia è il servo del re tebano Anfitrione, che dà il nome alla commedia, e che viene mandato a Tebe per avvertire la moglie Alcmena dell'imminente ritorno dal campo di battaglia del coniuge. Ma sulla porta del palazzo Sosia incontra il suo sosia. È Mercurio, divino, che può tutto e può anche prendere le sembianze del malcapitato per far sì che Giove, padre degli dei, anch'egli mutato nelle sembianze di Anfitrione, goda di una lunga notte d'amore con Alcmena. La vicenda prosegue con cinque atti di scontri tra umani e divini, Alcmena incinta sia di Anfitrione che di Giove, e un lieto fine assicurato (del resto, sempre di commedia si tratta).

«Indagine sullo scudetto revocato al Torino nel 1927», di Massimo Lunardelli

Indagine sullo scudetto revocato al Torino nel 1927
di Massimo Lunardelli
prefazione di Gian Carlo Caselli
Blu Edizioni, 2014


pp. 203
euro 14



Da interista, ho sempre provato una simpatia istintiva nei confronti del Torino: due club poco abituati alla vittoria, e che perciò hanno sviluppato un’epica della sconfitta che dona agli eventi più dolorosi della loro storia sportiva una tragica bellezza. Rispetto alla mentalità sportiva che ha il culto monoteistico della vittoria (tipica dell’altra squadra torinese, riassumibile nell’affermazione di Giampiero Boniperti: «Per la Juve vincere non è importante, è l’unica cosa che conta.»), nella storia del Torino permane una concezione di sport a trecentosessanta gradi che racchiude i picchi (il Grande Torino) e gli abissi (la sciagura di Superga, l’anonimato degli ultimi decenni) con eguale orgoglio, senza che la “vittoria” diventi discriminante decisiva per una gerarchia di ricordi che, prima che sportivi, sono umani.
La vicenda dello scudetto revocato al Torino nel 1927, che l’autore Massimo Lunardelli (bibliotecario nato a Torino nel 1961) ricostruisce in questo esaustivo volume, fa parte di quelle “storie” che oltrepassano il loro ambiente di nascita e che diventano rappresentative non solo di un ambiente sportivo, ma di un’epoca e di un Paese. Ma cosa successe? Alla fine del campionato 1926-27 il Torino conquista il suo primo scudetto; uno degli incontri decisivi si giocò il 5 giugno 1927: un derby con la Juventus, vinto in sofferenza per 2 a 1. Poco dopo un giornale romano, Il Tifone, grazie allo scoop di Renato Ferminelli (un giornalista che per piccole ripicche relative a un permesso stampa aveva il dente avvelenato nei confronti del Torino) fa scoppiare il caso: secondo le rivelazioni del giovane faccendiere Francesco Gaudioso, il Torino avrebbe corrotto con 25000 lire il difensore della Juventus Luigi Allemandi. Poco importa che Gaudioso si riveli un personaggio poco affidabile e che Luigi Allemandi figuri come il migliore in campo: siamo in pieno periodo fascista e il presidente della FIGC Leandro Arpinati – uno dei fidati di Mussolini e al tempo tra gli uomini più potenti d’Italia – conduce un’approssimativa indagine che “fa giustizia”: scudetto revocato al Torino e squalifica a vita di Allemandi (che usufruirà negli anni immediatamente successivi di un’amnistia).
Gian Carlo Caselli nella prefazione scrive:
«Quella di Lunardelli è sì la storia dello scudetto vinto dal Toro nel campionato 1926-27 e in seguito revocato, ma la torbida vicenda è incastonata in robuste pennellate che tracciano a grandi linee – praticamente fino ai giorni nostri – una storia dell’Italia politica e sportiva, in particolare del calcio.»

Vita dopo vita: le innumerevoli esistenze di Ursula Todd nell'Inghilterra dilaniata dal conflitto mondiale

Vita dopo vita
di Kate Atkinson
Editrice Nord, 2014

pp. 544
€ 18,60



«E se avessi la possibilità di rivivere più volte la tua vita, finchè non venisse come deve? Non sarebbe splendido?». 
 È l’11 Febbraio del 1910 quando, durante una tormenta di neve che rende impraticabili le strade della campagna inglese, Sylvie Todd dà alla luce una bambina, Ursula, assistita dal personale della sua elegante casa. Lo spesso strato di neve che ha ricoperto le strade rende impossibile per la levatrice o il dottor Fellowes recarsi a Fox Corner per prestare aiuto in un parto che fin da principio si annuncia difficile e la piccola Ursula, con il cordone ombelicale stretto intorno alla gola, dopo pochi istanti di vita smette di respirare. Il cuore insegue un battito che non arriva, le tenebre la accolgono. E se non fosse così? Se la piccola Ursula riuscisse in qualche modo a tornare indietro, a sopravvivere ad una morte prematura?
Kate Atkinson, autrice inglese celebrata da pubblico e critica, con Life after life immagina le mille vite di Ursula Todd, a partire da quel freddo 11 febbraio in un continuo «tornare indietro e ricominciare» tra incubi e déjà vu che determinano non solo il proprio destino ma anche quello delle persone a lei care, in una sorta di avanti e indietro nel tempo dove un cambiamento apparentemente insignificante può avere conseguenze enormi, mentre la giovane sempre più consapevole della sua particolare condizione cerca di realizzare la vita alla quale è realmente destinata.

