#RileggiamoConVoi - Gennaio 2013


Provincia di Pavia, 4 gennaio 2013
Cari amici,
eccoci al primo appuntamento
con il #RileggiamoConVoi del 2013!
Come sempre, abbiamo scelto alcuni libri,
più o meno moderni, recensiti anche tempo fa,
che abbiamo voglia di rispolverare con voi.
Come vedrete, appartengono a generi
e ad epoche diversissimi. 
Cos'hanno in comune? Il fatto che,
a nostro parere, meritano di essere letti e/o riletti.

Buon fine mese a tutti,

La Redazione

Claudia consiglia... 

I ferri dell'editore. Sandro Ferri di edizioni e/o racconta il proprio mestiere


I ferri dell’editore
di Sandro Ferri
Edizioni e/o, 2011



Sandro Ferri dirige, insieme a Sandra Ozzola, la casa editrice e/o. Il loro sodalizio nasce nel 1979 quando, poco più che ventenni, si lanciano nel vivo dell'avventura editoriale con spirito libero e tanti progetti. Lui si definisce “scostante e rozzo, sospettoso del potere e renitente sia alle moine che ai diktat, individualista estremo, bastian contrario”. In questo libro racconta il proprio mestiere di editore in maniera appassionata, partendo da una prospettiva estremamente personale. Attraverso un ritratto di sé, traccia un dipinto della propria casa editrice, delle motivazioni culturali e ideali che stanno, tutt’oggi, alla base dell'attività che svolgono. Alla fine degli anni ’70 i due si incontrano a Roma e concepiscono il disegno di un catalogo editoriale costruito sulle voci di autori dell’Est europeo. Si muovono alla ricerca di scrittori che raccontino la loro esperienza di vita aldilà della cortina di ferro, senza stereotipi da società felice o eroismi da stoica opposizione. Nello specifico cercano scrittori in grado di donare agli altri il racconto di emozioni, idee, esistenze vissute altrove, “difficili, spesso osteggiate dal potere, ma capaci di mantenere una dimensione sociale, di scambio con gli altri”. Scoprono Christa Wolf, Bohumil Hrabal, Cristoph Hein, Vladimir Makanin e molte altre voci; le traducono e le fanno scoprire ai lettori italiani. È  posto il primo mattone di una casa editrice che ha le sue basi in un progetto preciso e in una corrispondente visione del mondo. Dalla collana praghese di Milan Kundera, al rapporto con lo scrittore polacco Kazimierz Brandys, fino a Thomas Pynchon, negli anni la proposta si arricchisce e, grazie a un’ottima capacità di intuizione, entrano a far parte della scuderia della casa Muriel Barbery, autrice del best-seller L’eleganza del riccio, Massimo Carlotto, Elena Ferrante, Izzo, Gutierrez... Si delinea, così, un catalogo contrassegnato dalla pluralità e dal “meticciato”, parola che l’autore sceglie più volte per raccontare il proprio lavoro. Narrativa, memorialistica popolare, saggistica di approfondimento.. generi e livelli di lettura molto diversi, tutti materiali che servono a creare un intreccio che è continua sorpresa, spaesamento, scoperta di nuovi territori.

È nel nostro DNA di lettori alternare generi diversi di letture. Non crediamo quindi alle parrocchie dei puristi della letteratura così come non faremo mai un’editoria esclusivamente popolare.

Il Salotto: intervista a Maria Antonietta Pinna





La scrittrice sassarese, trapiantata a Roma, Maria Antonietta Pinna, di cui abbiamo recentemente recensito il bel “Fiori ciechi”, ha gentilmente accettato di rispondere ad alcune nostre domande.


Maria Antonietta, puoi parlare brevemente di te ai lettori di CriticaLetteraria?
Sono cresciuta in un piccolo paese della Sardegna, un microcosmo in cui puoi osservare i caratteri e capire che sono piccoli campioni universali. L’umanità è più o meno identica dappertutto. Le stesse invidie, le stesse meschinità, i medesimi egoismi come diceva Miss Marple nei famosi romanzi di Agatha Christie. Il villaggio è lo specchio del mondo. Fin da piccola ho avuto la passione per la lettura. Ricordo che non vedevo l’ora di imparare a leggere per poter esplorare nuovi mondi e avere informazioni su cose che non sapevo. Ma più leggevo più mi rendevo conto di non sapere niente. Alla fine questa sensazione infantile è diventata una certezza con l’età adulta. La curiosità che ci spinge alla lettura è la stessa che poi ci apre gli occhi riguardo al fatto che non sappiamo granché. Possiamo soltanto assaggiare con la fantasia porzioni di infinito. Ognuno lo fa a modo suo. La scrittura è un metodo di indagine che spazia dall’interiorità all’esteriorità, in una dinamica di superamento dell’io lirico, necessaria per poter comunicare.
Da qualche anno ho iniziato la collaborazione con la web-magazine “Sul Romanzo” di Morgan Palmas che apprezzo per la coerenza e, se vogliamo dirla tutta, anche per il coraggio nel postare articoli un “po’ scomodi”. Ho fatto recensioni negative su libri di autori famosi, che pubblicano con grandi editori. Un esempio fra tutti Coelho o peggio Flavia Vento, pubblicata addirittura da Bietti, il che la dice lunga sulle attuali condizioni dell’editoria italiana. Niente è stato censurato dal blog.
Poi ho cominciato a pubblicare dei libri tra cui Fiori ciechi, Annulli editori, il mio primo romanzo e Mister Yod non può morire, La Carmelina Edizioni. Un altro libro di poesie: Lo strazio, è in preparazione con Marco Saya editore.
Il saggio Dalle galee al bagno al carcere che ho pubblicato nel 2010, invece, merita un discorso a parte. Ho scritto un articolo sull’editore:  http://marylibri1.wordpress.com/2013/01/23/il-ghost-editore-armando-siciliano/

C’incuriosisce il fatto che tu sia laureata in criminologia, come si concilia questo con la tua attività letteraria?
La criminologia è uno dei miei interessi. Mi interessa il suo lato oscuro, psicanalitico, motivazionale che certamente si concilia con la mia attività letteraria. Infatti cerco di creare nei romanzi e nei testi teatrali un senso di alienazione attraverso il quale si attiva una sorta di viaggio introspettivo, come se i personaggi si staccassero dal proprio io per guardarsi “da fuori” , osservando con occhio lucido ed indagatore anche il mondo esterno. Mentre la criminologia però ha lo scopo di risolvere il mistero, la letteratura lo crea. Lo scopo di ogni buon romanzo è creare dei dubbi nel lettore. Le soluzioni preconfezionate sono poco interessanti. Il fine deve essere sempre e solo la riflessione, la capacità di far camminare i neuroni. Un procedimento che è oggi poco apprezzato dall’editoria che preferisce lavori omogenei, senza genio, destinati ad un pubblico anestetizzato. La perdita del rapporto con il simbolo, con la mitopoiesi, con l’interiorità da parte di tanta pseudo-letteratura, è un sintomo di decadenza culturale.

