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#IlSalotto: Quando la musica incontra la scrittura: intervista con Mattia Barro de L'orso

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L'orso è un paesaggio. L'orso è quel paesaggio che attraversi in bicicletta quando dal paese ti dirigi verso la città. L'orso è la storia di quattro ragazzi cresciuti tra Ivrea e Messina, Milano e Treviso, riuniti sotto il cielo della Grande Città; il racconto dei loro vissuti che si incontrano nel precariato di un presente condiviso.
 Così, con un linguaggio semplice ed estremamente evocativo, L'orso, giovane gruppo della scena indipendente italiana, si presenta dalla propria pagina su bandcamp.com. Con tre Ep pubblicati tra il 2011 e il 2012 - L'adolescente, La provincia, La Domenica- e il primo album in uscita per Garrincha Dischi a breve (il 2 Aprile, data da segnare in agenda) questi ragazzi hanno tanto da raccontare a chi li ascolta e vale davvero la pena di prendersi un po' di tempo per starli a sentire.
Per conoscere meglio il loro mondo, quello che descrivono nei testi delle canzoni, noi di CriticaLetteraria abbiamo fatto una chiacchierata con Mattia Barro, autore dei brani, voce e chitarra della band.


Cosa ti ha spinto a scrivere e quando hai iniziato?
Scrivo da sempre. Alle medie scrivevo dei rap, senza musica; sapevo solo che dovevo scriverli così, tante parole e in rima. Una deformazione che mi è rimasta per questi primi dieci anni di carta e penna. Ho avuto un’adolescenza di composizione rap, a cui devo tantissimo in tema di pura scrittura. Mi ha insegnato ad amare l’italiano più di ogni altro suono e più di ogni altro segno.
Il motivo che mi ha spinto ad iniziare lo ignoro, ne ho sempre e solo sentito l’urgenza. Per questo, in passato, sono caduto in vuoti profondi per alcuni periodi, proprio perché, essendo una forza istintuale, non ero in grado di gestirmi. Per anni ho scritto tutti i giorni, per altri solo in sporadiche occasioni. Ora sto trovando una certa dimensione temporale, una giusta frequenza che mi fa convivere pacificamente con questo demone.
 Dove trovi l’ispirazione per comporre i tuoi testi? Quanta mediazione c’è tra la prima versione della canzone e quella finale che noi ascoltiamo?
Trovo ispirazione in tutto ciò che mi stimola, in particolare gli avvenimenti della vita che mi circonda. Unisco l’autobiografia alla tenacia del biografo, non parlo sempre di me anche se l’utilizzo della prima persona mi è rimasto appiccicato dalla lettura di Ellis (Meno di zero e Le regole dell’attrazione). Penso che un io sia sempre più efficace per veicolare il messaggio.
Per quanto riguarda le canzoni, dalla prima stesura al brano su disco troviamo solo dei piccoli accorgimenti. Qualche parola viene sacrificata per la scorrevolezza, ma difficilmente viene ribaltato un verso nella sua interezza. Cerco da sempre di mantenere l’efficacia dell’impatto, anche se, precedentemente alla stesura, c’è un grande lavoro di elaborazione anche solo a livello mentale: certe frasi prendono un’embrionica vita mesi precedenti ai brani in cui si ritroveranno.
 Nel secondo degli Ep pubblicati, La Provincia, è contenuto un brano dal titolo E Goethe. Quali sono i tuoi scrittori di riferimento e quanto hanno influenzato il tuo modo di scrivere?
Come ho scritto, in adolescenza Ellis mi ribaltò. In maniera altrettanto efficace, ma con meno ardore, Bukowski e Palahniuk. Crescendo, mi sono marchiato di Hesse e Goethe, di Calvino e Flaubert, dei romantici russi e dei contemporanei americani. Ora, in estremo ritardo, i miei padri sono Fitzgerald; e Carver.
Avrei voluto intitolare il disco, o almeno una traccia, La vita agra citando Bianciardi, o L’educazione sentimentale alla Flaubert. In pratica, ‘articolo – nome – aggettivo’ mi dà un’idea di linearità assoluta. Credo che in futuro li riproporrò.
Tra i libri che hai letto nell’ultimo anno, ce n’è uno in particolare che vorresti consigliare ai nostri lettori?
Il crollo di Fitzgerald, edito da Adelphi.
E’ la voce della mia ultima rivoluzione personale.
A livello tecnico, cosa cambia nell’approccio alla scrittura quando si compone una canzone piuttosto che un racconto (o una poesia)?
Molti dei miei lavori nascono dalla prosa e l’operazione che devo compiere è ricontestualizzazione strutturale e metrica. Ho sempre avuto una scrittura ritmata, quindi il lavoro mi risulta meno difficile del previsto; è prettamente logico e mi dà l’occasione di rileggermi e migliorarmi.
Come descriveresti il legame che si crea tra la musica e le parole? Pensi che si possa parlare di prevalenza di una componente sull’altra o immagini questo rapporto come un’unione dinamica, in cui i due elementi si esaltano a vicenda?