Gianni Tetti: Mette pioggia - Neo edizioni

Mette pioggia
di Gianni Tetti
Neo. Edizioni, 2014

pp. 153



Ritorna il giovanissimo Gianni Tetti, sassarese, alle spalle un'altra pubblicazione per Neo. "I cani là fuori" e diversi lavori per la televisione, ambito nel quale ha collezionato un dottorato di ricerca presso la facoltà di Sassari.
Il nuovo libro di Tetti, "Mette pioggia", riprende gli stilemi del precedente prodotto, abbandonando la struttura del racconto per mettere insieme un'opera più unitaria ma frammentata nella sua essenza.
La storia racconta di Arturo Zanon, dipendente con una vita infelicemente come tutte le altre, condotta sullo sfondo della periferia di Li Punti, Sassari, flagellata da uno scirocco caldo e incessante. Il testo scorre impetuosamente come questo vento, con una scrittura sincopata e asciutta, dei periodi concreti e secchi e un'attenzione quasi morbosa al dettaglio - che è ciò che tratteggia l'atmosfera a tratti umida e cupa, a tratti malinconica e un po' grigia. Il narratore esterno iniziale si dissolve dopo poche pagine, lasciando tutto lo spazio a quello interno, dal tono a volte cinico, a volte quasi ingenuo, quasi una voce di bambino.

"Tracce di Mille Miglia" di Gloria V. Fenaroli

Tracce di Mille Miglia
di Gloria V. Fenaroli

pp. 144
Formato: 21x29,7 cm
Fotografie a colori
Confezione: brossura cartonata filo refe

Cavinato Editore International




Per tutti gli appassionati di auto storiche e di competizioni motoristiche, ma anche per i cultori di quella fotografia che può essere annoverata a pieno titolo fra le espressioni meglio riuscite dell'arte pittorica, segnalo la pubblicazione di questo libro che ripercorre le tappe più gloriose della "Mille Miglia" attraverso una serie di immagini rielaborate con una particolare tecnica ("Tracce di tempo" o "Marks of Time") messa a punto da Gloria V. Fenaroli, fotografa bresciana pluripremiata la cui formazione sotto il profilo creativo spazia dal teatro alle arti figurative in genere. Applicando questo originale procedimento sulla superficie delle foto, l'osservatore azzera per così dire la consueta percezione spazio-temporale, entrando in contatto (quasi sulla scia di un misterioso quanto affascinante impasto alchemico) con quella zona della mente in cui si annidano i ricordi e le emozioni che creano l'essenza della storia, una storia rivissuta o vissuta ex-novo attraverso gli impulsi che prendono forma sotto il suo sguardo interiore.
Attraverso le immagini più suggestive ristampate con "Tracce di Tempo", Gloria V. Fenaroli si sofferma sugli attimi più esaltanti e suggestivi della Mille Miglia, che rivivono dentro di noi come se li stessimo sperimentando in modo estemporaneo, grazie a tutta una serie di dinamiche e meccanismi non riconducibili a un "modello" comune, semplicemente perché ciascuno li scruta per così dire con gli occhi della propria anima, unica e irripetibile.

Dove diavolo sei stato? Il generale Montgomery, l'Italia e la storia di un uomo in fuga

Dove diavolo sei stato?
Tom Carver
Ianieri Editore, 2012




pp. 287
€ 19,90

Per raccontare la grande storia occorrono piccoli esempi. Perché non sono i grandi numeri a darci la misura del dramma collettivo, che il vuoto profilo dei numeri non ci restituisce nella loro drammaticità, quanto le storie personalissime di uomini e donne in cui possiamo riconoscerci, che contribuiscono a rendere tutto più umano; a calare il nostro presente nelle atmosfere cupe che i giorni della Seconda Guerra Mondiale hanno lasciato nel cuore dei nostri padri. Ecco perché raccontare una vicenda privata, come il legame che lega lo scrittore, Tom Carver, al protagonista, suo padre Richard, rende “Dove diavolo sei stato?” un libro diverso e insieme uno spaccato di storia universale, corale, drammatica e verissima, come solo la cronaca dei giorni che legarono le sorti dell’umanità alle battaglie estenuanti combattute per vincere la Seconda Guerra Mondiale può essere. Con una premessa: Richard Carver non era solo un soldato inglese, non fu solo un prigioniero di guerra, catturato nel novembre del 1942 ad El Alamain, ma fu anche il figliastro di una delle figure più note di quel conflitto, il generale Bernard Law Montgomery. 
Tom Carver, da acuto giornalista qual è, riesce nell’impresa di raccontare un avvenimento, come il conflitto mondiale, da una prospettiva nuova, ma forse quello che gli preme di più è recuperare il rapporto con un padre “distante”, che non parlava mai della propria vita e di come era sfuggito alla morte, vagando per l’Italia contesa tra truppe tedesche che non si arrendevano e truppe alleate che cercavano la fine del conflitto; un padre la cui figura era stata schiacciata dalla popolarità del patrigno. La figura mitica del generale Montgomery, chiamato affettuosamente Monty, emerge chiaramente già dall’inizio; ma l’autore non ha alcuna vena celebrativa per il nonno, non stenta a ricordare il rispetto che la sua persona gli incuteva, soprattutto da giovane: 
«Da ragazzo, mi impressionava molto pensare a tutto il potere che ebbe Monty. Rimanevo sempre a bocca aperta davanti ai filmati in bianco e nero dei cinegiornali che documentavano gli sbarchi del D-Day e mostravano spiagge brulicanti di mezzi da sbarco, carri armati, autocarri, trattori di artiglieria e centinaia di migliaia di minuscole figure, con elmetti e zaini, affannarsi tra le onde».