Fra i tuoi interessi c’è anche molto esoterismo. Ti avvicini ad esso da scettica o da adepta?

"Silenziosamente al mattino spicca il tuo volo": la fantascienza poetica e ironica di Enrica Corradini

Silenziosamente al mattino spicca il tuo volo
di Enrica M. Corradini

Narcissus Self Publishing, 2012


Silenziosamente al mattino spicca il tuo volo, titolo ispirato ad un principio espresso nell'antico Libro del Sigillo del Cuore, segna l'esordio di Enrica M. Corradini nel mondo dell'ebook.
Se vogliamo essere precisi e inserire questo romanzo in un genere ben definito, potremmo collocarlo tra la fantascienza e la storia di formazione. Una fantascienza però che assomiglia terribilmente alla realtà. Siamo sulla Terra, in un anno non ben precisato che pare fratello di gemello di questo 2012 appena concluso. L'umanità attende l'inesorabile fine del pianeta provocata dal terribile impatto con l'asteroide più grande dal tempo dei dinosauri. Questione di mesi e del nostro corpo celeste non resterà nulla.
Nelle città, governate dalla Multipotenza Mondiale, enormi pannelli con il conto alla rovescia ricordano giorno e notte quanto manca all'impatto. Così è inevitabile che la popolazione si prepari all'impatto: chi con rassegnazione, chi cercando di organizzarsi per sopravvirere, chi con scetticismo o fatalismo. Ma la vita, nonostante tutto, continua coi problemi di sempre e se negli asettici quartieri per bene "la fine del mondo" è uno degli argomenti che tiene banco maggiormente, chi vive nelle zone dormitorio-discarica, enormi quartieri fatiscenti invasi dal degrado e dalla spazzatura, le priorità sono ben altre.

"Il grande mistero" della poesia di Tranströmer

Il grande mistero
di Tomas Tranströmer

Crocetti, 2011



Piccola segnalazione di un volumetto più piccolo della stessa, ma non per questo poco importante. Mini-tascabile di luce ambrata e particolare come pochi, poche parole-lame nebulose. L'emblema della forza della piccolezza, come raramente si esplica in poesia. Tomas Tranströmer: un autore di cui si fa tanto parlare a seguito del premio Nobel 2011: a buon diritto, si intenda, ma fa un po' rabbia la coscienza in ambito poetico di questo perverso meccanismo per cui bisogna giungere al Nobel prima di essere recensiti e conosciuti in tutto il mondo (come fu per Wisława Szymborska). A margine queste critiche che giungono solo ad ombra del vero oggetto della questione: Il grande mistero, forse il volume più piccolo del poeta, quasi un ossimoro con lo stesso titolo. Il rimando testuale è nel titolo e si riferisce alla sua precedente raccolta con cui fu conosciuto in tutta Europa: Il grande enigma) raccolta di 45 haiku. Il volume si propone come una prosecuzione d’opera e allo stesso tempo mantiene in sé piena autonomia.

La saggezza straordinaria dei racconti chassidici


Un silenzio straordinario. Racconti chassidici
A cura di Rami Shapiro
Editrice La Giuntina
Firenze, 2005
pp. 235

Baal Shem Tov (abbreviato in Besht), fondatore del chassidismo, insegnava che un individuo nasce con un numero stabilito di parole.
Quando sono state tutte pronunciate quell’individuo muore.
Di conseguenza, ogni parola che pronunciamo ci avvicina alla morte e dovremmo chiederci, ogni volta che stiamo per utilizzarla, se vale la pena morire per essa.
Affascinante insegnamento, soprattutto per chi è convinto del potere delle parole e della riverente e conseguente necessità di non sprecarle.
Conosciuto questo particolare, non dovrebbe sorprendere ulteriormente l’icastico titolo di un ottimo libro di racconti chassidici: “Un silenzio straordinario”.
Silenzio che non è inteso soltanto nella sua accezione negativa, mera assenza di parola.
Similarmente al “gancio” da cui pende il “peso”, di cui parla Carlo Michelstaedter nell’incipit de “La persuasione e la rettorica” (Adelphi, Prima Edizione 1982), la cui vita “è questa mancanza della sua vita”, il silenzio “sostiene” la responsabilità della parola, della cui natura fa parte integrante, essenza ontologica del suo esistere, del suo essere silenzio: “Quando esso [il peso ovvero la parola] non mancasse più di niente – ma fosse finito, perfetto: possedesse sé stesso, esso avrebbe finito di vivere”.
Rimanendo in silenzio, si cede tutto il nostro sapere e gli permettiamo di distruggerlo: “Ciò che viene distrutto è ciò che sappiamo; ciò che viene costruito è ciò che non sapevamo”, con la consapevolezza che “il nuovo diventa vecchio e quindi questo sacrificio deve rinnovarsi continuamente”.

Se affermo che la narrazione, come la memoria e l’erranza, sono l’essenza dell’ebraismo, non dico nulla di sconosciuto ai più o di originale, tanto è nell’evidenza dei fatti.
Il racconto fa parte della vita quotidiana degli ebrei, presente anche nelle loro celebrazioni o festività (per esempio nel Seder cioè nella cena del Pesach, la Pasqua ebraica, dove si è soliti recitare il racconto dell’Esodo dall’Egitto, la cosiddetta haggadah).
Del resto, una battuta afferma che “se non ha una risposta da dare, l’ebreo ha sempre una storia da raccontare”.
Da raccontare. Senza sprecare nulla.
La parola è (per gli ebrei e non solo) è vita e…“sia essa scritta, sottolineata, parlata, o cantata, una parola ha il potere di sanare o di fare del male” cioè ha un valore morale e salvifico:
“la qualità della nostra conversazione rispecchia la qualità della nostra anima. Un discorso ozioso è un chiacchierare sconsiderato, che suggerisce l’idea di una mente sventata. Se vogliamo migliorare la seconda, dobbiamo migliorare il primo” (pag.57).
Il grande valore dei racconti chassidici risiede nella capacità di sorprendere, di far riflettere, ma anche di far sorridere. A volte contemporaneamente.
Nel e dal sorriso si dipanano le più profonde riflessioni, se non una pura saggezza.
Quale saggezza? Quella che dipende da noi o quella che è un dono della grazia?

Cosmopolis di Don DeLillo



Cosmopolis
di Don DeLillo
Einaudi, Torino 2006

10,00 €


Un gioiello. E forse qualcosa più.

Il miliardario Eric Packer prende la fissa di tagliarsi i capelli (o meglio: «aggiustare il taglio») il giorno in cui il Presidente degli Stati Uniti è in visita a New York accolto dalla guerriglia urbana e da svariate forme di protesta. Decide di andarli a tagliare dall’altra parte della città, dal suo parrucchiere di fiducia che, guarda caso, è quello di quando era bambino. Intraprende così il viaggio all’interno della sua limousine che procede a passo d’uomo tra la folla, scortato dalle sue guardie del corpo.

Da quello che può sembrare un pretesto assurdo – il desiderio di un bambino viziato che vuole cose assurde perché può comprarle senza rimproveri – Don DeLillo muove una riflessione narrativa sul tempo e sullo spazio, per comprendere la nostra era. E quindi sulla nostra vita e sulle nostre scelte.

