William Sidis: la vita imperfetta di un genio solitario

La vita perfetta di William Sidis
di Morten Brask
Traduzione di Ingrid Basso
Iperborea, 2014

pp. 396
€ 17,50


Il cielo sprofonda su Boston. Una nebbia fitta si stende sui viali della città, inghiotte le chiome degli alberi, le statue, i lampioni sospesi. Cala sull'asfalto e sul selciato, filtra nelle cantine, passa attraverso le grate delle fognature, fino a insinuarsi nei tunnel della metropolitana. Nelle strade l'aria è madida, i grattacieli scompaiono piano dopo piano in quell'opacità bagnata, muri, finestre e tetti si dissolvono nel grigio.

Un pomeriggio d'autunno del 1944: la città che svanisce lentamente, la sua concreta materialità disgregata, dalla cima dei grattacieli ai tunnel della sotterranea, nel grigio umido e indistinto della nebbia. Il sipario si apre sul protagonista in quel modo ironico che solo la sorte più sarcastica e la letteratura migliore sono in grado di architettare: tanto facile occultare un'intera città, quanto impossibile nascondersi per un solo uomo.

Quando entra in scena, William Sidis è uno scialbo impiegato quarantacinquenne che condivide tutti i tratti caratteristici del proprio lavoro di contabile: vestiti logori, routine alienante, qualche tic paranoico (la claustrofobia dell'ascensore affollato di colleghi). E soprattutto l'anonimato di un lavoro noioso, umile, svolto da persone tra loro tutte uguali, indistinguibili, intercambiabili. Per molti una condanna, per lui il tesoro alla fine dell'arcobaleno: perché, al punto in cui è arrivata la sua vita quel giorno del 1944, William si è ormai adeguato da anni a concentrare ogni suo sforzo sul tentativo di rendersi il più possibile invisibile, trasparente al mondo, grigio come la nebbia; sfuggendo ad ogni contatto umano e dandosela a gambe al primo segno di interesse altrui per le sue capacità. Perché? Semplice: perché William Sidis è un genio. Il più grande genio mai comparso sulla faccia della Terra.

Figlio di immigrati ucraini di origine ebraica, a 12 mesi il piccolo William è già in grado di esprimersi perfettamente in inglese, a 18 legge il New York Times, a quattro anni impara da solo il greco e il latino memorizzando grammatiche e dizionari, inventa una nuova lingua universale (il vendergood) perfettamente coerente e più funzionale dell'esperanto. Studia matematica e astronomia; a undici anni frequenta Harvard, presentando di fronte all'intero corpo accademico una teoria originale sulla geometria non euclidea e la Quarta Dimensione. Una crescita intellettuale apparentemente senza limiti, che però non si limita al solo amore per la conoscenza: fin da piccolo, William sviluppa anche un forte interesse per il marxismo e gli ideali bolscevichi, e sul finire della Grande Guerra lo ritroviamo interprete volontario ai comizi socialisti affollati di operai provenienti dall'Europa orientale. È qui che conosce Martha, giovane virago del socialismo militante che, con la forza vitale delle sue convinzioni, riuscirà a far breccia attraverso la cortina di umbratile riservatezza del geniale William. Ma troppe variabili di rischio (per dirla in modo matematico) ci sono in gioco, perché la vita di William possa avere un lieto fine.

Basandosi su documenti originali, articoli di giornale (numerosissimi; ai suoi tempi Sidis fu una piccola star), diari e lettere dei contemporanei, il giornalista danese Morten Brask si propone di trasformare la ricostruzione della vita di un individuo straordinario nel "tentativo letterario di mettere in luce in qualche modo il destino di un uomo". Un'operazione delicatissima, che porta con sé a ogni passo il pericolo di fallire in entrambi gli intenti: riducendo il proprio personaggio a una macchietta e annacquando al tempo stesso il significato della sua esistenza in una sterile fiera delle banalità (come era successo al povero B. Traven, soffocato sotto il peso della farsesca stilizzazione messa insieme qualche anno fa da Vittorio Giacopini). Occorre grande leggerezza di mano per accostarsi a una storia come quella di William Sidis, e Brask lo fa nell'unico modo possibile: mettendo da parte se stesso, le proprie urgenze stilistiche e narrative, e lasciando che sia la storia stessa a produrre le sue conseguenze.