CriticaLibera - L'uomo perfetto? Lasciamolo agli Harmony



L'uomo perfetto non esiste: e per fortuna!, potremmo dire noi donne, che da sempre adoriamo le sfide impossibili (ma appena appena verosimili). Niente di nuovo, insomma, nella vita reale, dopo i quindici anni ce ne siamo accorte tutte, ma adesso pare che anche la letteratura non ne possa più di principi impomatati e conti in banca vertiginosi. Insomma, direte, ci sono state le Cinquanta sfumature... Sì, giusto, ma quando?

Nel frattempo, sono usciti libri che hanno riportato l'attenzione sull'uomo di tutti i giorni, magari anche un po' nevrotico, inconcludente, o profondamente geniale. Così, ad esempio, in "L'amore è un difetto meraviglioso" di Gramae Simsion (Longanesi, 2013) Don Tillman è un genetista di successo, eppure la sua patologia non è ancora ben chiara agli psicanalisti: Asperger? Disturbo bipolare? Semplicemente, nella sua mente è tutto razionale, dagli ingredienti da usare nella sua dieta (sempre uguale ogni settimana) al numero di ore da dedicare alla pulizia del bagno... Immaginate, ora, che un uomo così voglia costruire un questionario per il Progetto Moglie, ma che alla sua porta bussi la donna sbagliata (vitale, esuberante, problematica ma divertente)...

William Sidis: la vita imperfetta di un genio solitario

La vita perfetta di William Sidis
di Morten Brask
Traduzione di Ingrid Basso
Iperborea, 2014

pp. 396
€ 17,50


Il cielo sprofonda su Boston. Una nebbia fitta si stende sui viali della città, inghiotte le chiome degli alberi, le statue, i lampioni sospesi. Cala sull'asfalto e sul selciato, filtra nelle cantine, passa attraverso le grate delle fognature, fino a insinuarsi nei tunnel della metropolitana. Nelle strade l'aria è madida, i grattacieli scompaiono piano dopo piano in quell'opacità bagnata, muri, finestre e tetti si dissolvono nel grigio.

Un pomeriggio d'autunno del 1944: la città che svanisce lentamente, la sua concreta materialità disgregata, dalla cima dei grattacieli ai tunnel della sotterranea, nel grigio umido e indistinto della nebbia. Il sipario si apre sul protagonista in quel modo ironico che solo la sorte più sarcastica e la letteratura migliore sono in grado di architettare: tanto facile occultare un'intera città, quanto impossibile nascondersi per un solo uomo.

Quando entra in scena, William Sidis è uno scialbo impiegato quarantacinquenne che condivide tutti i tratti caratteristici del proprio lavoro di contabile: vestiti logori, routine alienante, qualche tic paranoico (la claustrofobia dell'ascensore affollato di colleghi). E soprattutto l'anonimato di un lavoro noioso, umile, svolto da persone tra loro tutte uguali, indistinguibili, intercambiabili. Per molti una condanna, per lui il tesoro alla fine dell'arcobaleno: perché, al punto in cui è arrivata la sua vita quel giorno del 1944, William si è ormai adeguato da anni a concentrare ogni suo sforzo sul tentativo di rendersi il più possibile invisibile, trasparente al mondo, grigio come la nebbia; sfuggendo ad ogni contatto umano e dandosela a gambe al primo segno di interesse altrui per le sue capacità. Perché? Semplice: perché William Sidis è un genio. Il più grande genio mai comparso sulla faccia della Terra.

Brasile 1950 – Brasile 2014: La maledizione del Mondiale in casa



Oggi, 12 Giugno 2014, in Brasile cominceranno i Mondiali di Calcio. L’unica altra volta che il Brasile è stato paese ospitante risale all’ormai lontano 1950. Sono passati sessantaquattro lunghissimi anni.

Il Brasile dei Mondiali del 1950 era una nazione umile in cui il calcio, impastato di umanità, si praticava con poche risorse economiche. C’erano i palloni di cuoio con le cuciture e le maglie delle squadre senza scritte. C’era il calcio bailado, fatto con stracci e fantasia. Il Brasile era un paese povero ma anche felice, in cui da mattina a sera per le strade si vedevano frotte di bambini giocare allegri e accontentarsi del poco che avevano. C’è un brano di un bellissimo romanzo di Fabio Stassi, È finito il nostro carnevale (Minimum fax, 2007), che descrive perfettamente l’atmosfera magica che si respirava in quel Brasile del 1950:

I bambini giocavano a pallone contro i muri delle case, per strada, sulle scalinate. Lì quasi nessuno aveva le scarpe. Il calcio era come l’amore, non costava nulla. Un pomeriggio mentre guardavo palleggiare dei ragazzini pieni d’estro su un campo di terriccio, venne giù il temporale più violento che mi avesse mai bagnato. Trovai riparo sotto la tettoia di un capannone. La pioggia si era fatta tempesta, e la tempesta diluvio. Un fiume di fango scorreva davanti ai miei piedi e vedevo baracche di lamiera verniciata scivolare giù dalle colline come biglie di vetro. Eppure, in tutto quel cataclisma, i ragazzini non avevano smesso di giocare. Sfidavano i fulmini con irriverenza. Gareggiavano a chi riuscisse a mantenere la palla più a lungo per aria. Si esibivano in controlli acrobatici, dribblando il vento e l’acqua. Se la loro passione era più forte di tutte le piogge della terra, i brasiliani quell'anno avrebbero di sicuro conquistato la Coppa del Mondo”.

