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CriticaLibera: In Italia, Montaigne evita le diapositive

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Il n. 521 (luglio-agosto 2012) del Magazine Littéraire, oltre a un mini-dossier sul ruolo e l’importanza dell’utopia nella cultura e nella letteratura contemporanee, incentra il suo abituale dossier sulla letteratura di viaggio (Eloge du voyage), dal quale abbiamo selezionato e tradotto per voi due articoli: il primo, che abbiamo pubblicato la settimana scorsa, è un pezzo di Christine Jordis dedicato a Bruce Chatwin; il secondo, che pubblichiamo oggi, è firmato dal direttore del Magazine, Joseph Macé-Scaron, e propone una lettura del Viaggio in Italia di Montaigne.





In Italia, Montaigne evita le diapositive 

di Joseph Macé-Scaron
traduzione di Paolo Mantioni



Nel 1770, l’Abate di Prunis, in visita nei possedimenti di Montaigne, scopre in un vecchio baule con le serrature divelte il racconto di un viaggio in Italia, termine ultimo che ha condotto l’autore dei Saggi attraverso l’est della Francia, la Germania, poi la Svizzera.
Il manoscritto che il prelato riesce a mettere insieme è privo dei primi fogli. È redatto in gran parte in francese, per il resto in italiano. Dopo diverse peripezie (certi passaggi che mostravano un Montaigne molto diverso dalla sua immagine ufficiale dovevano essere soppressi o no?) il manoscritto è pubblicato… quattro anni dopo, prima di sparire e poi riapparire come per incanto. La vita delle grandi opere è talvolta altrettanto romanzesca di quella dei loro autori. Infatti, non appena ci si avvicina a questo manoscritto il mistero si infittisce. La prima parte è stata scritta dal segretario di Montaigne, che quest’ultimo congederà a Roma. Perché? Solo lo scrittore Gérard Oberlé [noto bibliofilo francese, N.d.T.] potrebbe rispondere. La seconda è scritta da Montaigne e concepita come la prova della vita ai Saggi: avvicinarlo dal suo diario di viaggio, è un antipasti [sic, in italiano nel testo, N.d.T.], significa avvicinarlo dall’intimità. Lascia il suo seggio d’umanista per «abbassarsi a vivere».

Nel giugno 1580, a 47 anni compiuti, Michel de Montaigne, che viene considerato ancor oggi un sedentario solitario, lascia il suo castello in Guascogna per un periplo a cavallo di quasi un anno e mezzo in Europa. Attorno a lui, ha messo insieme una piccola compagnia di parenti, amici e servi. Il motivo del periplo è la ricerca di acque in grado di alleviarlo dalla renella. Sedotto dall’ignoto, dal cambiamento incessante di luoghi e uomini, l’autore dei Saggi, che sono appena stati pubblicati nella prima edizione in due libri, sfinisce i compagni di viaggio e attraversa Mulhouse, Basilea, Costanza, Augusta, Monaco di Baviera, Innsbruck. Dopo un’escursione sul lago di Garda, entra in Italia. Direzione Verona.
All’epoca, uno scrittore italiano, Luigi da Porto, ha appena pubblicato un racconto sull’odio tra due famiglie locali, i Montecchi e i Capuleti, e il destino tragico di Giulietta. In letteratura, gli scrittori si parlano scavalcando tempi e spazi. Shakespeare immortalerà il testo di Luigi da Porto e attingerà a piene mani dal terzo libro dei Saggi.
Dopo Verona, una fermata a Padova [Padoue in francese, N.d.T.]. “Badoue” scriverà più tardi André Suarès per sottolineare la pesantezza di questa città. Vi soggiornano più di cento gentiluomini francesi. Montaigne rifiuta questa “malagrazia” di raggrupparsi per nazioni: «Io mi sono sempre precipitato al tavolo più ingombro di stranieri» (III, ix). Non esita a percorrere venticinque miglia tutte d’un fiato per arrivare a Venezia. Dopo Lepanto, la città è al culmine della gloria, ma l’autore dei Saggi vede già nella Repubblica acquatica un grande corpo in decomposizione. Sara l’«odore delle acque stagnanti»? Si prosegue per Ferrara, in quest’Italia dove ogni città è un regno a parte, un coriandolo di sovranità. Ogni regno ha titoli per essere ricordato dagli uomini. Dopo Ferrara, Bologna, Loiano, Scarperia, Firenze, Siena, Roma…I meandri del suo percorso sono l’immagine di un’estetica della fluidità. Montaigne è un viaggiatore ondivago: «So bene quello che fuggo, ma non quello che cerco» (III, ix). Certi commentatori hanno poi rilevato la disinvoltura del visitatore rispetto alle opere d’arte, il suo scarso interesse apparente per i grandi artisti del Rinascimento italiano. Chateaubriand si è risentito di questa assenza. Come? Niente Leonardo da Vinci, niente Giotto? E Stendhal, pieno di sé, gonfio d’estetismo, scrive in Passeggiate romane il 28 novembre 1828: 
«Mi daranno del cattivo [corsivo nel testo, N.d.T.]. Che importa? (…) quando Montaigne passò a Firenze, erano passati solo diciassette anni dalla morte di Michelangelo. Gli affreschi divini di Andrea del Sarto, di Raffaello, di Correggio erano ancora umidi. Ebbene! Montaigne, quest’uomo pieno di spirito, così curioso, così libero da impegni, non ne ha detto una parola».
Si potrebbe rispondere che questa “mancanza” si spiega con la reticenza dell’autore dei Saggi riguardo a tutto ciò che tradisce lo studio. Se si è sapienti, più di ogni altra cosa non bisogna dimostrare di esserlo. La finezza di spirito si riconosce nello sfumato [in italiano nel testo, N.d.T.] di Leonardo, quella maniera di cancellare i contorni troppo evidenti del sapere. Ciononostante, Montaigne non sfugge alla pedanteria degli umanisti quando si tratta di rilevare la giustezza di una citazione latina o greca. Allora perché questa reticenza a citare un’opera d’arte? Con finezza, François Rigolot (in Les Métamorphoses de Montaigne, Puf, 1988) ci suggerisce l’influenza del neoplatonismo. Un residuo della severità aristocratica rispetto alle rappresentazioni artistiche destinate ad adulare i sensi e non a cercare la verità.

