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L'eterno, l'esilio, le montagne, il transeunte: Patrizia Dalla Rosa parla di Dino Buzzati

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Scrivere di Dino Buzzati, studiare Dino Buzzati, leggere Dino Buzzati è un’esperienza che cambia le prospettive. Si apre la pagina con delle certezze, e la si chiude con delle domande: come avvenga questo scatto non è dato saperlo. É dato, però, viverlo. La narrativa buzzatiana (ma, allo stesso modo, le poesie, il teatro, i quadri) entrano in ogni fibra del lettore, persino in quelle zone d’ombra che non si conoscono. E la consapevolezza avviene in un luogo altro dell’io, nella fessura che si apre tra il reale e il fantastico. Tanto dell’uomo è laggiù, quanto è lassù. 

Dino Buzzati, come pochissimi altri, ha la capacità di prendere il lettore per mano e accompagnarlo in un percorso sovrarazionale, ma reale, o meglio realistico. Nulla sfugge alla sua regia: ogni dettaglio, ogni respiro diventa figura e simbolo di qualcosa che non è percepibile nel terrestre, ma che può diventarlo, se ci si affida alla sua parola.  Che sia un articolo di giornale, che sia un racconto, che sia una poesia, che sia un’opera teatrale, che sia un dipinto, la pagina buzzatiana trasuda realtà e favola, in un’osmosi perfetta e concretamente fantastica. Inutile sottolineare come questa istanza sia stata, per troppo tempo, male interpretata, liquidata come semplice, se non addirittura ingenua: forse perché la linearità della forma ha tratto in inganno. Affidare a una prosa limpida, senza la minima sbavatura, istanze e tematiche che pullulano di complessità, di domande, di misteri, di ambiguità, di cose non risolte, è, forse, una delle imprese più ardue che si possa affrontare. E non è un caso che il poliedrico Buzzati, per farlo, e nel farlo, abbia cesellato modalità espressive diverse, fondendole in uno stile, il suo, irripetibile e non imitabile. Nemmeno da se stesso. 


Quando ci si pone di fronte a un’opera di Buzzati (a qualsiasi codice espressivo essa appartenga) bisogna sgomberare la mente da ogni pregiudizio, da ogni “partito preso”, e lasciare che sia la parola a parlare, a guidare in un itinerario che può anche non manifestarsi nell’immediato, ma che si lascia metabolizzare, e provoca, come un puntello, in maniera continua. Conoscere Dino Buzzati attraverso le sue opere è forse un’esperienza che ognuno dovrebbe sperimentare, pena l’aridità intellettuale. Buzzati si lascia comprendere, a ogni grado, a ogni altezza, a ogni profondità. E si lascia leggere dai critici: con ottiche distorte, ma anche con prospettive che restituiscono il portato rivoluzionario della sua arte.


Patrizia Dalla Rosa rientra nella seconda prospettiva: critica raffinata, perché in grado di ascoltare, di guardare e di leggere veramente, si è occupata delle traduzioni francesi dello scrittore di Belluno, della sua lingua, ma soprattutto dei suoi luoghi. Luoghi che Patrizia e Dino condividono. Luoghi vissuti in anni, in contesti diversi, ma pur sempre gli stessi luoghi. Luoghi che hanno parlato a entrambi. Luoghi che li hanno provocati e segnati. Luoghi che li hanno spinti a dire la propria. Luoghi che andrebbero riscoperti, non tanto per l’estetica, quanto per il loro portato, per il loro significato, per il loro perdurare in una memoria mitica e ancestrale. 

Lo scorso mercoledì 7 maggio, Patrizia Dalla Rosa ha incontrato gli studenti della Macroarea di Lettere e Filosofia della seconda Università di Roma “Tor Vergata”, all’interno del corso della Prof.ssa Cristiana Lardo, dedicato proprio allo scrittore di Belluno. Prima della conferenza, è stato possibile scambiare quattro chiacchiere, che non vengono riportate nella loro interezza perché, buzzatianamente, si è partite da una cosa e si è arrivate a parlare di tutt’altro, spaziando nel personale, nella battuta, nel gusto personale. 