«American Psycho» e le rappresentazioni della violenza: è necessario “normarle”?

Bret Easton Ellis
American Psycho
2001, Einaudi Tascabili
Traduzione di Giuseppe Culicchia
pp. 522
Euro 14

Fernanda Pivano
Viaggio americano
2001, Tascabili Bompiani
pp. 398
Euro 11

Pubblicato nel 1991 negli Stati Uniti, American Psycho diede il definitivo successo al giovane (all’epoca aveva ventisei anni) Bret Easton Ellis, già conosciuto per Meno di zero e Le regole dell’attrazione.
Leggerlo dopo i primi due potrebbe far pensare: “Ecco uno che scrive sempre lo stesso libro”, e non sarebbe neanche tanto peregrina una tale asserzione: questi tre romanzi possono anche essere visti come un’opera unica in cui cambiano un pochino i nomi dei personaggi, ma alla fin fine si finisce sempre lì. “Lì” dove, però?
“Lì” nel mondo della superficialità assoluta, quella senza cedimenti e che pensi sempre che non possa esistere: alcune malintese interpretazioni dell’epoca considerarono la superficialità dei personaggi ellisiani come un difetto del libro (che sarebbe come dire che se un personaggio di un libro è antipatico, allora lo è anche il libro; o che se un personaggio si esprime con registro orale, allora l’autore non sa scrivere); in Viaggio americano di Fernanda Pivano, possiamo leggere la risposta di Ellis:
«Dicono che questi personaggi sono superficiali. Ma i personaggi di tutti i miei romanzi sono superficiali, non possono non esserlo, perché non capiscono che cosa succede nella loro vita.»

Colette, Mi piace essere golosa

Mi piace essere golosa
di Colette
Traduzione di Angelo Molica Franco
Voland, 2014

pp. 90

euro 12,00

«Ma posso avere segreti per “Marie-Claire”?».

Sono poco meno di una trentina gli articoli che Sidonie Gabrielle-Colette – o più semplicemente  Colette – scrive tra il 1938 e il 1940 per la neonata rivista femminile “Marie-Claire”. Una collaborazione tra le tante, questa sulla carta stampata, per la prolifica e poliedrica artista, che in quegli anni tra le due guerre è ormai una delle dame più importanti di Francia, nonché la prima in assoluto a essere stata insignita della Légion d'honneur (1936). A ricordare questa interessante collaborazione è oggi la raccolta Mi piace essere golosa, tradotta in italiano per Voland da Angelo Molica Franco: un libricino snello ma prezioso, che nel suo centinaio di pagine ripropone alcuni tra gli interventi più riusciti di colei che secondo Guy Martin – come si legge nella Prefazione. Colette à la carte – «incarna perfettamente la Parigina d'oggi» per la proverbiale attitudine libera, provocatrice e sensuale.

Un'idea di destino: un Terzani inedito e intimo


Un'idea di destino. Diari di una vita straordinaria
di Tiziano Terzani
Longanesi, Milano 2014

€ 19



A dieci anni dalla morte, trovare di nuovo un Terzani inedito è uno splendido regalo per tutti gli estimatori del giornalista fiorentino che probabilmente più di ogni altro ha saputo capire l’Asia e le sue contraddizioni nel corso di una lunga e non sempre facile carriera giornalistica. E ancor più sorprendente è scoprire l’uomo privato che si cela dietro la figura del Terzani pubblico, in questa bella selezione delle numerosissime pagine di diario che il giornalista ha lasciato, ordinate dalla moglie per la pubblicazione con Longanesi.
Sono scritti che vanno dal 1981 al 2004, cui si accompagnano gli appunti del suo ultimo discorso pubblico in occasione del matrimonio della figlia Saskia; Un’idea di destino è quindi un viaggio nel cuore di Terzani, non solo il giornalista interprete attento del mondo che lo circonda, ma anche l’uomo spesso tormentato da dubbi e crisi personali, che si interroga su cosa rende la vita «un’avventura felice» e fino alla fine dei suoi giorni non smette di cercare la propria risposta.

Festival Letteratura Milano - "Giovanni e Nori - Una storia di amore e resistenza" di Daniele Biacchessi


Giovedì 5 giugno, presso la Biblioteca Crescenzago di via Don Orione 19, in occasione di uno dei numerosi incontri organizzati nell'ambito del Festival della Letteratura di Milano (in programma dal 4 all'8 giugno 2014), Daniele Biacchessi ha presentato il suo ultimo libro: "Giovanni e Nori - Una storia di amore e di resistenza" (Editori Laterza).