Questo è proprio il percorso che sto intraprendendo da qualche anno. Il passaggio dalla totale preponderanza della scrittura ad un onesto sbilanciamento verso di essa. Parto dell’estremo, dal rap, dalla scrittura ritmica, e voglio arrivare ad un melodicità deviata, spronata comunque dal mio istinto verso l’overdose lessicale. La musica sta guadagnando sempre più valenza a livello tecnico e esperienziale, più affronto la melodia e più mi affascina nella sua esoticità (per altri probabilmente è pura e calorosa semplicità), ma diciamo che vorrei migliorare molto la mia capacità di scrittura musicale in tema melodico e tonale. Il mio sogno rimane poter orchestrare come Beirut o Sufjan Stevens, ma la mia realtà e voler creare le vivaci composizioni dei Belle and Sebastian. Aggiungici l’efficacia linguistica degli Uomini Di Mare e capisci la complessità del mio obiettivo musico-lessicale.
A livello di contenuti, i tre Ep pubblicati sono tutti collegati tra di loro. Vuoi raccontare ai lettori di Critica Letteraria il percorso tematico che avete voluto affrontare?
Abbiamo voluto raccontare una storia, un piccolo racconto in tre parti, sul tema del passaggio dalla giovinezza all’età adulta. Non siamo partiti con questa idea, si è creata passaggio dopo passaggio. Siamo rimasti sorpresi di come la regolare crescita di noi, come persone, abbia condizionato il lavoro musicale, ci rende felici e consapevoli che sarà un continuo evolversi.
I tre EP, inoltre, rispondono alle domande, chi?, dove?, quando?.
Come una fiaba, abbiamo lasciato all’ascoltatore i tratti essenziali su cui adagiare il proprio racconto.
Cosa cambia rispetto agli Ep nel disco? Il percorso iniziato con L’adolescente prosegue o ne inizia uno nuovo?
Il disco è una naturale conseguenza di questo percorso. Quel racconto è terminato, anche se è raccolto in un certo numero di brani. E’ tempo di intraprendere questo passaggio dall’innamoramento all’amore, dalla  post-adolescenza alla prima maturità. Non abbiamo fretta. Questo disco è fondamentale per sapere chi siamo, cosa abbiamo fatto, cosa stiamo facendo e dove vogliamo andare. Risponde a molte domande su L’orso e per questo non c’era bisogno di un titolo, ma solo di una magnifica illustrazione di Giordano Poloni che, a mio parere, racconta proprio di questo percorso verso una nuova fase più consapevole. Questo disco è un divenire, è un contenitore di passato, presente e futuro.
L’orso è anche autore di una bellissima cover di Nantes, del gruppo statunitense Beirut. Quali difficoltà ci sono state (se ce ne sono state) durante la traduzione dall’inglese e come mai avete preferito creare una versione italiana?
La cover di Nantes è il primo materiale ufficiale che abbiamo pubblicato: un piccolo video in cui mostriamo la nostra voce musicale e i nostri colori. La scelta di una cover, tradotta in italiano, deriva proprio dal desiderio di riappropriarsi della lingua, di aver la libertà di esprimersi con un linguaggio magnifico come il nostro. Nantes è stata la prima prova che ci siamo preposti di affrontare, volevamo solo ribadire che una bellissima melodia è comunque il nucleo su cui una canzone si regge.
Tra tutte le canzoni de L’orso qual è quella a cui sei più affezionato (o quella con la storia più particolare) e perché?
Sicuramente Tornado a casa, contenuta ne La domenica. E’ dedicata a mio nonno, la scrissi il giorno che mancò. Penso – nel mio piccolo – che gli sarebbe piaciuta. Soprattutto la citazione di Tuttosport, puro omaggio alle sue mattine paesane.
Che significato ha per te la parola cantautore?
Se ci atteniamo all’etimologia propria, penso che possa anche riferirsi a me. Ma le parole acquistano significato con la storia in cui si evolvono e, in questo caso, il cantautore è un concetto molto lontano dal mio essere. Nonostante molti miei coetanei trovino una certa semplicità nel definirsi tali, io non me ne sento parte; il cantautore ha una differente spinta prima e un obiettivo alto, sociale. Probabilmente non ne sono pronto o non è il percorso che sto intraprendendo, ma preferisco utilizzare il semplice termine autore. In questo contesto storico, lo reputo più onesto.
Arrivo alla musica partendo dal rap italiano, quindi il mio approccio alla scrittura ha radici completamente differenti.
Chi è oggi, in Italia, un bravo cantautore?
Quello che non ha la smania di definirsi tale, di insegnare all’ascoltatore a tutti i costi, di sentirsi l’Io sopra agli altri. Quello che si mostra come persona e non come personaggio. Non saprei fare dei nomi, più per ignoranza sul settore che per reale mancanza territoriale.
A livello puramente di scrittura, direi Niccolò de I Cani, l’unico in questo ultimo periodo a raccontarmi qualcosa con una facilità disarmante. Può essere criticabile l’argomento trattato (ma non è il tema a dar valore ad una scrittura in sé, sicuramente), ma la semplicità chirurgica del suo parlato è invidiabile.  Per quanto riguarda la musica alternativa italiana, auguro a me e a L'orso il percorso dei Perturbazione (orgoglio piemontese!). Una scrittura capace di essere alta e popolare nello stesso frammento temporale, una capacità di scrittura musicale (ribaltando il concetto) sempre estremamente stimolante.
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Al termine dell'intervista Mattia ha commentato per noi alcuni estratti di brani presi dagli Ep e dal nuovo disco, di cui CriticaLetteraria ha potuto leggere i testi in anteprima.