Nel suo lussuosissimo mezzo di trasporto il protagonista incontra di volta in volta i suoi collaboratori, i suoi consulenti, la sua amante, sua moglie e il suo medico. Anzi, il sostituto del suo medico, che gli scopre una prostata asimmetrica.
Lo spazio è quello chiuso della limousine dalla quale è possibile controllare il mondo e avere tutte le informazioni possibili sull’andamento di ogni cosa. Ciò che interessa- ossessiona Packer per tutto il romanzo è l’andamento dello yen sul quale ha investito molto. Dall’interno della sua limousine vede il mondo filtrato, senza viverlo, una rappresentazione, come le migliaia di dati che analizza e che fa fruttare. Lui è quel bambino che a 4 anni aveva calcolato il suo peso su tutti i pianeti del sistema solare. Ed ora non riesce a convincere sua moglie (poetessa dalle poesie che «fanno schifo») a fare sesso con lui.

Eric Packer ha la facoltà di vedere le cose che accadranno, sa leggere i dati e fare previsioni: è lui uno degli artefici di questo sistema di analisi e di governo del tempo. Non può dubitare perché conosce il modo di far rientrare tutto in un sistema economico e ottimizzato. Ma forse qualcosa si sta incrinando: l’incertezza sul comportamento dello yen, il presentimento che i propri sistemi informatici vengano violati, la prostata asimmetrica, il desiderio di andare incontro a qualcosa o qualcuno. La consapevolezza che qualcuno lo sta aspettando o, forse, cercando. E quindi il taglio dei capelli dall’altro capo della città, sfidando chi lo vorrebbe morto per protesta sociale e chi lo vorrebbe uccidere per odio personale.  Un viaggio che alla fine si rivela verso sé stesso.

Nonostante il suo potere economico, intellettuale e le sue capacità nel comprendere come il mondo può essere modellato («La gente mangia e dorme all’ombra di quello che facciamo») Eric Packer è tanto insicuro da voler sfidare il futuro. Sfida i tumulti in città, sfida lo yen, si espone in pubblico (lui che rappresenta quel modello di mondo alla deriva che la gente non sopporta più e vuole fuggire), va incontro al suo assassino e gioca con le armi delle sue guardie del corpo. Già, la sua guardia del corpo …

Il protagonista del romanzo deve dividere il palcoscenico non solo con le altre figure che di tanto in tanto affollano la sua limousine e la riempiono di risposte alle sue domande, osservazioni e teorie, non solo con l’autista, il vecchio parrucchiere e la sua eterea moglie, ma anche con Benno Levin, l’emarginato, il frutto del suo mondo, colui che non è riuscito a stare dietro al baht. Un incontro che non sarebbe possibile senza essere passato prima dal parrucchiere per un taglio lasciato a metà. Benno Levin e Eric Packer sono le due facce di quella stessa umanità che evoca e rifugge il futuro, che se ne vorrebbe far travolgere ma quel tanto che basti per ricevere una spinta necessaria a restare vivi nel presente. Quanto sono inconsistenti le ragioni d’odio di Benno Levin? Questo personaggio rappresenta solamente il rammarico verso la propria incapacità, o è anche e soprattutto quell’Eric Packer che comprende l’impossibile previsione del futuro, la probabilità ossessiva, gli impulsi, le obliquità? Le asimmetrie.

Un'eredità di avorio e ambra di Edmund de Waal

Un'eredità di avorio e ambra
di Edmund de Waal

Bollati Boringhieri



Sopravvivere agli altri è dura.

Una recensione su questo libro, nel giorno della memoria, vuol dire non lasciare nulla al caso. Un'eredità di avorio e ambra nelle sue pagine sulla follia nazista e su come 264 piccoli ninnoli d'avorio vi siano sopravvissuti, racconta molto altro. Si tratta di un libro ricco di spunti, tanto che un discorso che lo riguardi potrebbe inserirsi in una riflessione sulla storia dell'arte, della letteratura, nonché quella dell'olocausto; si rivela il romanzo di una ricerca, e dei sorprendenti risvolti letterari, artistici e umani che ha riservato all'autore, protagonista di uno studio a ritroso sulle sue origini familiari. 

Alcuni netsuke
Questa ricerca prende le mosse da una collezione di netsuke, manufatti che rappresentano particolari di vita quotidiana: animali, mestieri dell'antico paese del Sol Levante, in avorio, legno e ambra; si direbbero il corrispettivo in oggetti degli haiku, poesie giapponesi sulla semplicità della natura in poco meno di venti sillabe.

Primo Levi, un esercizio della Memoria

Il nome di Primo Levi è fatalmente legato alla tragedia della Shoah. Il monito alla memoria di Se questo è un uomo («Voi che vivete sicuri / nelle vostre tiepide case...»), il picaresco impossibile ritorno alla vita in La tregua sono testimonianze letterarie condivise. Si leggono e commentano nelle scuole, popolano le antologie sul Novecento italiano.
L'ordine imperativo di ricordare l'esperienza disumanante dei campi di sterminio (che ha tutte le caratteristiche di un ufficio liturgico, quasi profetico), ripetuto di anno in anno in occasione della Giornata della Memoria, subisce una sorta di astrazione rituale. Come dire, insomma, che il tributo alla memoria è un po' diverso dal suo esercizio.
Proprio per stimolare, invece, un esercizio attivo, propongo un testo meno noto di Levi: il discorso In onore degli italiani caduti nei campi di sterminio nazisti, pronunciato nel 1980 in occasione dell'inaugurazione del Memorial italiano nel campo di Auschwitz, e pubblicato in seguito in un piccolo fascicolo a cura dell'ANED, l'Associazione Nazionale Ex Deportati nei campi nazisti. Il Memorial, una struttura nella baracca 21 progettata da Lodovico Belgiojoso, un architetto sopravvissuto ad Auschwitz, versa oggi in uno stato di triste abbandono. Le parole di Levi, che ne accompagnò la presentazione, ripercorrono l'esperienza dell'Olocausto privilegiando una prospettiva storica. Non occorre, per Levi, ricordare soltanto la sofferenza e la morte nei campi; l'esercizio della memoria deve spostarsi dagli effetti alle cause, e tener sempre presente che questa tragedia ha macchiato la storia umana per precise ragioni di storia politica e ideologica. Non ci sarebbe stata Shoah senza la propaganda nazista o la connivenza antisemitica del fascismo; Levi si spinge ancora oltre: le colpe del fascismo nell'aver distrutto una cultura sono ben più profonde...