Una domanda in apparenza banale: come è nato l’amore per Dino Buzzati? É una questione di “nascita” o un avvicinamento per una propensione naturale?
Patrizia Dalla Rosa: Nessuno delle due, in realtà. Io ho letto, da ragazza, Barnabo delle montagne, ma quel libro, all’epoca, mi ha solo attraversata. Buzzati è stato un caso: Nella Giannetto, studiosa siciliana, aveva intuito che si poteva creare un nesso tra l’Università IULM e Buzzati, attraverso la creazione di un archivio. Nella metà degli anni Ottanta io mi stavo laureando in francese: dopo prove fallimentari con un primo argomento di tesi, che in cui, caparbiamente avevo creduto, il Prof. Budini mi consigliò di guardarmi intorno, per trovare un campo cui dedicare il mio impegno. Scelsi la traduttologia, accorgendomi che Buzzati era molto tradotto in lingua francese.  In archivio ho cominciato a vedere le traduzioni francesi di Buzzati, portando i risultati di questo spoglio al Professore, il quale mi rispose che ero una pazza, perché per occuparmi delle traduzioni di un autore, dovevo conoscere alla perfezione la lingua di arrivo, in questo caso il francese. Io risposi che, di contro, conoscevo benissimo la lingua italiana. Mi sono, quindi, trovata a studiare cose che di lì a poco sarebbero state dette e approfondite nel Convegno «Dino Buzzati. Le lingue e la lingua»: temporalmente fui la prima, motivo per cui Nella Giannetto mi consigliò di aggiungere un’appendice legata proprio alle tematiche chiave di quel convegno. Da quel momento ho cominciato a lavorare per il Centro studi “Buzzati”. In seguito a un convegno, nel 1992, ho cominciato ad approfondire l’apparente semplicità della lingua buzzatiana, la quale, in realtà, nasconde sempre qualcosa di inaspettato. In seguito ho guardato anche al versante paesaggistico, notando come i luoghi siano simboli, come lo scrittore ponga una precisa attenzione ai colori, alle luci, e non per mera descrizione.

Secondo te, la critica ha colto la vera anima di Buzzati? O ci sono ancora zone di ombra e di incomprensione? Penso, per esempio, alla questione della ricerca di Dio, al pessimismo, al tragico, all’umorismo nero.
Patrizia Dalla Rosa: C’è stata un’incomprensione di fondo. In Italia c’era il pregiudizio del giornalista e del pittore. La lingua di Buzzati veniva snobbata come media. Dino non era religioso, non era credente di nulla, non ce la faceva: dal cattolicesimo si è spostato molto da giovane. É dannoso mettere delle etichette. C’era fascino per lo spirituale, ma non riusciva ad aderire. Si può parlare di ansia e ricerca di un altro, al massimo, ma senza passare per la religiosità. Si potrebbe dire di essere di fronte a una sorta di ansia metafisica. Si vedano i quadri con la luce in cima, ascese… 
Nei miei studi ho intuito delle cose (molto terrene): alla maniera della Ortese, ho capito che siamo parte di un cosmo, che esiste una forma di adesione anche tra gli elementi chimici della roccia. In Buzzati nulla è per sempre, mai, come, permettimi il parallelo, dice Vasco Rossi nella sua ultima canzone. Tutto scorre: nulla permane, e questo fa sì che Buzzati guardi a ciò che permane, come le montagne. E quando io le guardo, vedo che hanno sofferto per formarsi. Un francescanesimo, forse, può essere rintracciato in Buzzati: un amore per tutto ciò che è vivo, una volontà di sentire la comunanza. Ma non è religione. In Buzzati c’è un’ironia (di stampo inglese) che, però, non è stata colta: è stato scritto pochissimo, Io a volte, nel leggerlo, me la rido sotto i baffi, ma non credo si possa parlare di comico. 
Il tragico di Buzzati, se non altro nella forma, ha una matrice ironica. 
Per rispondere direttamente alla tua domanda, credo che Buzzati sia tanto una scoperta continua, quanto vittima di troppe etichette e fraintendimenti.
Cristiana Lardo: Fraintendimenti ed etichette dovute anche a una tendenza a contaminare la letteratura e la biografia.
Patrizia Dalla Rosa: Negli anni Settanta e Ottanta tutto il vissuto era censurato. Ed era sbagliato. Ma è anche sbagliato dare letture che guardino troppo al dato biografico.
Cristiana Lardo: Ogni opera risente delle porzioni di reale che lo scrittore vive e vede. Ma questo basarsi sul visto e sul vissuto non è biografismo. 