E a noi, non capita anche a noi d’avere la nausea davanti a questo profluvio artistico? Già André Suarès, da buon condottiero [corsivo nel testo, N.d.T.], soffocava uno sbadiglio davanti a queste matrone che aprivano verso il cielo occhi enormi per non vedere nulla, attorniate da una congerie di santi, questa profusione di putti con le dita tese a mostrare il vuoto. Davanti a questo Nettuno, quest’Ercole, questo Giove antichi dei quali si indovina la carne bianca e molle come il ventre dei pesci morti, a dispetto dei doppi pettorali e della doppia banda dei muscoli delle braccia. Era veramente necessario guardare e poi citare tutte queste opere? Non sarebbe confondere Montaigne con Dominique Fernandez [scrittore francese contemporaneo, N.d.T.]? Siamo tenuti a nominare tutte queste opere con il rischio di “fare” l’Italia o di “fare” i musei, con il rischio di essere i turisti in serie? Chi di noi non è stato asfissiato dalla noia davanti alle sale I, II, III, IV…dove s’affollano maestri minori? Chi di noi non ha pensato almeno una volta a Degas, che proponeva di scoraggiare le arti e che pestava contro questa folla d’artisti che, nelle epoche “giuste”, fanno press’a poco tutti la stessa opera abile e sapiente? Talvolta ci prendono tentazioni iconoclaste.

Come ha detto Suarès, Matteo Civitali, Garofalo, Benedetto da Maiano, se fossero solo vissuti non mancherebbe nulla all’arte. Eppure, i musei dei più piccoli borghi del Lazio rigurgitano delle loro opere. Ma c’è un’altra ragione per questo silenzio pesante. In ogni caso, rotto, a volte, ad esempio quando Montaigne si sofferma sul Mosè di Michelangelo, o ammira, a Firenze, le celebri tombe dei Medici. E questa ragione è la stessa che scava l’assenza del Partenone, comunque l’orgoglio del secolo di Pericle, nei Dialoghi di Platone, proprio quando Socrate e i suoi discepoli passano più volte al giorno davanti al monumento. È che Montaigne e il suo caro Socrate hanno incontrato durante il cammino qualcosa di più bello di una cattedrale o di un tempio, di più profondo di un dipinto o di una statua: l’uomo. Ed è forte di questa certezza che l’autore dei Saggi rientra in Francia, infinitamente più “emancipato” dei suoi confratelli umanisti, e noi, lettori, con lui. Può ormai dire a se stesso: «L’Italia non è affatto in Italia. È ovunque sono io».