CriticaLibera: Duecento anni di "Orgoglio e pregiudizio"


Lunedì prossimo, Pride and Prejudice di Jane Austen festeggerà un compleanno importante: saranno trascorsi, infatti, duecento anni dalla pubblicazione, il 28 gennaio 1813, di un romanzo che in verità non fu mai associato al nome dell’autrice durante la sua vita; per tutti, la Austen era, e rimaneva, la scrittrice di Ragione e Sentimento. Eppure non c’è romanziere, inglese ma non solo, che non faccia in qualche modo riferimento a questo libro. Elisabeth Bennet e Mr. Darcy fanno parte dell’immaginario britannico, dai continui riferimenti in pellicole e testi di successo - ne parlano Meg Ryan e Tom Hanks in C’è posta per te,   scambiandosi tenere mail, ne sono una versione goffa e pasticciona Bridget Jones e Marc, guarda caso,  Darcy -  alle innumerevoli versioni holliwoodiane e bolliwoodiane che ne sono state tratte, questo libro è nel DNA anglosassone. 

Terminato nel 1797, dopo una pausa fra la prima e la seconda versione durata ben quattordici anni, e pubblicato nel 1813, non molto prima della morte dell’autrice, il romanzo si pone a cavallo fra settecento e ottocento, fra Illuminismo e Romanticismo.
La vita della Austen fu breve e ritirata. Praz, nella sua Storia della Letteratura inglese, ne fa un ritratto che è, a nostro avviso, è una delle più brutte pagine di critica letteraria mai scritte. Tratteggia una donnina repressa, mai baciata da nessuno, la cui più grande emozione è quella del ballo. E meno male che poi si riscatta paragonandola a Vermeer, per l’attenzione ai particolari, per i ritratti d’ambiente e di personaggi al chiuso e all’aperto, nei salotti e nei prati:

#ScrittoriInAscolto - Vincenzo Cerami a Sassari



Lectio magistralis di Vincenzo Cerami
Aula Magna del rettorato, piazza Università, Sassari

24 gennaio 2013




A.M.Morace e V. Cerami
Sono le 11 quando Aldo Maria Morace dà il via a una intensa mattinata in compagnia dello scrittore e sceneggiatore Vincenzo Cerami. L’autore è stato invitato in occasione dell’inizio di un nuovo Master in Scrittura creativa ed Editoria, offerto dalla Regione Autonoma della Sardegna. È chiaro dunque come la lectio magistralis di Cerami sia benaugurante e utilissima ai ragazzi che, nell’affrontare il master, si troveranno a lottare contro stile, contenuti e generi di scrittura. Dunque, quale esempio migliore di Cerami per inaugurare il primo trimestre? 

Maria Antonietta Pinna, "Fiori ciechi"


Fiori ciechi
di Maria Antonietta Pinna


Annulli Editori, 2012


«Se le porte della percezione fossero purificate, tutto apparirebbe all'uomo come in effetti è, infinito», scrisse William Blake. E dovendo scegliere un aggettivo per definire Fiori ciechi di Maria Antonietta Pinna, “blakiano”, è quello che ci viene in mente.
Il libro comprende due blocchi di narrazione separati, di cui il primo è senz’altro il più immaginifico. I temi toccati sono il ripudio della guerra, del razzismo, del totalitarismo, e la necessità di non violare la natura affinché essa non ci si rivolti contro (vedi Gaia che distrugge l’umanità sostituendola con i fiori, oppure i probobatteri che mangiano anche ciò che dovrebbero difendere). È fin troppo facile riconoscere nella trama certi regimi dittatoriali da poco abbattuti e certe guerre che costituiscono ossimori nel loro definirsi umanitarie. Ma l’aspetto principale del testo, oltre lo stile impeccabile, cristallino e spiazzante, è il libero dispiegamento d’una fantasia allucinata. Quindi, più dell’orrore della guerra, ci colpisce l’immagine della cimice volante che sgancia le bombe mortifere nel blu elettrico del cielo.
Un racconto-matrioska: l’autrice parla di un autore, il quale parla del mondo da lui creato, fin troppo vicino al nostro mondo reale, con statue di dittatori che crollano, botole che si spalancano inghiottendo feroci occhi smarriti, piedi che penzolano in un balletto di morte. La trama è un congegno preciso, articolato pur nel divagare della fantasia, niente è lasciato al caso, tutto s'incastra, sempre che il lettore si prenda la briga di mettere insieme i pezzi e ricostruire il meccanismo.

#ScrittoriInAscolto: Clara Sanchez presenta a Milano il suo ultimo romanzo, "Entra nella mia vita"


Martedì 22 gennaio alla libreria Feltrinelli di Piazza Piemonte, a Milano, Clara Sanchez ha presentato al pubblico il suo ultimo romanzo, Entra nella mia vita (Garzanti, 2013). L’autrice è stata introdotta dalla scrittrice e giornalista Nicoletta Polla-Mattiot; alla presentazione ha preso parte anche la psicanalista Lella Ravasi Bellocchio. La scrittrice spagnola può essere considerata un interessante fenomeno editoriale dei nostri giorni: ha già scalato le classifiche dei libri più venduti con i suoi due precedenti romanzi, La voce invisibile del vento (2008) e Il profumo delle foglie di limone (Premio Nadal 2010).  

Entra nella mia vita sembra destinato allo stesso successo. Un po’ thriller, un po’ romanzo psicologico, racconta una storia che prende spunto da un triste fatto di cronaca: il fenomeno dei cosiddetti “rapimenti di culla” scoppiato in Spagna tra gli anni Ottanta e Novanta, quando molti neonati vennero dichiarati morti ai genitori naturali e poi venduti in quello che era uno spaventoso traffico di bambini, una vera mafia in cui si scambiava merce umana. Un fatto reale, dunque, ha dato all’autrice lo stimolo per costruire un testo che sapesse parlare di sentimenti forti, di persone che lottano per qualcosa di profondamente umano. 

Un borghese piccolo piccolo: l'esordio narrativo di Vincenzo Cerami


Un borghese piccolo piccolo
di Vincenzo Cerami
Einaudi tascabili, 1995 (1976)

pp. 130


"Farai strada, quant'è vero Iddio... Comincerai proprio da dove sono arrivato io, dopo trent'anni di servizio... e tu hai soltanto vent'anni... Un giovane in gamba per davvero pensa al suo avvenire, a nient'altro che a quello e lascia che gli altri si impicchino" (3).
La filosofia di Giovanni Vitali o, come lo qualifica il narratore, di Vitali Giovanni, impiegato del Ministero, è molto semplice: assicurarsi con tutti i mezzi possibili che il giovane figlio Mario, ragioniere, possa avere uno dei duemila posti garantiti da regolare concorso statale. 
La locandina del film di Monicelli
Mario, da parte sua, è un figlio che non si ribella e un personaggio che nel libro ha poco diritto alla parola: nell'incipit assiste nervosamente al padre che uccide con goffa brutalità un pesce appena pescato e ribadisce in tono paternalistico che Mario deve assolutamente passare il concorso. Non per sue capacità personali, ma per il semplice fatto che Giovanni lavora al Ministero da trent'anni e pretende il giusto riconoscimento di tanta fatica. Fatica o, meglio, routine: ore spese tra le pratiche del Ministero, a parlare il burocratese dell'impiegato medio.