C’è un’opera di Buzzati che, secondo te, meglio si adatta al momento storico, sociale, politico che stiamo vivendo? Ovvero: qual’è l’opera “più di gomma” tra quelle di Buzzati?
Patrizia Dalla Rosa: Il libro buzzatiano che io porto nel cuore è Il Deserto dei Tartari, ma credo che I Miracoli di Val Morel siano il vero “libro di gomma”, perché hanno precorso i tempi. Tuttavia anche lì qualcuno ha travisato, pensando che Buzzati si stesse prendendo gioco della religione. Buzzati, non va dimenticato, nell’estate del 1971 sapeva di essere condannato a morte. Ho avuto la sensazione, in quel libro, di essere di fonte a un uomo che si vuole liberare. Non si dimentiche che Buzzati ha scritto una fiaba, Il segreto del Bosco vecchio, dove riesce a incanalare ogni idea, ogni provocazione, ogni istanza, perché il canale fiaba permette una maggiore libertà. Dopo i Sessanta racconti, per me, avrebbe potuto smettere di fare il narratore: dopo si libera molto dal punto di vista di scrittura. Scopre le sue metafore, le ripete tante volte. Non si è spaventato di fronte a linguaggi espressivi più disparati. Nel, per esempio, teatro ci credeva: e non è facile scrivere per il teatro. Non a caso la sua avventura teatrale è piuttosto narrativa. Serena Mazzone si è recentemente occupata dell’opera teatrale di Buzzati, studiandone i ritmi, le pause, il detto, il non detto. Anche in questo caso Buzzati ci ha provato. Ma è solo con la granitica consapevolezza della morte che arriva la libertà totale, e nascono i Miracoli, caratterizzati dal “tutto Buzzati”, a partire dal linguaggio, dall’ironia, per finire all’onomastica al limite del comico. 
Il suo quid possiede una portata talmente grande che non può essere tragico. In Kafka c’è un assurdo totale. In Buzzati no: nello scrittore di Belluno si è perso il linguaggio universale, che metteva in contatto l’uomo con la natura. Il segreto del Bosco vecchio è una piccola fiaba, che rivela tutta la sua potenza nella non comprensione da parte dell’adulto. Io in Buzzati vedo, leggo e percepisco un sentire cosmico. 

Nel corso della conferenza, Patrizia Dalla Rosa ha ripreso alcune tematiche accennate nell’intervista, ma attraverso un duplice confronto: da un lato con gli studenti, dall’altro con la pagina stessa di Buzzati, che, a parere della scrivente, è il miglior reagente, la migliore recensione al libro della studiosa, Lassù… laggiù… Il paesaggio veneto nella pagina di Dino Buzzati (Venezia, Marsilio, 2013). Solitamente le cronache, per il loro stesso statuto, sono racconti di un terzo che riporta il contenuto di una conferenza. Per una scelta personale della scrivente, invece, si riporta la viva voce di Patrizia Dalla Rosa, perché si reputa che l’emozione, la scientificità, la passione che sono emerse nelle due ore dell’intervento meritino non una sterile cronaca, ma un’auto-cronaca, con tutto il suo portato, con tutti i suoi spunti, con tutta la sua grandezza, con tutta la sua bellezza, e, perché no, con tutte le sue deviazioni e tangenze. 