da L’adolescente: Acne giovanile
La polvere sui dischi, sui libri, su noi
Sui mobili Ikea composti e decomposti
Come noi, come noi
‘Acne giovanile’ è un brano giocato sull’ironia verso la figura dei ventenni, della prima vita da studente fuori dalla propria città natale. L’utilizzo di immagini-clichè quali libri, dischi, mobili Ikea esprime proprio questo approccio naif alla crescita: nelle case degli studenti trovi libri, dischi, mobili Ikea,  ma difficilmente trovi pentole, piatti, carta igienica.
Ho sempre trovato molto ironica questa incapacità istintiva nell’autogestione domestica.


da La provincia: Avere Ventanni
Di cosa vuoi che ti parli che ho poco più di vent’anni?
Se alle crisi mondiali preferisco i tuoi sguardi
Se ho appena iniziato la mia carriera da precario
E non avrò mai te o la mia amata pensione
Qui il primo verso è una chiamata al realismo di chi pretende che da un ventenne, come me al momento di quella scrittura, arrivi chissà quale illuminante nuova verità: dalla critica musicale italiana, al pubblico. Abbiamo sempre parlato d’innamoramento e non d’amore, proprio per attenerci a ciò che conosciamo della vita, troverei falso innalzarci a trattare temi per il solo fine estetico del gesto, come spesso in Italia accade. Preferisco i piccoli passi dell’ingenuità.
In conclusione, come tutto il brano, si scherza sulle difficoltà di inserimento nel mondo del lavoro, paragonandole alle difficoltà delle relazioni. In fondo uno stage non è molto differente dalle relazioni post-adolescenziali, quelle in cui ti illudi di aver raggiunto l’estrema maturità e poi ti ritrovi con una referenza in più nel curriculum sentimentale.
Avere Ventanni è volutamente scritto in questo modo per citazionismo.