Pablo d'Ors, "Il debutto"


Il debutto
di Pablo d'Ors

Aìsara, 2012



«Il segreto della creatività è saper nascondere le proprie fonti», recita un celebre aforisma di Albert Einstein, che sembra individuare nella capacità di dissimulare le origini delle proprie ispirazioni la vera carica creativa portatrice di originalità. Ma se invece di occultare le proprie fonti d'ispirazione si decidesse di esibirle, cadrebbero i presupposti dell'atto creativo? Pablo d'Ors con il suo libro Il debutto – il secondo uscito in Italia dopo Avventure dello stampatore Zollinger edito da Quodlibet ci dimostra che non solo il rischio è trascurabile, ma che le fonti possono diventare addirittura l'oggetto principale di una narrazione. La sua opera infatti, composta da sette racconti, ciascuno dedicato a uno o più scrittori, si propone come un esplicito omaggio ai modelli che hanno dato forma al suo universo letterario: Gunter Grass, Thomas Bernhard, Dante, Boccaccio, Calvino, Pessoa, Milan Kundera, Charles Dickens e Goethe.

Yzur: Leopoldo Lugones e la fantascienza

Yzur
di Leopoldo Lugones

Internòs, 2012




Ci sono due fraintendimenti alla base della narrativa di fantascienza. Il primo è che la fantascienza [...] si occupi del futuro, che essa sia, fondamentalmente, profetica. [...] Il secondo fraintendimento, una sorta di fraintendimento al quadrato, facile da credere una volta che si sia dato per scontato che 'la fantascienza si occupi di prevedere il futuro', è questo: la fantascienza riguarda un presente che non c'è più. In particolare, la fantascienza riguarda solo il periodo in cui è stata scritta [...] Questo è vero, in linea generale, ma lo è sia per la fantascienza che per ogni altro genere narrativo: i nostri racconti sono sempre il frutto dei nostri tempi. La fantascienza, così come ogni altra forma d'arte, è un prodotto della sua epoca, che riflette o reagisce o illumina i pregiudizi, le paure e i presupposti del periodo in cui è stata scritta. Ma la fantascienza è qualcosa di più [...] La cosa importante nella buona fantascienza, quella che produce la fantascienza destinata a durare, è il modo in cui essa ci parla del nostro presente. Cos'è che adesso ci dice? E, ancora più importante, cosa ci dirà sempre? Poiché la fantascienza diventa una pratica di scrittura significativa e ricca di implicazioni quando tratta qualcosa di più grande e più importante dello Zeitgeist, che fosse o meno intenzione dell'autore.

Giovani e omosessualità: "Confessioni di una maschera"


Confessioni di una maschera
Yukio Mishima

Feltrinelli, 2002 (1948)

136 pp.


Che Yukio Mishima riesca a infondere con la propria penna tutta la forza e la dirompenza del suo animo travagliato è cosa nota. Ma che in quello che spesso viene considerato il suo capolavoro, Confessioni di una maschera, uscito nel '48 in Giappone, l'autore giapponese riesca addirittura a trattare - involontariamente forse - una delle tematiche più attuali del dibattito etico e morale odierno, il rapporto tra giovani e omosessualità, nella sua maniera personalissima, congiungendo lirismo e forza, patetismo e introspezione, con penna delicata e una leggerezza d'animo che lascia persino sgorgare spiritualità da ogni parola del romanzo, forse non è noto a tutti. L'opera è apparentemente autobiografica e narra la storia di un giovane ragazzo giapponese, Kochan, che lentamente scopre la propria indifferenza verso il sesso femminile in una società dal maschilismo esasperato e dal militarismo spiccato. La sua sensibilità, magistralmente evidenziata dalla penna di Mishima, porta il ragazzo a grandi difficoltà nell'inserirsi all'interno del gruppo scolastico, anche per via della sua costituzione gracile e del suo fisico non prestante. La sua crescente adorazione per il culto del machismo - se così lo si può chiamare, ovvero per lo stereotipo del maschio vigoroso, forte e un po' gretto intellettualmente - accompagna tutta la durata dell'opera, costellando il percorso interiore di Kochan - che lo porta a scegliere di vivere come una maschera, ovvero a fingere di essere "come tutti gli altri" - con excursus nel tema mishimiano del suicidio e dell'ardore per la guerra e per la morte. Excursus che inteneriscono, ingentilendo e per certi versi rendendolo anche ingenuo, ma con raffinatezza, la presa di coscienza, da parte di Kochan, della propria omosessualità.

Pillole D'Autore - Stephen Gray

Ci sono autori, di fama mondiale, che purtroppo nel nostro Paese passano sotto silenzio e restano conoscenza di pochi appassionati lettori in lingua originale. In questa spirale troviamo anche Stephen Gray, che si presenta al pubblico dei lettori italiani grazie a una recentissima operazione di traduzione, portata avanti da Marco Fazzini, Francesca Romana Paci e Armando Pajalich per Amos Edizioni. La saggia scelta, di questa piccola ma sempre coraggiosa casa editrice, è stata quella di presentare un'antologia delle poesie di Gray, dalla prima opera, It's about time (1974) a Sheley's Cinema... and Other Poems (2006), con una aggiunta di alcune poesie inedite anche recentissime. 

Stephen Gray, nato a Città del Capo nel 1942, è autore di romanzi, poesie, saggi e biografie, nonché redattore e fondatore di alcune tra le riviste più impegnate nella diffusione della cultura dell'Africa meridionale. Anche le sue poesie si fanno "fari di una scrittura alternativa alle politiche di regime" (cito dalla prefazione di Marco Fazzini), in cui riflette sull'evoluzione dei rapporti dei bianchi sudafricani con i nativi e con l'Europa. In nome della sua inesausta curiosità, Gray si muove tra storie di quotidianità, ora sofferte ora lacerti di speranza, e non lesina riferimenti al passato, sperimentando generi poetici diversissimi: dalla satira all'elegia, tra ironia, denuncia e lirismo aulico (molte le citazioni di autori noti e notissimi). 

CriticaLibera - Tradurre Seamus Heaney: qualche riflessione


Il traduttore copia con colori a lui propri, scriveva D’Almebert. Nella lunga riflessione sulla traduzione – che passa dalle tappe “obbligate” di Benjamin, Ricœur, Etkind, Eco, eccetera eccetera – le parole dell’enciclopedista francese appaiono rassicuranti. Tradurre significa colorare. Il problema, chiaramente, sta nel trovare i colori giusti. E il problema si amplifica se anche il nostro poeta “source” è già di per sé un poeta “colorato”, un poeta immaginifico che non parla – o meglio non solo – di amore o sentimenti universali, ma della sua terra e dei suoi colori.

È il caso, tra tanti altri, di Seamus Heaney e della sua poesia fatta di terra; poesia che appartiene a un luogo, l’Irlanda, e che spesso ripercorre il tempo delle memorie infantili del poeta-soggetto. Scavare nella sua memoria e nella sua cultura per portare alla luce la civiltà contadina è manifesto del poeta fin dalla sua prima raccolta, Death of a Naturalist (1966). La penna sarà la sua vanga (Between my finger and my thumb / The squat pen rests. / l'll dig with it) scrive il poeta in Digging, e con la penna Heaney scava – junghianamente – nel suo passato, e fa riaffiorare immagini e colori personali, ma anche traumi e sensi di colpa nazionali.