Mi era stato regalato un catalogo di una mostra che prendeva in considerazione i Miracoli di Val MorelIo avevo letto Bàrnabo delle montagne, ma non mi aveva colpito: in quel catalogo, invece, mi aveva colpito una parola, un aggettivo, «strano», che mi avrebbe accompagnato in ogni mia avventura buzzatiana. Io guardavo i suoi quadri, da quelli del Buzzati giovane a quelli del vecchio, e dicevo «strano»: un cumulo che sta per esplodere, omini strani, atmosfere strane, alla De Chirico. Una cosa strana incuriosisce e sollecita. Io sono bellunese, e certi paesaggi non sono strani per me. Mi sono sempre chiesta: “come fa un lettore medio italiano che si vuole avvicinare a Buzzati a  comprenderne l’opera? Si pensi alle sue prime tre opere: Bàrnabo delle montagne (Bàrnabo non ha un cognome, ma si qualifica semplicemente come “delle montagne”. Ed è curioso come la critica francese chiami Buzzati “delle dolomiti”); Il segreto del Bosco vecchio; Il deserto dei Tartari. In tutti e tre i titoli il paesaggio è sempre presente. 

Non c’è niente di più strano e lontano del mitico popolo dei Tartari. All’epoca, nel ’39, il deserto era un prolungamento dell’Italia. Buzzati provava una forte attrazione, alla Gozzano, per l’Oriente, identificato con ciò che è fermo nel tempo. Primi tre libri, tre paesaggi. Il paesaggio è protagonista. Quanto peso ha il paesaggio in Buzzati? Buzzati è nato a San Pellegrino, alle porte di Belluno, ma poi è stato milanese per adozione. Era figlio di una madre venezianissima, mentre il papà era nato a Venezia (da madre vicentina e da padre bellunese). La famiglia Buzzati verrebbe da Budapest, come si evince da uno studio approfondito del cognome: Buzzati, nella variante Buzzatti, deriverebbe da “abitante di Buda”. Il ramo di Buzzati (Dino) era composto da professionisti. Dal fratello della mamma ha ereditato la passione per la letteratura. 

La montagna di Buzzati non è quella abitata e antropizzata. Giuseppe Mazzotti scrive: “E chi conosce l’alta montagna? Quella al di sopra delle terre abitate? Il deserto di alta quota?”. Ci si trova di fronte a delle pietraie (sono state fatte riprese straordinarie: rocce che emergono dal mare, creando un paesaggio stranissimo).  Sono paesaggi in cui tutto è immoto, molto immobile, ma chi guarda ha la sensazione che sta per succedere qualcosa di misterioso. L’osservatore vive in costante allerta. 

Devo esplicitare alcuni punti per capire Buzzati: il primo è che l’immaginario del suo universo è nato nel bellunese; Buzzati non sarebbe tale se non fosse nato là; il secondo è che grazie a o a causa di questi elementi paesaggistici è inteso, compreso, letto, fatto proprio, apprezzato dal lettore universale. Tratta sicuramente temi universali, ma l’italiano medio non è messo nelle condizioni di comprendere Buzzati di più di un lettore di altri paesi del mondo. Il lettore italiano è avvantaggiato su alcune ambientazioni, più giornalistiche. 

Il titolo del mio libro cerca di seguire Buzzati nel suo immaginario: da noi c’è una forma mentale per cui si pensa in termini di «lassù, laggiù». Per una valle entra in gioco il concetto di dentro. É una sorta di microcosmo. Idealmente io mi sono sempre rivolta al lettore ventenne napoletano. 

Mi sono trovata a parlare di Buzzati a Seul e gli studenti mi hanno chiesto di proiettare Il deserto dei Tartari di Zurlini del 1966. Gli studenti coreani hanno visto queste due ore di film, in cui non accade nulla, e alla fine mi hanno chiesto di rivederlo. I coreani hanno il confine con i territori del nord che è una delle zone più terribili, perché la barriera è invalicabile. Hanno il mito della frontiera del nord, più di quello identificato da Zanzotto, il quale ha individuato in Buzzati il mito della frontiera (le Alpi sono una barriera da sempre, siamo stati percorsi da popoli disparati). Il mito dell’alpino per noi esiste ancora, che può far sorridere, ma che è molto antico. É il mito della frontiera da salvare. La geografia crea delle forme mentali molto difficili da scalfire. Quasimodo non sarebbe stato tale se non fosse nato in Sicilia. Il paesaggio in Buzzati è fondamentale. 



