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#CriticaNera - L'ora blu di Simenon

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La camera azzurra
di G. Simenon
Adelphi, 2008

Traduzione di M. Di Leo
pp. 160
€ 10


Vi è un momento della giornata noto in fotografia come l’ora blu: nei trenta minuti che precedono e seguono il calare del sole, o il suo nascere, la luce cambia e i colori da rossastri e aranciati assumono i toni del blu e dell’azzurro, rendendo lo spazio diffusamente plastico, contrastato. È in quell’ora di una sera di agosto che Tony, protagonista del romanzo di Georges Simenon La camera azzurra, osserva la sua amante Andrée dopo l’amplesso «con gli occhi socchiusi, incantato dalla luce che li avvolgeva». Nella stanza azzurra dell’Hotel des Voyageurs l’uomo e la donna sono nudi, lui in piedi davanti a uno specchio, lei stesa sul letto, provocatoriamente «con le gambe divaricate e la macchia scura del sesso da cui colava un filo di sperma». L’immagine oscena della donna e il brevissimo dialogo che accompagna quel loro ultimo incontro ritorneranno ossessivamente nei ricordi di Tony: pungolato dalle domande del giudice Mani, la scena verrà rivissuta dall’uomo da ogni possibile angolazione, con sfumature sempre più visionarie e enigmatiche. E negli interstizi rimasti liberi, Simenon costruisce una narrazione giocata sulla tessitura di diversi piani temporali: la vita di tutti i giorni di Tony, sposato con Gisèle – una donna apparentemente fragile e pallida, ma amante dei sapori decisi, come quello della cipolla cruda o della composta di prugne – e padre della piccola Marianne; la morte sospetta di Nicolas, marito di Andrée, malato di schizofrenia; gli incontri clandestini dei due amanti il giovedì; l’infanzia del protagonista; le inquietanti lettere che Andrée gli invia in seguito alla loro rottura. La sovrapposizione dei diversi ricordi e dell’ora azzurra porteranno il lettore a conoscere le conseguenze criminali generate da un’incontenibile passione.

Le tinte sono dunque sempre fosche, come altrove nello scrittore belga, ma stavolta l’indagine è condotta non dal punto di vista dell’indagatore, bensì da quello dell’indagato. È lo spazio, mentale e non, di Tony a interessare Simenon. Non a caso, il titolo del libro richiama un luogo fisico, tangibile, e sempre non a caso in chiusura al romanzo viene riportata la data di fine stesura – 25 giugno 1963 – e il luogo dove l’opera è stata composta: «Noland», la terra che non c’è, il non-luogo: da esperienza corporale e di viscere, la camera diventa ricordo, da luogo della libertà e dell’evasione, si fa spazio interiore e infine prigione perpetua.
I colpevoli vengono puniti, l’ordine sociale turbato dal delitto ristabilito. Ma come ben sa il Maigret de La ragazza di provincia il «Tutto si accomoda» è solo un’illusione e non permette di comprendere la complessità delle passioni umane, che rimangono inafferrabili. Come inafferrabile rimane questo romanzo, ambiguo e magnetico, inesplicabilmente comprensibile, ma sfuggente.
In arte e nella vita la parola “Bellezza” dovrebbe essere usata raramente, e con parsimonia. E alla stanza dell’Hotel des Voyageurs essa appartiene senza alcun dubbio.


Laura Dore