Invito alla lettura: "Il processo" di Kafka

Il processo
di Franz Kafka

Feltrinelli, 1995 (1925)

Traduzione di Anita Raja
con introduzione di Bruno Schulz




Fiumi d’inchiostro sono stati versati sulle pagine del capolavoro kafkiano e tanto si è detto sui frammenti ed i capitoli incompiuti, sul surrealismo e sulle deformazioni espressioniste delle sue descrizioni. 
L’angoscia (che alcuni filosofi hanno distinto dalla paura: la paura è timore di qualcosa, mentre l’angoscia è un timore che non si materializza in concreto, è timore potenziale di tutto ma di nulla in particolare) pervade ogni fibra del romanzo discostandosi dalla definizione che ne ha dato la filosofia tradizionale  e dallo spleen letterario e bohémien dei poeti maledetti. L’angoscia kafkiana è onirica ma reale al tempo stesso e si manifesta in una vicenda ben precisa che sembra preconizzare i grandi processi-farsa staliniani degli anni Trenta. Il tipo di inquietudine in questione è rappresentato in modo sostanzialmente diverso rispetto a La Metamorfosi, racconto o romanzo breve in cui, invece, la situazione chiaramente metaforica in cui si trova il protagonista permette al lettore di mantenere un minimo di distacco dalla vicenda narrata grazie ai simboli che fanno da “filtro” tra la vita reale e la letteratura. 

 Ne Il processo, più che la carica immaginifica della narrazione è la valenza e i riscontri che avranno nella storia processi non dissimili dalla vicenda di K. Lo stesso anonimato del protagonista, K., rende forse più naturale l’immedesimazione del lettore oltre che quella probabile dell’autore, il quale dà al personaggio la sua stessa iniziale. Oggi che la garanzia a un “equo processo” è annoverata tra i diritti umani fondamentali, che i requisiti di indipendenza e imparzialità del potere giudiziario ed il diritto d’appello in secondo grado per i processi penali ci appaiono quali diritti inalienabili dell’individuo, il processo kafkiano, al contrario, appare connotato dalla totale mancanza di garanzie a tutela dell’imputato. K. viene arrestato senza conoscere le accuse gravanti sul suo buon nome di dirigente di un’importante banca e ciononostante la sua amicizia con uomini potenti, tra i quali figura persino un procuratore. Nessun mandato d’arresto dà ai suoi carcerieri, (non si tratta di agenti regolari ma di uomini inconsapevoli della portata e delle conseguenze degli ordini provenienti dai superiori), l’autorizzazione giudiziaria necessaria a scongiurare l’arbitrarietà della detenzione. 

Manfred: un esperimento di contaminazione artistica




Manfred
di Patrizia Valduga e Giovanni Manfredini
Lo Specchio Mondadori, 2003

pp. 87
€ 12

Si torna a cantare l’amore in quartine «quale contestazione tanto impudente quanto […] filosofica» [1] con la singolare sperimentazione di Manfred. Si tratta di un’opera a quattro mani: la poesia di Patrizia Valduga si intreccia alla pittura di Giovanni Manfredini: una quartina in campo bianco o nero alternata a un quadro, talvolta replicato o diversamente ingrandito. I soggetti di Manfredini sono uomini colti nella loro fisicità quotidiana, non abbrutita ma spogliata di qualunque bellezza tradizionale: corpi bianco-giallastri spiccano in punti-luce dalle tenebre, o vi si nascondono, lasciando emergere singoli dettagli della loro nudità animale, raccolta e non esibita. 
Se ci atteniamo all’indagine versale, si può leggere Manfred come una confessione metapoetica ed esistenziale che porta a galla tanti temi sprofondati nelle opere precedenti. Manfred(ini) risponde sulla tela agli interrogativi della poetessa, comprendendola per via delle loro «solitudini gemelle»: vi si ritrova il tema del «lungo questo tempo senza fine» (11), più volte presentato in tono misticheggiante, con tessere evangeliche (sanguinamento per avere il proprio pane quotidiano; liberazione dai mali; chiusura con l’«amen», 27). Nel ricorrente appello al cuore (31-32), si registra l’invasione dell’amore, con la furia dei limiti da superare, lo sconvolgimento delle coppie antinomiche dentro/fuori, su/in/oltre:

Per me dentro di me oltre la mente
il suo corpo su me come una coltre
ma oltre il corpo in me furiosamente
in me fuori di mente oltre per oltre…(19)

Dalla riconsiderazione del proprio passato, riemerge la coesistenza di amore-odio per il partner: ammessa la costante insoddisfazione sessuale, qui si avanza una richiesta di ricomposizione più intensa che in passato (46).

"L'equazione africana": un viaggio verso il disumano per un ritorno all'umano


L'equazione africana
di Yasmina Khadra

Marsilio, 2012
pp. 313



Yasmina Khadra è lo pseudonimo di Mohammed Moulessehoul, scrittore algerino francofono, già autore di romanzi come L'attentatrice (2006) e Le sirene di Baghdad (2007), tradotti con grande successo in molti paesi del mondo. Con L'equazione africana trascina il lettore alla scoperta di un'Africa sconvolta dalle lotte interne, dilaniata da conflitti secolari, intrisa di violenza. La storia prende forma attraverso il racconto del protagonista, il dottore tedesco Kurt Krausmann, il quale decide di accompagnare l'amico Hans in un viaggio in mare, per sfuggire al tremendo dolore di una perdita: la morte dell'amata moglie Jessica. Diretti alle isole Comore, i due vengono attaccati da una banda di pirati al largo della Somalia e fatti ostaggio da parte dei rapitori per alcuni mesi successivi. Kurt perderà ben presto le tracce dell'amico per affrontare da solo una durissima esperienza di privazione durante la quale si scontrerà con la parte più brutale dell'Africa. Joma, Moussa, Gerima, Blackmoon e gli altri uomini che li sequestrano hanno il volto di un continente arrabbiato, che crede impossibile ogni salvezza, che ha fatto della brutalità l'unica risposta a una vita che, senza ragione, è stata dura con il loro popolo. Il punto di vista del protagonista entra sin da subito in dialettica con il loro. Nonostante la paura paralizzante, Kurt non rinuncia a un confronto - a volte sommesso, altre gridato con veemenza. Non può accettare la ferocia con cui inesorabilmente lo allontanano dalla sua vita precedente che, per quanto sconvolta dal dolore di un suicidio incomprensibile, appare umana. La loro Africa, invece, è disumana e la prigionia diventa scoperta di forme di aberrazione sconosciute a tutti gli occidentali abituati a rivolgere occhiate distratte ai servizi che i telegiornali mandano sui massacri in Darfur.