Mi piacerebbe che i lettori capissero che, laddove ci sono paesaggi, non si è di fronte a mere descrizioni, o quadretti. Sono amplificatori di significato. La lingua di Buzzati è ipersemantica, pur essendo molto semplice (si pensi alle frasi nominali di Bàrnabo, la cui lingua è molto filmica e mai più replicata). Buzzati è molto tradotto, in circa trentadue lingue. É uno degli scrittori italiani più tradotto, sia per l’uso del racconto breve, sia per una lingua in apparenza semplice. Sfugge che ci sono dei quid di significato che in apparenza non si colgono, ma il lettore allertato può coglierli: si pensi all’aggettivazione di colore (mutare di paesaggi e di luce. Per esempio il giallo, il giallastro, deriva dal colore delle rocce dolomitiche: dove è giallastro ha infiltrazioni, la roccia è marcia). Come guardava il paesaggio? 

Io da bambina mi trovavo di fronte una barriera di montagne. Chi nasce in una valle può patire la claustrofobia. Il paesaggio amplifica il senso dell’attesa, del mistero. Si è costretti a immaginare cosa c’è oltre. Come fai a non chiederti cosa c’è oltre se davanti hai una barriera? 

«La mia Belluno» è uno scritto giornalistico di Buzzati, il quale fa quello che ha sempre fatto, quello che fa Drogo nel Deserto, e quello che lui chiede ai suoi lettori. Parte da ciò che è vicino e noto nel modo di guardare il mondo. Poi si allontana, nello sguardo (valli, strade). Poi innalza lo sguardo (il mistero, le nuvole). Infine si astrae dal tempo. Descrive la sua Belluno partendo dal vicino e dal noto e man mano si allontana. 

L’incipit del Deserto vede un uomo che lascia un mondo noto, tangibile, normale, quotidiano e man mano che si allontana costringe il lettore a chiedersi se siamo in un ambiente normale, o siamo già nel fantastico (esito perché non so in che luogo mi trovo). Buzzati così guarda il mondo, così Drogo si è allontanato. E io ho fatto allo stesso modo: ho ricercato il paesaggio come è entrato nella pagina buzzatiana. Ho riconosciuto, partendo dalla Villa, una ventina di racconti in cui entra solo la Villa, microcosmo natio, in cui trascorre tutte le estati. Nell’infanzia il tempo è dilatato, perché non c’è la percezione del tempo. Si è fuori dell’ordine temporale (si ha sempre un ricordo piacevole). L’infanzia è un tempo stupendo, perché libero dal peso della temporalità. 



A me piace più il Buzzati che rimane sospeso. Vi invito a immaginare il tempo dilatato e le sue lunghissime estati. Nella villa Buzzati trovò una siepe, prima barriera nel giardino. Da adulto disse che continuava a percorrere il giardino, vedendo a nord la prima barriera di montagne, altro mondo fondamentale per capire Buzzati. Il mondo della verticalità, composto da elementi che parlano: come il sottile crollo di ghiaia e roccette (coni di ghiaia come clessidre che si sfaldano giorno dopo giorno). La prima parete visibile è quella dello Schiara. Un mondo che è anche sonoro, ma i cui suoni sono lievi. Il Deserto è pieno della parola stillicidio. Il lettore è allertato del tempo che passa: il suono è segnale di un passaggio brusco dal positivo al negativo. 

Mi sono trovata a dire che la clessidra va bene, ma che allo stesso modo è importante anche lo gnomone che fa filtrare la luce del sole in modo brusco.

Buzzati ha fatto un distinguo tra le Predolomiti, le Dolomiti e le Grandi Dolomiti, servendosene a livello metaforico in modo diverso. 