Ripercorrendo le tappe salienti della vita di Giovanni Pesce, comandante partigiano responsabile dei Gap di Torino e di Milano, nonché una delle figure-chiave della Liberazione, Biacchessi stimola un'attenta riflessione sulle dinamiche della Resistenza e sull'imprescindibilità del suo ruolo nell'ambito della costruzione di uno Stato democratico.
Giovanni Pesce nasce a Visone d'Acqui, un piccolo borgo in provincia di Alessandria, il 22 febbraio 1918, quando l'Italia sta ancora combattendo contro l'impero austro-ungarico. Mancano parecchi mesi all'armistizio del 4 novembre che sancisce la vittoria italiana nella Grande Guerra, una vittoria che tuttavia è ben lungi dal permettere al Paese di affrancarsi da una povertà destinata anzi ad assumere delle proporzioni sempre più inquietanti. La stragrande maggioranza della popolazione è costituita da
  donne vedove a causa dei numerosi uomini morti sui fronti di guerra, vecchi e bambini. Le aspettative di vita si attestano intorno ai quarant'anni. [...] Aumenta a dismisura il debito pubblico, si registra un deficit della bilancia dei pagamenti, crolla il valore della lira, i salari scendono e perdono il potere d'acquisto, peggiorano le condizioni di vita della classe operaia e dei contadini.
L'Italia è allo sbando e il popolo invoca a gran voce un cambiamento ad opera di una classe politica in grado di attuare delle riforme strutturali davvero efficaci. E' in questo tessuto sociale a brandelli che si dipana la matrice del Fascismo: nel giorno della marcia su Roma, Giovanni Pesce ha poco più di quattro anni ma sta già assimilando quei principi spiccatamente progressisti che si imprimeranno indelebilmente nel suo DNA. Il padre Riccardo, antifascista convinto, si rifiuta di prendere la tessera del Partito nazionale fascista e non può più svolgere la sua attività di scalpellino. Decide pertanto di emigrare nel Sud della Francia, a La Grand'Combe dove, qualche mese più tardi, lo raggiungeranno la moglie Maria e i due figli Giovanni e Gilfredo. Come la stragrande maggioranza della popolazione maschile di quel villaggio, Riccardo fa il minatore. Sua moglie, per integrare il misero salario familiare, organizza una cantina in cui serve polenta, spezzatini e baccalà ai minatori italiani, polacchi, algerini, tedeschi e slavi. Ascoltando i loro racconti, Giovanni scopre che molti di loro, esattamente come suo padre, sono fuggiti dai loro Paesi d'origine a causa della repressione fascista e nazista. Ma il prezzo da pagare è altissimo poiché la vita del minatore, come lo stesso Giovanni sperimenterà sulla sua pelle nel volgere di alcuni anni, è a dir poco spaventosa:
ritmi di lavoro esasperanti, senza le più elementari norme di sicurezza e igieniche, multe inflitte senza alcun motivo, minacce di espulsione dalla Francia. I minatori sono costretti a vivere intorno a sei metri quadrati per riposare, raccogliersi, ricordare. C'è chi si ubriaca per dimenticare, chi litiga e si azzuffa nelle baracche, chi cade stremato dalla stanchezza, chi respira rotolando per la silicosi.

Ma gli italiani sanno solo far commedie?

Una commedia italiana
di Piersandro Pallavicini
Feltrinelli, 2014

pp. 320
€ 17


Perché il mondo, vada come vada, anche a catafascio, lo si deve affrontare così, sorridendo. Senza musi lunghi, senza lamentele che fan venire la colite. D'accordo?
Potremmo riassumere così Una commedia italiana, il nuovo romanzo di Piersandro Pallavicini, uscito in primavera per Feltrinelli. Lo scrittore pavese, che ci ha abituati alla sua ironia tagliente e mai gratuita, torna con un romanzo famigliare, un'epopea quasi, che ha per protagonista diretta Carla, una professoressa di chimica cinquantenne che assomiglia ad Ave Ninchi, statuaria e pronta a combattere per la sua causa, allergica a tutte le smancerie "che fanno venire la carie", ma sensibile e profondamente etica, sotto sotto. Da contraltare, il grande presente-assente, nonché motore della vicenda: il padre, l'imprenditore di latticini Alfredo Pampaloni, scomparso da poco, ma che - come vedremo di pagina in pagina - fa parlare di sé sempre e comunque. Ma lasciamo che sia proprio Carla a descriverlo:
Mio padre è l'esempio vivente di come una dieta malsana, scarse letture e una misoginia da far rizzare i capelli allunghino la vita ben oltre l'aspettativa media. Un troglodita. Di cui non oso chiedermi cosa pensi davvero di me e di te.

"Da Pascoli a Busi. Letterati e letteratura in Italia": incontro con Matteo Marchesini


Da Pascoli a Busi è un titolo che ha del singolare. Siamo abituati alle storie letterarie che si prendono troppo sul serio, con titoli che - come frecce - tracciano intervalli temporali precisi, dentro cui muoversi con estremo rigore. Ma Pascoli e Busi sono comunemente percepiti come due punti così lontani che quando li vedi vicini sulla copertina verde nasce l'immediata curiosità di capire quale percorso abbia portato dall'uno all'altro. Vi dico subito che è meglio accostarsi a questo studio lasciando da parte le mere ripartizioni temporali, spesso tipiche di un modo di leggere i testi che trova fondamento solo nella divisione in periodi e scuole.
Più che una storia letteraria dall'Ottocento agli anni Duemila, Da Pascoli a Busi (Quodlibet Studio, 2014) è "un mosaico di panoramiche e medaglioni riguardanti temi e scrittori" sui quali Matteo Marchesini ha riflettuto con maggiore intensità nel suo lavoro critico dell'ultimo decennio, in gran parte qui raccolto. 
Ho incontrato l'autore alla Libreria Popolare di via Tadino a Milano, dove ha presentato il volume insieme al poeta e scrittore Umberto Fiori e a Giacomo Pontremoli della rivista Gli asini.
Il percorso - non banalmente lineare - che il critico traccia nel libro è discusso soprattutto nella Premessa che funge da introduzione metodologica alla raccolta, ma ancor di più si assapora come un discorso accurato sul rapporto tra letteratura e realtà, una riflessione necessaria sul ruolo della critica letteraria di ieri e di oggi. 
Come ha sottolineato Fiori, Marchesini si confronta con gli scrittori italiani dall'Ottocento al Duemila con estrema attualità, anche usando la satira e giocando con la parodia. 
Da quale esigenza prende corpo questa raccolta di scritti? Per raccontarla non si può che partire dalla già citata Premessa, di cui lo stesso autore ha ribadito la centralità. 
Quindi questa volta vi racconto l'incontro facendo parlare soprattutto il testo.

