CriticaLibera - Teorie della traduzione. Prima puntata

Con questo post desidero inaugurare una piccola serie di contributi sulle teorie contemporanee della traduzione, ossia su quell'interesse più o meno articolato e organico sviluppatosi nell'ultimo mezzo secolo nei confronti del problema della traduzione. Per economia di tempo e per il carattere generale e quanto più divulgativo di questi contributi, indico come unico testo per chi volesse approfondire la bella raccolta di saggi Teorie contemporanee della traduzione a cura di Siri Nergaard (Bompiani, 1995) da cui - tra l'altro - mi permetto di prendere spunto.

Il rendere la traduzione un campo indipendente - o quasi - di ricerca è un'idea prettamente moderna, infatti le precedenti speculazioni al riguardo erano state per lo più elaborate in calce ad opere di traduzione per definire i criteri adottati e le difficoltà incontrate dal traduttore. Anche se il delinearsi di una certa autonomia ha sicuramente sfalsato l'equazione esperienza di traduzione = processo di teorizzazione, io sarei piuttosto cauto a scindere la fortissima componente soggettiva ed individuale presente inevitabilmente in ogni teoria della traduzione di cui m'accingo a parlare. La traduzione pertiene a quella parte di cultura che non può prescindere dall'intervento d'un interprete.
La traduzione è un'arte performativa. Mi spiego meglio: tradurre è in fin dei conti interpretare ossia portare da un codice linguistico ad un altro un messaggio con la maggiore comprensibilità e la minore compromissione. Spiegatemi in cosa allora il ruolo del traduttore diverge da quello di un musicista concertista. O di un attore di teatro. O ancora di un ballerino. Tutte queste categorie di artisti veicolano un messaggio con una forte impronta di soggettività, tanto più determinante quanto più supportata dal loro spirito critico. A loro interessa il preciso istante in cui l'opera d'arte giunge al suo fruitore. Nient'altro. Non si parla più della quinta Sinfonia di Beethoven, ma di quella di Karajan. Moby Dick di Melville o di Pavese?
Qualsiasi traduzione, qualsiasi esecuzione però è destinata inderogabilmente ad invecchiare, perché è il suo codice stesso di trasmissione a non essere eterno e a dover essere aggiornato ogni qual volta se ne presenti la necessità. Detto questo, mi arrischio ad affermare che anche una teoria della traduzione invecchia, proprio perché disciplina estremamente pratica, desunta dall'atto stesso della traduzione e non (almeno nella maggior parte dei casi) imposta aprioristicamente ad un testo non ancora nato. Una teoria della traduzione non è altro una chiave interpretativa d'una pratica, o meglio un punto di vista. E se il punto di vista cambia con il tempo, cambierà anche la maniera di tradurre, di interpretare.
Anche l'opera d'arte - Meschonnic insegna -  subisce l'influsso del tempo, ma al contrario della sua traduzione che invecchia, il testo si trasforma. Perché? Perché ciascuna delle sue componenti viene vista, tradotta, interpretata diversamente man mano che cambiano gli approcci. E la traduzione, lungi dall'essere un mero mezzo di comprensione, un prodotto secondario e meno pregiato dell'opera d'arte, diviene una lente ermeneutica che con le sue aggiunte e sottrazioni di significato aiuta a comprendere in maniera più completa il testo di partenza. Leggere la storia della traduzione d'un testo è complemento essenziale della storia della sua comprensione.

La teoria della traduzione a partire dagli anni '60 ha visto avvicendarsi varii e coloratissimi caroselli di approcci, catalogabili attraverso diversi parametri (campo d'indagine, genere testuale ecc...). Seguendo la trattazione della Nergaard, mi propongo di seguire il criterio cronologico ed allo stesso tempo quello dell'intitolazione della branca di studi data dagli studiosi stessi. All'inizio, sotto la spinta delle teorie matematiche dell'informazione di Weaver e Shannon e dell'approccio generativista di Noam Chomsky (secondo cui - detto approssimativamente - ogni grammatica genera enunciati, standone sì alla base, ma non in maniera meccanica) si parla di una Scienza della traduzione (orig.: Übersetzungwissenschaft).  Siamo in Germania e negli Stati Uniti e i nomi sono quelli di Kade, Koller, Wills, Nida, Mounin e Catford Accade qui un tentativo di scientifizzazione spinta e della lingua e dell'atto linguistico, e con essi della traduzione, con il fine non troppo sottaciuto di adattare la traduzione alla logica del calcolatore e pervenire a regole che possano perfezionare i traduttori automatici.
Oggi Google Translate ci mostra il fallimento di quelle teorie. In verità è possibile sì ottenere risultati soddisfacenti, ma solo al prezzo di estreme riduzioni del campo d'indagine. Una traduzione accettabile può essere ricavata da frasi semplici e non da un testo letterario - ad esempio - che è assolutamente escluso da questo genere di studi. Il problema, come rileva Anthony Pym, è il tentativo di equivalenza operato a livello meramente linguistico e non testuale, nell'illusione di poter creare criteri di equivalenza fissi che non variino ad ogni contesto testuale. Inoltre, altro peccato veniale di questo approccio, risiede nella sua source-orientedness, ossia la sua assoluta dipendenza e funzionalità al testo originale ma non al testo di arrivo, che apparirà assolutamente poco naturale e carico di tutte le contraddizioni del caso.
La seconda generazione di traduttori-teorici si caratterizza come una reazione violentemente anti-linguistica e anti-prescrittiva al movimento precedente. Essa appare come ispirata al più vivo empirismo, facendo scaturire teorie della traduzione direttamente dallo studio del fenomeno in sé, spostando l'interesse dalle relazioni interlinguistiche a quelle intertestuali. Altre peculiarità sono la non-normatività e la non-source-orientedness.  I primi impulsi di questa nuova corrente si ritrovano nei Paesi Bassi con i contributi di Holmes, Lambert e Van der Bröcke, con sviluppi interessanti in Francia ad opera di Meschonnic, Ladmiral e Berman. A questo gruppo appartengono anche le speculazioni dei formalisti russi Tynjanov e Ejxenbaum, nel tentativo di definire il concetto di letterarietà, fornendone una "forma" ben precisa.
La terza ed ultima generazione è stata battezzata dalla Nergaard con il nome di Translations Studies, ad evidenziare il carattere universitario assunto dalla speculazione sulla traduzione, con la nascita di corsi, pubblicazioni, conferenze e seminari dedicati all'argomento. Non si tratta quindi né di scienza, né di teoria, ma di descrizione. Questo tipo di approccio è - a parer mio - il più rispettoso della profonda individualità della traduzione, in quanto si prefigge di descrivere e non di postulare più o meno arbitrariamente, facendo tesoro anche delle esperienze passate. L'interesse precipuo è quello culturale, non linguistico, nella concezione di una traduzione che funga da comunicazione interculturale.
E già all'interno dei Translations Studies è possibile individuare delle correnti che sembrano destinate a riscuotere un discreto successo, tanto forse da caratterizzarsi come fatto a sé stante. Parlo della deriva post-strutturalista propugnata da Derrida e De Man, che mettono in discussione i concetti tradizionali di originalità, autorità e testualità, aprendo a nuovi orizzonti e prospettive.

Adriano Morea