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Erri De Luca - Tu, mio

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Tu, mio
di Erri De Luca
Universale Economica Feltrinelli, 2003

116 pp.
€ 6.50

Partivo da lì, dall'accidente che accompagna a vita una persona più di un'ombra, perché almeno al buio l'ombra smette, il nome invece no. E vuole essere così parte di una persona da pretendere di spiegarla, di annunciarla: "io sono" e poi segue il nome, come se si possa essere un nome, anziché avere un nome. Mi accorsi più tardi che lei non diceva "io sono Caia", ma "mi chiamo Caia". Lei non era Caia, un nome, lei era una persona che si chiamava così. Forse voleva tenere a bada quel piccolo pezzo d'identità, oppure non le piaceva. Ecco, già sta vo indagando su di lei, in cerca di una sua verità. Ci si innamora così, cercando nella persona amata il punto a nessuno rivelato, che è dato in dono solo a chi scruta, ascolta con amore. Ci si innamora da vicino, ma non troppo, ci si innamora da un angolo acuto un poco in disparte in una stanza, presso una tavolata,   seduto in un giardino dove gli altri ballano al ritmo di una musichetta insulsa e decisiva che fa da colla di pesce per una faccia che si appunta a spilli sul diaframma del petto.
In un piccolo paese del meridione italiano nel dopoguerra, un io-narrante sedicenne vive la sua «estate brutale di amore e di furore», a contatto con le regole inflessibili del mare («Si ottiene dal mare quello che ci offre, non quello che vogliamo») e la ferocia del primo innamoramento per una ragazza più grande, Caia:
Incontrarti è stato come il sole che spacca la pelle e l'aspro dello scoglio che indurisce la pianta del piede. Mi hai fatto crescere un'altra buccia sopra la mia, mi hai dato ingresso al mondo chiamandomi tuo.
Tra le parole sagge dello zio e di Nicola, pescatori, e gli incontri procacciati dal cugino Daniele, il protagonista si misura con un mondo che in città non conosce. Libero della libertà dei ragazzi, ma anche interessato a quella Storia di guerra che ormai si sta seppellendo anche nei racconti dei reduci, il protagonista non è un tormentato Agostino, ma pare riproporre in chiave più problematica la spinta vitale del giovane Arturo morantiano, sullo sfondo di un paesaggio-personaggio almeno topograficamente affine. 
E l'isola è luogo fatato d'incontro con la bella Caia,
o Hàiele come si dovrebbe pronunciare. Scottata dalla guerra, in cui ha perso l'amatissimo padre, la ragazza tradisce un certo interesse per il protagonista, pur mantenendo compostezza e una certa ritrosia, forse per via della differenza d'età. Se il protagonista si strugge e alimenta lo struggimento in una dinamica lievemente masochista da acerbo innamorato, Caia tiene vivo il sentimento, con poca ma curiosa malizia. E dunque non resta che vivere di piccole emozioni, senza che i desideri si palesino in alcun gesto:
Lei a bassa voce quasi senza aprire le labbra mi disse: "Fammi sentire ancora il mio nome". La guardai, non negli occhi, un po' più sopra, all'attaccatura dei capelli dove il liscio delle sue ciocche di carrubo spiccava forte e dove mi sarebbe piaciuto baciarla. "Hàiele", dissi con una voce non mia. "Ancora." "Hàiele." Chiuse gli occhi fino a stringerli, poi li spalancò e disse: "Cerca di non far sentire la elle, scioglila in bocca come una caramella" e mi fece sentire il suono. Ripetei il suo nome. "Così, io mi chiamavo così, come hai detto ora. Non voglio sapere come fai a saperlo. Non ti voglio raccontare niente. Tu non dire questo nome davanti agli altri. Per tutti io sono Caia. Solo per te io sono Hàiele. Sei capace di questo?" Stavolta chiusi gli occhi io, non vidi più il punto della sua fronte, dissi di sì con quella strana voce grave, tono profondo di trachea, un basso di chitarra. Lei mi baciò la guancia che avevo gli occhi ancora chiusi. "Ti voglio bene Hàiele", "Lo so" e si staccò di un passo. Cambiò tono, ritornò Caia dicendo: "Fatti vedere in giro e datti una bella strigliata".
Piuttosto che vivere una classica storia d'amore adolescenziale, il protagonista assume più volte - e suo malgrado - gli atteggiamenti e l'intonazione di voce del padre di Caia, in un gioco di rispecchiamenti e di proiezioni edipiche. Lo struggimento della ragazza porta a condividere momenti di chiara impronta familiare, a sovrapporre per qualche tempo il sentimento figliale a quel tenero turbamento d'attrazione. Ne nascono pagine di grande delicatezza, che non hanno niente di inquietante o strampalato, ma che parlano di un affetto straordinario, che travalica i confini delle identità, nonché della vita e della morte. E al protagonista non importa che Caia lo ami come il suo 'tate' (padre), purché lo degni di quelle attenzioni che ha rincorso per tutta l'estate, fino al momento dei saluti: 
Il vento si portava via le parole, non so se le sentiva, se voleva sentirle. Mi prese il braccio libero dalla valigia, se lo strinse al fianco. Camminammo piano col vento che veniva da mare. Il mio corpo magro non bastava a ripararla. "Non ci hai messo davvero niente in questa valigia." Si fermò un poco, poi con un'eco di metallo, un filo d'argento nella gola, finì di dire: "Penso che siamo molto coraggiosi a non piangere".
 E un finale tutt'altro che scontato avvince e convince il lettore a chiudere questo libro di Erri De Luca e a cercarne un altro nella sua abbondante produzione.

Gloria M. Ghioni