Amleto de Silva, "La nobile arte di misurarsi la palla"




La nobile arte di misurarsi la palla
di Amleto de Silva
‘round midnight edizioni, 2014

pp. 496
12,00





Premetto che di solito scrivo recensioni al plurale maiestatis, non perché io sia  di stirpe nobile ma perché così mi hanno insegnato all’università nei favolosi ottanta. Tuttavia, per commentare “La nobile arte di misurarsi la palla” di Amleto de Silva (non lo chiamerò Amlo, ché non siamo in confidenza) userò la prima persona, dato che l’argomento mi tocca e mi smuove qualcosa dentro. Premetto anche, a titolo d’informazione, che non sono una “professoressa facente funzioni di vicepreside”, che il Pd l’ho votato ma solo occasionalmente, e che qualche volta mi succede persino di “recarmi” dal panettiere anziché andarci e basta.
La nobile arte etc. è un romanzo di Amleto de Silva (questo l’ho già detto), collaboratore di Repubblica, autore satirico per Smemoranda e per Enrico Montesano, recensore de ilmiolibro.it. Dopo essersi autoprodotto a sufficienza, si affida alle cure della ‘round midnight edizioni per raccontare la storia di Enea Pellegrini, del suo talento frustrato, delle sue ambizioni come scrittore professionista e del suo incontro con il male assoluto, cioè le scuole di scrittura.
De Silva dichiara di non aver mai frequentato una scuola di scrittura. Nemmeno io. Non l’ho fatto per timore che la poca autostima che possiedo ne fosse irrimediabilmente intaccata e, stando a quanto accade al povero Enea, pare abbia agito bene. Enea lascia la provincia e va a Roma; già al limite del suicidio per problemi personali e familiari, investe tutto quello che ha nell’iscrizione alla Scuola, la più prestigiosa, quella che gli aprirà tutte le porte, che lo farà diventare un Autore Affermato. La Scuola, invece, è un nido di vipere che si mordono e si parassitano l’un l’altra. Gli alunni sono schiavi degli insegnanti, a loro volta scrittori di media fama che si credono Dio in terra, temono la concorrenza come la peste e cercano di abbattere ogni altrui velleità artistica. Alla Scuola si fa di tutto tranne che insegnare. Principalmente si “scoraggiano” gli aspiranti scrittori, convincendoli che le loro ambizioni sono comuni e volgari, che non possiedono capacità né talento, che avere un romanzo nel cassetto è una vergogna, che in Italia si scrive troppo e si legge poco.

Negli Emirati con Walter Siti (e tutto quel che lo attraversa)

Il canto del diavolo
di Walter Siti
BUR Rizzoli, 2009

pp. 202
€ 16,50


Capitano viaggi, e poi capitano viaggi nei viaggi: non è uno scioglilingua, è quello che succede quando su un treno ti fai trasportare a km di distanza dalla lettura di un reportage altrui. Se poi questo Altro è Walter Siti, e con lui arrivi negli Emirati Arabi, sta' pur certo che non sarà un percorso anonimo né edulcorato.
Prima di iniziare un reportage di viaggio, occorre farsi un paio di domande: cosa cerco? E quanto sono disposto/a a farmi coinvolgere dallo scritto? Perché ci sono storie altrui che diventano anche le tue, e ti condizionano (almeno un po'): chi, dopo aver letto Una cosa divertente che non farò mai più, è salito su una nave da crociera senza pensare (almeno un po') a Wallace e senza osservare (almeno un po') le cose dal suo punto di vista?
Ecco, questo è forse il crinale tra chi sbuffa davanti a un reportage di viaggio e chi, al contrario, fa di tutto per trovarne altri.

Alice B. Toklas, I biscotti di Baudelaire. Ricette e ricordi, profumi e sapori tra le eccentricità e la grande arte della Parigi tra le due guerre




I biscotti di Baudelaire
di Alice B. Toklas
Traduzione di Marisa Caramella
Bollati Boringhieri, 2013

pp. 234

euro 16,50

«Come se un libro di cucina
avesse qualcosa a che fare con lo scrivere».