La mia vita con papà: una tenera e commossa autobiografia

La mia vita con papà
di Maria Carla Fruttero

Mondadori, 2013

pp. 264
cartaceo € 18
e-book € 9,90





In esclusiva per CriticaLetteraria, presto Maria Carla Fruttero sarò ospite del nostro Salotto. Nel frattempo, ecco una lettura di La mia vita con papà:
Mi sono accorta che raccontare di te, di noi e del nostro privato era forse l'unico modo per non dimenticare, per lasciarti andare. (7)
L'autobiografia è tornata di moda, si sa, ma quella di Maria Carla Fruttero ha qualcosa di raro. Non solo il fatto che si parli di un padre straordinario, ricordato dalla letteratura per aver reinventato con Lucentini il giallo-noir all'italiana. No, La mia vita con papà è una commossa e personalissima rievocazione di quanto i ricordi non muoiano, e di come l'amore familiare non si esaurisca con la morte. Non si tratta solo di un omaggio al padre scomparso lo scorso anno, ma di un rileggere la propria vita in nome di un tenero e mai stucchevole rapporto padre-figlia. Da una richiesta esplicita di Carlo Fruttero nasce questo intreccio di biografia e autobiografia:
"[...] Nessuna biografia. Ci penserà Carlotta, quando sarò morto. "La mia vita con papà" la scriverà lei. Dopo questo basta, ho già scritto tutto". (160)
Per fare dei ricordi narrazione, Maria Carla sceglie di intersecare più piani temporali: la quotidianità del presente senza papà e il passato raccontato cronologicamente, intervallando qui e là la narrazione con fotoriproduzioni delle lettere che Carlo Fruttero inviava alla figlioletta. Questa scelta molto efficace permette al lettore di conoscere un Carlo Fruttero nel suo privato: l'affetto delicato e giocoso per Maria Carla e per la sorella Federica, le sue frequentazioni più o meno famose (filtrate dagli occhi di una Maria Carla bambina e commentati dalla Maria Carla adulta), l'amore e le attenzioni per la moglie durante la malattia,... E, soprattutto, si scoprono le abitudini e i piccoli vizi di scrittura della coppia indimenticata Fruttero-Lucentini:
I due si rinchiudevano nello studio e passavano i pomeriggi a pensare, scrivere, discutere. Potevano soffermarsi ore sulla scelta di un aggettivo, mentre riuscivano a costruire la struttura del capitolo in pochissimo tempo. (76-77)

Suzanne Collins, "The Hunger Games"


The hunger Games
di Suzanne Collins

Mondadori, 2008
14,90


Ciò che crea un fenomeno editoriale è la novità del soggetto. Il discorso vale per i monaci assassini di Eco, per i vampiri “vegetariani” della Meyer, per la stirpe del sangreal di Dan Brown, o per il bondage sadomaso della James. Tutto quello che viene dopo, è nella scia, è imitazione dell’originale.
Con The Hunger Games di Suzanne Collins si apre forse una stagione di reality show adolescenziale all’ultimo sangue, ma il suo essere capostipite di un nuovo genere, sta nella crudeltà dell’argomento trattato che t’inchioda dalla prima all’ultima pagina.
Katniss Evergreen è un’adolescente del Distretto 12, nel continente postapocalittico di Panem, un Nord America inselvatichito e imbarbarito, dove coesistono scienza raffinatissima e medioevo. Come punizione per un’antica ribellione verso la ricca e nullafacente capitale, i vari distretti devono offrire annualmente un sacrificio umano. In un reality show, che tutti sono obbligati a seguire, ogni distretto estrae a sorte un ragazzo e una ragazza da offrire, o meglio immolare, in una lotta con un unico vincitore e un unico sopravvissuto. Il nome estratto è quello di Primrose, la sorellina di Katniss, e lei non può accettarlo, si offre volontaria al suo posto...

Pillole d'Autore: "Il bell'Antonio" di Vitaliano Brancati


"L'unica cosa che mi dispiaccia," ripigliava Edoardo con voce commossa, "è che i tempi della gentilezza, della pietà, della poesia ritornano quando noi non abbiamo più vent'anni! La nostra giovinezza è in tasca a quell'uomo; il giorno che lo arrestano e lo perquisiscono, gli trovano addosso i nostri vent'anni. Questo pensiero mi fa sudare freddo! Vedere un'Europa serena, libera, un'Europa che onora i sogni e la musica, e noi non avere più l'età in cui si sogna con tanto ardore e si passa un'intera giornata canticchiando la nuova canzone di Tosti!... Ma sia fatta la volontà del Signore! L'importante è che tornino tempi felici e, soprattutto, liberi!"
Di tutti gli scrittori attivi nel tempo del Fascismo, Brancati resta forse quello più ingiustamente messo da parte. Per quanto sia stato un momento molto doloroso della nostra storia, rimane profondamente interessante il modo in cui abbia segnato la vita e l'arte di moltissimi intellettuali di quell'epoca: pittori, scrittori, pensatori, di cui la vita e l'opera sarebbero state molto diverse da ciò che le rese il Fascismo. E un ritrovato sentimento antifascista è presente in tutta l'opera di Brancati, che in gioventù aveva aderito al fascismo, e amato l'opera di D'Annunzio. In un passo del Bell'Antonio, Alfio, il padre del protagonista, urla contro il nuovo podestà fascista della città di Catania, in cui si svolge l'intera vicenda:
"Ladri del nostro sangue, ladroni di passo, briganti senza battesimo, vi siete comprata la giustizia e la religione coi vostri soldacci che puzzano di formaggio! Perché avete trovato quegli altri ladroni pari vostri, quegli affamati con l'aquila sulla testa che si mangeranno fino all'ultimo sasso di questa terra disgraziata, se Domineddio non ci pensa in tempo e non li brucia come topi! Vi siete messi d'accordo e avete combinato la polpetta come avete voluto voi, gentaccia col pelo sul cuore, canteri! Ma non sempre ride la moglie del ladro! Deve venire, perdio, la libertà che vi potremo scaracchiare in faccia! Deve venire il giorno dei galantuomini! E intanto vi dico questo: abbasso il re, abbasso il!..."
Indimenticabile il dialogo col cognato, Ermenegildo:
Il signor Alfio si mise ad agitare una mano verso il cognato e a mugolare con violenza: la parola che non gli veniva alla bocca, e di cui aveva impellente bisogno, era il nome di Ermenegildo.
"Come diavolo ti chiami?" gridò.
"Chi, io?" fece spaventato Ermenegildo.
"Tu, come ti chiami?"
Un mattone schiacciò il cervello di Ermenegildo: tra la paura di aver dimenticato il proprio nome, la fretta di rispondere, e la rabbia che gli muoveva tutto questo, si mise a balbettare sillabe sconnesse, passando e ripassando vicino alla parola Ermenegildo e sbagliandola ogni volta.
"Come ti chiami dunque?" gridava il signor Alfio.
"..." rispondeva il cognato.
"Come ti chiami, dillo, che ti sei ridotto peggio di me!"
"..." rispondeva ancora il cognato.
"Non sai nemmeno come ti chiami!" incalzava il signor Alfio.
"Ermenegildo!" esplose finalmente il cognato, scattando dalla sedia fuori di sé e picchiando il bastone sul tavolo. "Perdio, finisce male qui! Ermenegildo! Ermenegildo! Ermenegildo!"
[...]
E poi l'amara riflessione sulle vicende del figlio Antonio, ma con una scelta di parole che la fa scivolare nella comicità:

CriticaLibera - Teorie della traduzione. Prima puntata

Con questo post desidero inaugurare una piccola serie di contributi sulle teorie contemporanee della traduzione, ossia su quell'interesse più o meno articolato e organico sviluppatosi nell'ultimo mezzo secolo nei confronti del problema della traduzione. Per economia di tempo e per il carattere generale e quanto più divulgativo di questi contributi, indico come unico testo per chi volesse approfondire la bella raccolta di saggi Teorie contemporanee della traduzione a cura di Siri Nergaard (Bompiani, 1995) da cui - tra l'altro - mi permetto di prendere spunto.