Nel caso di William, il suo destino risiede inesorabilmente nella personalità dei genitori: il padre Boris, psicoterapeuta di fama, consulente del Presidente Roosevelt, e ansioso di dimostrare che la pretesa straordinaria genialità del figlio altro non sia, in realtà, che il frutto di una corretta educazione alla conoscenza; e la madre Sarah, che nel piccolo Billy trova invece la chiave per poter finalmente accedere ai salotti mondani di New York, in particolare quello dei ricchissimi Isidor e Ida Straus (i proprietari di Macy's, morti nel naufragio del Titanic), e riscattare così la propria infanzia di esule e il marchio dell'immigrata. Tra il padre razionalista e anaffettivo e la madre frustrata e isterica, William si ritrova ad essere il fulcro di un tiro alla fune che lo vede continuamente strumentalizzato, messo in mostra, umiliato e oppresso, e sempre privato dell'unica cosa che serve a un bambino: l'amore, e la possibilità di crescere serenamente mettendosi in gioco da solo nel confronto con gli altri.

Nell'ossessione di convincere il mondo che William non avesse assolutamente niente di straordinario, Boris Sidis crebbe un figlio del tutto incapace di confrontarsi con la propria singolarità e di comprendere quanto fosse diverso dagli altri. Con la conseguenza che gli altri, male interpretandone i comportamenti, seppero solo umiliarlo e respingerlo: come quando, alla prima lezione di geometria ad Harvard come docente, William si presentò cona una dispensa redatta da lui stesso in greco antico, trovando semplicemente logico che la materia venisse insegnata nella lingua di Euclide, che l'aveva inventata. Per tutta risposta, gli studenti abbandonarono l'aula tra gli insulti, facendogli trovare le dispense ben impilate al gabinetto.

L'antico contrasto tra ragione e sentimento trova, nella storia di William Sidis, un nuovo, fertile terreno di coltura, arricchendosi di tutta una serie di sviluppi e problematiche: dalla responsabilità dei genitori nel formare (o distruggere) i propri figli, al genio e alla solitudine dell'unicità, dalla lotta continua in nome di un ideale di uguaglianza alla prevaricazione sul diverso, alla forza dell'amicizia e dell'amore. Il tutto tenuto insieme dalla bontà senza fine di un singolo individuo, che, non potendo più trovare la felicità, si accontenta di ricercare la pace nella fuga dal mondo: collezionando biglietti del tram, scrivendo libri sulla parentela tra i nativi americani e le popolazioni basche o sul modo di evitare gli incidenti stradali.

Vorrei vivere la vita perfetta. L'unico modo per avere la vita perfetta è viverla in solitudine.

Nel ricostruire la vita di William Sidis, Morten Brask non indulge mai a facili sentimentalismi: semplicemente racconta, tenendosi fuori dalla narrazione e non permettendo mai al proprio stile e alla propria individualità di sostituirsi ad essa. Il risultato è una narrazione piana, articolata su tre diversi livelli temporali che si susseguono passandosi la staffetta l'uno con l'altro e creando, con la loro alternanza, un senso di necessità inesorabile, in cui ad ogni scelta del passato corrisponde una ben precisa mossa sulla scacchiera nel futuro. Il destino di William Sidis, in fondo, è proprio questo: non aver potuto, in tutta la sua ineguagliata grandezza, sfuggire a se stesso.


Un libro coinvolgente, accurato, ben pensato e meglio scritto, commovente e intenso. Datemi retta, leggetelo: vi farete un bellissimo regalo.