Quello che un italiano medio non può sapere è che nella Val belluna (media Valle del Piave) vi sono dei paesaggi incredibili da immaginare. Paesaggi talmente orridi, quanto romantici: non sono belle esteticamente, ma sono monumenti della natura. La cosa strana di Buzzati è che il reale non esclude il fantastico, sono inseparabili. Il suo modo di vedere le montagne e di ritradurle in un significato altro è suo proprio. Da noi le crode sembrano spuntare dai prati. Le pareti sono come le illustrazioni. In Buzzati questo mondo è mondo e sopra-mondo. La Val belluna e i suoi dintorni non sono belli, ma Buzzati se ne serve per il loro senso di mistero: possiedono meandri, luoghi veramente abbandonati da Dio. 

Il parco Nazionale delle Dolomiti bellunesi ha salvaguardato un’area per miracolo, prima che un certo tipo di turismo andasse a toccare uno spazio prima mai frequentato. Val Morel, per esempio, è una località strana: si è fuori dal mondo. Si sente lo stridio del silenzio. Non c’è nulla. 

Nel 1914 Buzzati aveva otto anni, giocava con i figli dei contadini agli indiani. In questo habitat intuisce il senso del deserto (si pensi a Temporale sul fiume). Nel paesaggio del fiume Piave vede il senso del deserto. Il Piave era un signor fiume, ora è ridotto. Mi immagino questo bambino piccolo che vedeva questo luogo incommensurabilmente grande (racconto di Buzzati Il giardino in cui dice che per percorrerlo gli ci volevano giorni e giorni; da adulto ci mette pochi minuti. Lo sguardo muta con l’età). Questo paesaggio ha avuto una forte influenza in un affresco presente nella sala da pranzo di villa Buzzati. Questo affresco doveva avere una certa importanza: la pronipote mi ha concesso di vederlo. É un quadro enorme, due metri per un metro e mezzo circa, che Buzzati aveva davanti sempre. Rappresenta un paesaggio trasversale che ricorre in tantissime opere, persino nel Poema a Fumetti: quinte di montagne che precludono la vista, una landa assolata, un paesaggio immobile, un canneto. All’epoca c’erano così pochi stimoli di immagini, le quali, una volta acquisite, entravano così lentamente nella testa che vi rimanevano. 

Ne Il deserto dei Tartari c’è un canneto, per esempio. Nella stessa opera c’è un passaggio riconosciuto: «dove mai Drogo aveva già visto quel mondo […] gli pareva di riconoscerle certe montagne». Sono gli stessi elementi che Buzzati poteva vedere nell’affresco della sala da pranzo. 

I paesaggi percorsi da sempre dall’uomo permettono a Buzzati di tornare indietro nel tempo (non alla Gozzano, però). Il momento di Buzzati è più “alla Pessoa” (mi vedo mentre mi guardo). Sono piccole illuminazioni, in cui potendo tornare indietro nel tempo, si attiva un atteggiamento che non è mera nostalgia, piuttosto la possibilità di tornare al tempo dilatato dell’infanzia, con un mondo spalancato all’immenso (in cui si immagina l’oltre). É un sentire quello che da adulto ritroverà in Africa. Tornare all’infanzia, momento in cui il mondo è infinito, non è infantilismo. 

Buzzati subisce anche il fascino per paesaggi battuti dall’uomo, nei quali riflette il suo dolore per la dicotomia tra il dovere (lavoro al «Corriere della Sera») e le sue domande archetipiche (non ha mai preso distanza dal bambino; sente che l’universo è molto più immenso, presenta qualcosa che pre-esiste). Buzzati crede nel mistero: si scaglia contro l’uomo che vive “come se…”. 

Ci sono altri due paesaggi che lo astraggono dal mondo e dal tempo, perché ancestrali (privati dall’uomo): il deserto di alta quota e le foreste, simboli di un mondo larvale e incontaminato, che esiste. Lo scrittore ha un fortissimo bisogno di ignoto, che equivale al bisogno di poesia, non sempre inconsapevole. Non siamo del tutto consapevoli del bisogno di poesia che si ha (poetico educato, nel senso di education). Il bisogno di ignoto è uno dei problemi del mondo contemporaneo: si ricerca il vero contatto con l’ignoto. 