da La provincia: Invitami per un tè
Accordami i polsi che è da un po’ che non scrivo più
Comunicare è diventato impossibile
Con tutte le lettere che ho lasciato a marcire nel Mac
Intasandomi Gmail
Sono molto legato alle immagini tecnologiche della mia generazione (Mac, Gmail, Skype) poiché credo sdrammatizzino il tono aulico dell’innamoramento. Dopo i primi due versi tipici della canzone d’amore, infatti, il tema epistolare è trattato in maniera contemporanea sia nei termini tecnologici che nei verbi di estrazione contemporanea quali ‘marcire’ e ‘intasare’. E’ un registro linguistico ossimorico su cui faccio spesso affidamento.

da La Domenica: L’astronauta
          Io non potrò avere una vita come Armstrong
          Fingere per sempre di esser stato così in alto
          Mentire al mio amore su dov’è che sono andato
    Mentire a me stesso su qual è stato il risultato
Qui invece il tema delle relazioni e del ‘tradimento’ è visto attraverso la similitudine degli astronauti e cosmonauti. In questo particolare passaggio, ipotizzo la convivenza dell’idolatrato Armstrong con la menzogna per aver tradito l’umanità (sono sostenitore della teoria che l’allunaggio non sia mai avvenuto). Il testo nasce da una discussione casuale (avuta durante una mia relazione) in cui avevo utilizzato la stessa similitudine: è stato un traslare l’orale allo scritto (per tornare infine all’oralità del cantato).

da L’orso: Il tempo passa per noi
E tu parli solamente per dirmi
Che sarebbe stato meglio conoscerci
Tra almeno quattro anni,
Quando l’università è finita e la tesi è scritta
E tutto è in discesa e non in salita
Come la ricerca di una paga fissa.

E ti parlo solamente per dirti
Che sarebbe stato meglio non conoscersi
In una qualsiasi circostanza.
Non c’è costanza nell’amore e i costi di una stanza a ore sono alti,
Nonostante i contanti contati
Come i rimborsi spesa dei nostri contratti.
Questi due passaggi raccontano una delle affermazioni più ingenue dell’uomo, il ‘forse è solo il momento ad essere sbagliato’. Il pensare che le situazioni non siano figlie del proprio presente ma che, in sé, abbiano la potenzialità di essere immaginate analoghe in un non precisato futuro, lo reputo davvero tremendo. E’ tremendo perché, quando viene enunciato, accade sempre con affetto cieco e stupido. Generalmente è poi pronunciato da quelle persone che tendono a fuggire dinnanzi le difficoltà. Per questo motivo, qui gioco sulla preponderanza di ‘circostanza, costanza, stanza’, tutte concatenate dall’impossibilità economica-affettiva di una qualsivoglia soddisfacente relazione sul presente. Costanza è incastrato a forza, a fuoco, come un tatuaggio  oramai scolorito sul polso.
‘Non c’è costanza nell’amore’ è anche una mia pura preveggenza.


da L’orso: I nostri decenni
Avrei voluto ricordarmi di te più di quanto già faccio
Capire prima che l’amore è altro, da ragazzo,
l’amore perde la M e diventa a ore.
Ora, ne ho una ventiquattrore piena
Come un venditore di consonanti
Buone soltanto per l’enigmistica.
Finalmente lo scorrere atono del rap calcato nelle assonanze e nei giochi linguistici. L’immagine prende spunto da un estratto di un mio blog adolescenziale (da cui nacque, giustappunto, L’adolescente). La parola ‘amore’ viene derubata della M fino a rimanere un a_ore, ovvero la più grande contrapposizione possibile al concetto d’universalità che è contenuto in amore. Da qui ho preseguito questa pittura immaginandomi come un venditore porta a porta di queste M. Incapace nella vendita, questa ventiquattrore colma di M, rimane utile soltanto per completare la settimana enigmistica.


da L’orso: Certi periodi storici
      Bisognerebbe staccarsi dalle testate storiche,
Da contese contestate, testate con te,
Dagli estremismi egocentrici e dalle utopie
      Che tra l’altro mi han fatto perdere te.
Questi ultimi quattro versi della canzone giocano su un rapporto simmetrico con gli ultimi quattro della prima strofa. Mi piace molto rimandare le strutture a rincorrersi per i brani. E’ un bisticcio lessicale voluto, ricercato, come nella migliore filosofia rap. Avevo il bisogno di esprimere questo concetto del ‘perdersi causato dal filosofeggiare sul nulla’ nella sua intrinseca ridondanza.

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a cura di Francesca Cioce