Quando The Alice B. Toklas Cook Book viene pubblicato per la prima volta negli Stati Uniti è il lontano 1954, né più né meno che sessanta anni fa. L'omonima autrice – compagna di vita di Gertrude Stein, con la quale animò uno dei più celebri salotti artistici e letterari della Parigi del primo Novecento – lo ha “cucinato”, per richiesta del suo editore, a qualche anno dalla morte dell'amata (1946), nonché, precisa lei stessa, «durante i primi tre mesi di un attacco di itterizia». E questo, si capisce, con tutte le conseguenze che la descrizione di cibi e banchetti può avere nella psiche di una persona costretta a una dieta rigorosa. Da allora, il volumetto concepito dall'autrice come «miscuglio di ricette e ricordi» ha conosciuto un enorme successo e un considerevole numero di ristampe, fino ad uscire anche nella sua versione italiana, tradotta da Marisa Caramella per Bollati Boringhieri (2013) con un titolo premeditatamente accattivante – I biscotti di Baudelaire – e una copertina a dir poco sibillina, che nulla ha da invidiare ai manuali e alle riviste di gastronomia how-to. Difatti, fotografate in primissimo piano e in pieno stile food-porn, campeggiano delle piccole madeleines, una delle quali, debitamente morsicata, svela al lettore un interno verde brillante; perché come rivelerà la stessa Toklas nella penultima sezione del libro – Ricette degli amici – il segreto di questi “paradisiaci” dolcetti «perfetti per le giornate di pioggia» altro non consiste che nell'aggiunta all'impasto di un bel mazzetto di cannabis sativa. La scelta editoriale di evocare visivamente il pasticcino così caro a Proust, invece, fa il resto, e non può che dirla lunga sul contenuto evocativo e nostalgico del volume.

I "mondi" di Gaarder





ll mondo di Anna
Titolo originale: Anna
di Jostein Gaarder
Longanesi, 2014

pp. 200

L’anno in cui compì 10 anni, però, il 31 dicembre non aveva ancora nevicato, né sull’altipiano né sulla pianura. Il paesaggio era avvolto dal gelo già da un pezzo, ma a parte qualche piccola chiazza qua e là, in montagna non c’era neve. Persino l’imponente cima rocciosa era vergognosamente nuda sotto il vasto cielo, spogliata del suo bianco cappotto invernale.

Gli adulti parlavano sommessamente di “riscaldamento globale” e “mutamenti climatici” espressioni nuove a cui Anna prestò subito attenzione. Per la prima volta in vita sua sospettò che il mondo fosse scombussolato.


Anna ha serie preoccupazioni, preoccupazioni di importanza cosmica. I suoi non sono i volubili pensieri di una qualunque sedicenne di inizio millennio: non segue con ossessione la moda, non le importa del biglietto per il concerto della sua band preferita. Lei è preoccupata per l’ambiente: il pensiero delle continue emissioni di CO2 che provocano l’innalzamento delle temperature, lo scioglimento dei ghiacciai e l’estinzione di centinaia di specie animali e vegetali occupa la sua testa.
Sin da piccola è sempre stata molto fantasiosa con una vita onirica così spiccata da farle confondere la realtà con il sogno. Alla vigilia del suo sedicesimo compleanno, Anna comincia a sognare di essere una ragazzina che vive nel 2082, di chiamarsi Nova e di assistere impotente alla distruzione del pianeta azzurro, ormai esausto dopo secoli di sfruttamento intensivo ed egoista delle risorse. Come può fare, nel suo presente, perché quel futuro apocalittico non si avveri? All’umanità può essere data una seconda chance per riparare ai propri errori?

#LectorInFabula - "Antonio e le cose dei grandi" di Angelo Petrosino

Antonio e le cose dei grandi
di Angelo Petrosino
Edizioni Sonda, 2013

pp. 206
Sono passati pochi mesi, ma sono sorpreso anch'io di come il tempo sia volato via... A grande richiesta, forte degli ottimi riscontri ottenuti con "Ciao, io mi chiamo Antonio" (vedi recensione), Angelo Petrosino ha confezionato un sequel non meno accattivante dell'opera prima.
E' di fatto trascorsa solo una manciata di mesi, ma Antonio è cresciuto e maturato. Come dice suo padre: A volte ci vuole poco per crescere in fretta. Basta fare le esperienze giuste.
La prima svolta importante e decisiva coincide per la verità con una tappa obbligata per la stragrande maggioranza dei ragazzi che stanno per compiere undici anni o che li hanno già compiuti. Sappiamo infatti che il conseguimento della licenza elementare sancisce simbolicamente la fine dell'infanzia e il traghettamento ufficiale nell'adolescenza, una fase più composita e delicata che trova una sorta di rimando speculare in un percorso di studi certamente più impegnativo rispetto al quinquennio del primo ciclo di istruzione. Per il momento, comunque, la scuola media è solo un appuntamento rinviato di qualche mese.

Nora Ikstena, "Un bianco fazzoletto"




Un bianco fazzoletto
di Nora Ikstena
Traduzione di Paolo Pantaleo
Damocle edizioni, 2014



pp27
3,00



Esiste una favola di Bechstein che si chiama “Il libriccino magico”. È solo un’associazione mentale, ma fra le dita ci ritroviamo un piccolo oggetto - chiamarlo libro non renderebbe l’idea - cucito a mano con un filino bordeaux (lo stesso di cui, curiosamente, si parla anche nella fiaba) capace di farci entrare in un’altra dimensione, quella di una fresca e ventosa terra straniera.
La Damocle edizioni ha aperto una collana, diretta da Paolo Pantaleo, interamente dedicata alla letteratura lettone. Si tratta di piccoli gioiellini tascabili, rilegati con un filo che porta il colore del paese in questione. “Un bianco fazzoletto” è la seconda uscita, tradotto in italiano ma con testo a fronte in lingua originale. L’autrice, Nora Ikstena, nata Riga nel 1969, è una delle principali scrittrici lettoni contemporanee. “Lakatiņš baltais”, cioè un fazzoletto bianco, fa parte della raccolta Dzīves stāsti Ed. Atēna 2004.
Il vento fresco che sentiamo è quello della buona letteratura straniera, ed è il vento della Lettonia, terra di boschi e di laghi ma qui terra solo del cuore, del ricordo, del rimpianto. “Quello che era, era nella sua testa.”