Il Nord per Buzzati indica sempre il mistero, la terra in cui l’avventura può succedere, e corrisponde anche all’atteggiamento dell’alpinista. Per l’idea di Nord si confronti anche il libro (e il film) Into the wilde, dove l’Alaska è la terra di nessuno, dove ci si può perdere, dove si scommette anche la vita. Si rischia la vita, ma anche il ritrovamento di parti di noi. La nostra vita è troppo regolata, troppo quotidiana e questa cosa uccide l’essere umano. 

Se si va nei luoghi vissuti e raccontati da Buzzati si capisce come può far paura, perché funziona la memoria ancestrale. Il buio ci fa ancora paura, pur non essendo qualcosa di oggettivo. Buzzati ha scritto Bàrnabo girando con un taccuino, forse registrando anche i suoni della foresta, la quale è stata salvaguardata, nel bellunese, dalla Serenissima. La foresta vergine e alta montagna gli hanno permesso l’astrazione dal tempo. La foresta preclude la vista del cielo: i boschi di conifere sono neri. Se passa una nuvola sopra, il colore verde scuro delle conifere diventa nero. Tutto vola via: ecco l’insistenza per le nuvole. Tutto scorre, maledettamente. C’è un permanere di qualcosa, che intuisce da bambino. Io credo che ci sia, per lo meno a livello chimico, qualcosa che sopravvive al tempo. 

Quando Buzzati va in Africa, conosce gli unici momenti di felicità della sua vita, perché può tornare a vedere l’infinito spalancato (si confronti Un uomo in Africa, in cui il tempo passava e non faceva male, perché tutto è fermo e rallentato). Lo scrittore percepisce la sensazione inquietante di essere in una zona non salva, ma che lo mette a contatto col sentire primo. 

Con questa forma mentale, nata dall’aver frequentato e introiettato questi paesaggi, Buzzati rimarrà sempre fedele alla sua memoria ancestrale. La lontananza serve a idealizzare: aveva fotografie delle Dolomiti in tasca, erano una parte di sé, il tempo interiore dolomitico di cui parlava Zanzotto. 

Quando comincia ad andare in giro per il «Corriere», va in Veneto per varie occasioni. I Misteri d’Italia partono dal Veneto, perché per lui l’Italia comincia da lì. Cerca ragioni di bellezza. Si pensi alla poesia Tre colpi alla porta: per chi è abituato a stare in una valle, l’aprirsi alla pianura crea uno spaesamento, perché mancano i riferimenti noti. Nella poesia c’è la stazione di Monte Belluna, rappresentata alle tre del pomeriggio di agosto: tutto è stasi, morte. Nelle cronache del Giro d’Italia, Buzzati descrive la discesa nella tappa Bolzano-Verona: Bolzano è distante in termini culturali. Si parla il tedesco insieme all’italiano. Verona è invece venetissima. Nel descrivere la tappa in discesa, Buzzati parla di montanaro. Da una zona verde va giù verso l’appiattimento totale. É una cronaca, eppure, in modo inconsapevole, infila elementi del paesaggio forti, i quali dicono molto su come vedeva. 

C’è un’insistita volontà da parte di Buzzati di salvaguardare uno spazio mitico. Venezia è la città della madre: è la città dell’anima, è la quinta-essenza di Buzzati, labirinto, in cui ci si perde, molto  tendente all’Oriente. Una città che non può essere colta con lo sguardo. Quando va a Milano sceglie, non a caso, un’abitazione sui Navigli. 


Un discorso a parte merita il Vajont. Nel mio libro, parlo da Italiana, non da bellunese. Io non ricordo nulla, ero piccolissima. Però Buzzati, per il «Corriere», ha scritto una grande boiata (Natura crudele). Il più grande giornalista italiano non può titolare un articolo «Natura crudele» (dato anche quello che aveva scritto prima). Stavo scrivendo un libro sul paesaggio veneto, e un pezzo di paesaggio veneto se ne è andato per colpa dell’uomo: questa cosa mi provocava imbarazzo. Per di più il libro, per la proroga, è uscito nel 2013. 