Il rendere la traduzione un campo indipendente - o quasi - di ricerca è un'idea prettamente moderna, infatti le precedenti speculazioni al riguardo erano state per lo più elaborate in calce ad opere di traduzione per definire i criteri adottati e le difficoltà incontrate dal traduttore. Anche se il delinearsi di una certa autonomia ha sicuramente sfalsato l'equazione esperienza di traduzione = processo di teorizzazione, io sarei piuttosto cauto a scindere la fortissima componente soggettiva ed individuale presente inevitabilmente in ogni teoria della traduzione di cui m'accingo a parlare. La traduzione pertiene a quella parte di cultura che non può prescindere dall'intervento d'un interprete.
La traduzione è un'arte performativa. Mi spiego meglio: tradurre è in fin dei conti interpretare ossia portare da un codice linguistico ad un altro un messaggio con la maggiore comprensibilità e la minore compromissione. Spiegatemi in cosa allora il ruolo del traduttore diverge da quello di un musicista concertista. O di un attore di teatro. O ancora di un ballerino. Tutte queste categorie di artisti veicolano un messaggio con una forte impronta di soggettività, tanto più determinante quanto più supportata dal loro spirito critico. A loro interessa il preciso istante in cui l'opera d'arte giunge al suo fruitore. Nient'altro. Non si parla più della quinta Sinfonia di Beethoven, ma di quella di Karajan. Moby Dick di Melville o di Pavese?

Novembre: la lirica “civile” di Domenico Cipriano


Novembre
di Domenico Cipriano

Transeuropa, 2010

pp. 37



Novembre è il più crudele dei mesi, avrà pensato (inconsapevolmente parafrasando il poeta) il bambino decenne che nel 1980 vive in prima persona, tra lo sgomento e la «sorpresa», i risvolti drammatici del terremoto dell’Irpinia. Un’iniziazione al mondo adulto fatta di terra, calcinacci, cumuli di macerie, crepe, fuochi all’addiaccio e sangue, evidentemente incisa nella carne e nella memoria se a distanza di trent’anni, con «occhi / diversi», quel bambino, nel frattempo scopertosi poeta, ritorna a quella triste pagina della storia italiana più recente. È questa infatti, a ben guardare, la ragione profonda che anima le liriche di Novembre, la piccola ma intensa plaquette di Domenico Cipriano edita nel 2010 nell’accattivante collana di Transeuropa Inaudita, la quale in allegato propone il cd di Pippo Pollina sulla strage di Ustica, anch’essa avvenuta nell’annus horribilis 1980.

Seguendo briciole di pane tedesco: "La figlia dei ricordi"

La figlia dei ricordi
di Sarah McCoy

Nord, 2013

462 pp.



Esce oggi in Italia il bel romanzo The Baker's Daughter di Sarah McCoy, La figlia dei ricordi nella traduzione italiana curata da Nord. Un romanzo popolato di donne indimenticabili: da Reba Adams, giornalista trasferitasi dalla Virginia a El Paso, città di confine tra Texas e Messico e teatro di storie d'emigrazione, a Elsie Schmidt, trapiantata negli Stati Uniti, anziana e instancabile panettiera in una profumatissima Bäckerei. Con l'occasione di un'intervista a tema natalizio le storie delle due donne s'incrociano: Reba è una tipica donna del terzo millennio, con un carico di menzogne autoimposte, che sfoggia davanti agli altri un rigido veganismo per divorare, sola in casa, latte e biscotti al cioccolato; Elsie ha alle spalle una storia molto tragica, fatta di guerra e violenza, ma riesce a irradiare insieme alla figlia una luce argentina e solare. E l'articolo che Reba dovrebbe dedicare a Elsie, una strenna sulle tradizioni tipiche del Natale, si trasforma completamente: lo strazio della seconda guerra mondiale diventa specchio di altre guerre, la tragedia della Germania nazista, coi suoi problemi etici e culturali in gioco, non è in fondo tanto diversa da quella che Riki vede negli occhi degli immigrati messicani che, da funzionario della U.S. Border Patrol, deve riportare oltre confine sempre più a malincuore.

L'armadio dei vestiti dimenticati di Riikka Pulkkinen

L'armadio dei vestiti dimenticati
di Riikka Pulkkinen
Garzanti, 2012

" Le relazioni umane sono come boschi fitti. O forse le persone stesse sono boschi, nei quali si aprono nuovi sentieri, a ritmo serrato; sentieri destinati a restare ignoti a molti, che si manifestano per caso a coloro che si trovano a passare in quel momento."
Come spesso accade il titolo italiano di questo romanzo nulla ha a che fare con quello originale che è "Totta" cioè "verità". E nemmeno la quarta di copertina da un'idea sincera di ciò che si leggerà: ci si immagina una sorta di giallo familiare e invece si scopre una storia introspettiva e intessuta di spunti di riflessione sulla malattia, la vecchiaia, la morte, il
tradimento, gli affetti familiari e le dinamiche a volte contorte con cui affrontiamo il dolore e la perdita.
Confesso che credevo di intraprendere la classica lettura poco impegnativa da fine settimana durante la quale rilassarmi e spegnere la mente, mentre ho avuto la sorpresa di trovarmi davanti un libro lieve e denso allo stesso tempo, pervaso dalle atmosfere nordiche e dalla poesia malinconica dei finlandesi. Ma anche di una saggezza semplice che sorprende quando si scopre che Riikka Pulkkinen, autrice de L'armadio dei vestiti dimenticati, non ha nemmeno 30 anni.

Ragione e rivelazione


Ragione e rivelazione
Introduzione alla filosofia della religione
di Pio Colonnello e Pasquale Giustiniani

Borla, 2003

pp. 400



Dicono bene Colonnello e Giustiniani tra le primissime righe del loro bel libro, Ragione e rivelazione: riflettere, o meglio, riflettere dubitando su un oggetto di studio [1] complesso come la religione, implica il raggiungimento ovvio dei limiti della ragione. Perché la religione è un oggetto "immenso, che evoca insondabilità e non-riconducibilità" [2]. Se poi teniamo conto che questa riflessione si svolge in un'età, quella contemporanea,  particolarmente complessa, allora... allora le cose si infittiscono, per non dire che si mettono - filosoficamente - male. 
Ed ecco, dunque, la domanda più pericolosa: come produrre un concetto sulla divinità, la quale, per statuto [3] sfugge a qualunque concettualizzazione?