Festina Lente, i taccuini di Sandro Naglia



Festina Lente, Taccuini 1993-2007
di Sandro Naglia
Tabula Fati, 2011

pp. 91


Dovrei sempre tenere a mente di essere un privilegiato, che ha avuto la fortuna di fare, nella vita, il lavoro che desiderava. Di più: di riuscire a vivere facendo l’artista, e persino di essere (nei miei limiti) riconosciuto come tale. Il passato, le cose fatte, dovrebbero essere accettate per quelle che sono, senza divenire un termine di paragone – positivo o negativo che sia – per la mia vita e la mia attività di adesso. Dovrei badare alla sostanza di ciò che faccio. La mia ricerca spirituale, tenace e zoppicante al tempo stesso, dovrebbe ormai saldarsi con quello che faccio, e infine ciò che cerco dovrebbe divenire (o scoprirsi come) un unico obiettivo esistenziale. [1]

I taccuini attraverso cui Sandro Naglia (apprezzato cantante lirico e direttore d’orchestra) dialoga con i lettori, rappresentano più di una raccolta di riflessioni, abbozzi, schizzi, idee a cui è stato prevalentemente associato il genere. Si tratta invece di una voluta scelta di annotazioni che costituiscono, nell’insieme, un ritratto, seppur sintetico, della fase consapevolmente matura, dell’autore in cui convergono alcuni elementi che rappresentano un leit motiv della sua formazione, oltre che artistica, essenzialmente umana. Della quotidianità vissuta dall’autore, assai ricca di interessi letterari, culturali e artistici, cogliamo infatti il desiderio di mettere qualche punto fermo che delinea (in modo implicito) alcuni lati della sua personalità:

Devo studiare e lavorare perseguendo mete che probabilmente non raggiungerò mai, ma il solo fatto di perseguirle può forse creare qualcosa  che trasmetta un’emozione agli altri.[…]1. Caratteristica principale del mio carattere. Positività . 2 Qualità che preferisco nell’uomo. Chiarezza 3. Qualità che preferisco in una donna. Dolcezza. 4. Il mio difetto principale. Presunzione. 5. Attività preferita nei miei momenti liberi. Leggere. 6. Il mio sogno nel cassetto. Girare un film. 7. Il mio sogno in generale. Essere un bravo artista 8. La volta che sono stato più felice. Quando ogni cosa che mi circonda sembra avere un senso (mi succede, talvolta). I miei scrittori preferiti – Duras, Tabucchi, Chatwin, …Pessoa, Joyce, Thomas Mann...Montale, Shakespeare, Dante…10. Gli eroi letterari che preferisco. Ulisse (in tutte le sue versioni) Aschenbach e Kröger di Thomas Mann…[2]

#CriticARTe - "Fare una mostra" di Hans Ulrich Obrist

Fare una mostra
di Hans Ulrich Obrist
UTET, 2014




«Spesso irregolarità ed eccezioni sono ciò che impedisce al sistema di arrestarsi».
Hans Ulrich Obrist, Fare una mostra



Esce il 3 giugno, nella sua versione italiana tradotta per UTET da Marina Astrologo, Fare una mostra, l'ultimo libro di uno dei più importanti curatori a oggi viventi e in attività (meglio sarebbe dire: in azione): Hans Ulrich Obrist. Il nome, specie per i membri del famigerato “sistema” dell'arte contemporanea, è uno di quelli capaci di far “tremar le vene e i polsi”. E ci si aspetterebbe, in base all'importanza del suo autore (a oggi co-direttore delle Serpentine Galleries di Londra) e a un titolo così ambizioso e onnicomprensivo, un testo altrettanto colossale. Ma al contrario, la prima delle tante piacevoli sorprese che le 250 pagine regalano al lettore sta proprio in una transitività generosa, in una prosa capace di cucire abilmente insieme teorie, pratiche e aneddoti sull' “arte del curare” intesa nel senso più ampio di “prendersi cura di”, e in uno scrivere chiaro che molto poco ha a che fare con le astrazioni volutamente involute di un certo gergo di settore tanto alla moda quanto caricaturale. Fare una mostra, inoltre, non è un libro a tesi, e nemmeno un manuale di istruzioni. L'aspirante curator – specie se young, per l'accezione negativa che questo aggettivo ha fatto assumere di recente al sostantivo – non ci troverà nessun decalogo, nessun modello da imitare, nessun consiglio formulato con il preciso intento di esserlo. E il non addetto ai lavori, il semplice appassionato d'arte e addirittura lo scettico, troveranno invece che l'opera sia, piuttosto, il tentativo di Obrist di fare il punto su una situazione in divenire: vale a dire, la propria carriera con i suoi moventi – e movimenti – i suoi cardini, le sue aporie.