Poi c’è stata un’illuminazione, che mi ha permesso di leggere la posizione di Buzzati rispetto al Vajont in maniera diversa: chi avrà modo di guardare, studiare o anche solo sfogliare il mio libro, si troverà a fare i conti con una sezione volta a rintracciare i parallelismi tra alcune situazioni presenti ne Il grande ritratto, un articolo del 1959 di Buzzati, dal titolo «La Diga», e l’atteggiamento nei confronti della tragedia del Vajont. 

Ne Il grande ritratto il giornalista Buzzati è trasposto, così come l’ingegnere della diga. Coincidono il tempo atmosferico (tutte le descrizioni significano qualcosa), il paesaggio, e tante altre cose (come i fruscii della macchina). Nell’articolo usa tantissime metafore per descrivere la diga, ma parla anche di mostruosità. Ho trovato dei parallelismi tra questo articolo e Il grande ritratto e la cosa interessante, quasi certa, è che Buzzati abbia sentito il bisogno di riscrivere un episodio che era stato costretto a commentare dal punto di vista lavorativo.

Io credevo che il Grande Ritratto rispondesse al concorso sul tema della donna, però è anche vero che, rileggendo il volume di Panafieu, il concorso è successivo. Se il 30 settembre del 1960 esce Il grande ritratto, è sicuro che il libro possa essere definito una sorta di “riscatto velato”. Come giornalista, Buzzati è stato tanto balbettante, quanto strepitoso. La sua commistione di giornalismo e letteratura è stupenda. Giovanna Ioli diceva che ne Il grande ritratto c’è qualcosa di strano: si è scagliato contro l’uomo che crede di dominare la natura, tematica sempre una costante. É struggente vedere come si è contro-ribattuto. L’Alpe sfidata si difende».

Leggere prima il testo, poi la critica, e poi rileggere il testo permette allo studente, allo studioso, a chiunque affronti de visu un autore, con la serietà e la forma mentis scevra di pregiudizi, di interagire sia con il testo sia con la critica. Patrizia Dalla Rosa ha provocato, in maniera diversa, su tematiche diverse, su istanze diverse, tutti: un tramite, forse, perché il vero provocatore è Dino Buzzati, miniera infinita. Gli studenti e gli studiosi, dilatando il tempo della lezione (“alla Buzzati”), hanno voluto porgere il proprio omaggio alla studiosa di Feltre , con domande e richiesta di approfondimenti.  

Flavio Marcello Troiso (studente di Scienze della Comunicazione, laureando in Letteratura Italiana con una tesi sul fantastico in Dino Buzzati): «La montagna è presente, ne Il grande ritratto, come luogo angusto, ma, in seguito, il personaggio vi trova la pace. Tuttavia su questo romanzo ho notata che è esaltata la meraviglia della costruzione umana. Buzzati è combattuto, o è un progressivo ritorno dalle nuvole alle ville?
Patrizia Dalla Rosa: «Se osservi, nel romanzo, la macchina è chiamata “mostro”».
Maddalena Crovella (laureanda in Letteratura Italiana con una tesi sulla presenza femminile nell’opera di Buzzati): «C’è una connessione tra la ricerca di eternità nel paesaggio e la ricerca di eternità nella donna?»
Patrizia Dalla Rosa: «Potrebbe essere». 

Forse in Buzzati qualcosa sopravvive: c’è qualcosa di immoto che sfida il tempo, che si cristallizza in un flusso temporale eterno. Questo qualcosa è il mistero. Si pensi alla tavola finale di Poema a fumetti, dove «gli ultimi re delle favole» si incamminano verso «l’esilio». La favola non muore, va in esilio, dove può sopravvivere. E, non a caso, questi re hanno la forma di montagne scarnificate, ridotte all’essenziale. Come se quello che c’è dentro la montagna non potesse essere toccato da nulla, nemmeno da quella clessidra del tempo che sgretola il superficiale, ma non può intaccare e infiltrare la radice pulsante dell’anima. Il mito, il mistero, la favola, i re sopravvivono al tempo stesso: non possono morire. La loro eternità di presente è la scrittura. É la penna. 

Ilaria Batassa