in

Gilles Deleuze, Proust e i segni

- -


Marcel Proust e i segni
di Gilles Deleuze
Einaudi, Torino 1986 (2° edizione).


Questo libro è sicuramente uno degli snodi ineludibili, uno dei punti di riferimento certi dell’interpretazione dell’opera proustiana. Non si tratta tanto della plausibilità o della genialità delle tesi in esso sostenute, Deleuze non mira a far convogliare l’opinione del lettore della Recherche verso una determinata interpretazione di essa. Questo libro aspira a realizzare una visione d’assieme della grande opera proustiana illuminandola e giustificandola dall’interno, secondo un procedimento che ne fa un sistema di segni, un Testo perfettamente autosufficiente. Dunque in un certo senso le tesi del filosofo francese non possono essere oggetto di discussione, non sono opinabili, hanno il precipuo scopo di arricchire e perfezionare lo strumento percettivo del lettore. Il quale a sua volta non che discuterle, di queste tesi può al massimo farne a meno e cercare altrove il senso o il valore della Recherche: nell’irriflesso godimento estetico, nella storiografia letteraria, nella tessitura retorico-letteraria, negli insegnamenti in essa contenuti, ecc.

Nella prima parte Deleuze si impegna in un confronto serrato con il versante saggistico dell’opera proustiana. Lo specifico letterario (tessitura retorico-stilistica, elezione della materia narrata e sua distribuzione, punto di vista, ecc.) ne è apparentemente escluso e l’oggetto delle tesi di Deleuze è il sistema filosofico-estetico espresso da P. nella sua opera. E già a questo livello “preliminare” alcune osservazione sono comunque di assoluto rilievo (e non così digiune di specifico letterario come potrebbe sembrare a prima vista). “La Ricerca è rivolta verso il futuro e non verso il passato” (pag. 6), l’affermazione, apparentemente apodittica, nasce anche da una specifica osservazione della rigida distribuzione lineare della materia narrata e dal fatto che la rivelazione del Temps rétrouvé doveva essere tale sia per il Narratore che per il lettore (e in questa osservazione rientra anche un indizio offerto dalla filologia, ossia l’ostinazione di P. a non voler anticipare a mo’ di prefazione le conclusioni dell’ultimo volume anche quando le incomprensioni dello Swann glielo avrebbero suggerito). La Recherche è un percorso di apprendimento delusivo durante il quale il Narratore scopre, facendone esperienza, che i segni della mondanità sono vacui, quelli dell’amore mendaci e quelli della sensibilità materiali: solo i segni dell’arte, in quanto spiritualizzati, conducono alle essenze, che sono “a-logiche o sopra-logiche. Esse oltrepassano gli stati della soggettività non meno che le proprietà dell’oggetto. L’essenza costituisce la vera unità del segno e del senso” (pag, 36/37). 
“L’essenza artistica ci rivela un tempo originale (…) E quindi, quando parliamo di un «tempo ritrovato» nell’opera d’arte, si tratta di questo tempo primordiale”, 
un tempo eterno che dà ragione della persistenza nel tempo storico delle esperienze provocate dai prodotti estetici, ovvero dà ragione del perché ogni scrittore “ricomincia da Omero”, o del perché l’esperienza estetica della lettura della Divina Commedia o dell’Orlando Furioso non si esaurisce con i dati materiali da cui quelle opere traggono origine (il pensiero filosofico di Dante, la sua esperienza biografica, o la tradizione delle Chanson de geste). Con la “madelaine”, ma anche con l’elezione arbitraria e fortuita di un essere da amare all’interno dell’onda indistinta delle fanciulle in fiore, si realizza la “contingenza” (la puntualità spazio-temporale) necessaria per accedere all’essenza, all’Idea, al Tempo primordiale, evento che non si può volontariamente provocare, ma che si può solo cogliere. 
“Sta di fatto che la verità non si concede, si tradisce; non si comunica, si interpreta; non è voluta, ma involontaria” (pag. 88), 
nell’arte la verità si “rappresenta”, la sua comunicazione sta nella rappresentazione, nella condivisione tra artista e fruitore dell’opera, non è opinabile o falsificabile, è solo ostensibile perché rimanda ed è racchiusa in un oggetto formale che basta a se stesso, oggetto che ne certifica l’autenticità e ne è a sua volta certificato. Con il rifiuto dell’ironia (che dal punto di vista dello specifico letterario avrebbe distanziato Personaggio e Narratore facendo cadere il senso della Recherche in quanto apprendimento) Proust fa a meno di un aspetto dell’intelligenza che ne asserirebbe la superiorità sulla semplice rappresentazione, viceversa il segno (la mondanità, l’amore, le comunicazioni ultraterrene) si presenta con “violenza” e pretende di essere interpretato “fortuitamente e inevitabilmente”. Ma il rifiuto dell’ironia classica, l’ironia socratica, è preliminare anche al rifiuto della composizione e della pacificazione della parte nel tutto e viceversa: la Recherche è il trionfo del frammento in sé, di una parte che non trova composizione e pacificazione nel tutto. Ogni singolo frammento ha un suo “punto di vista superiore” che lo fa accedere all’essenza e alla verità, senza però che venga ricomposto in una verità di ordine superiore, perché se si postula una verità ulteriore, successiva al frammento rappresentato, si dissolve la verità del frammento stesso. Cosicché anche la fluidità e la malleabilità della materia narrata, che risulta evidente all’indagine filologica ma è rilevabile anche attenendosi strettamente al testo, hanno proprio il compito di impedire ogni cristallizzazione dell’opera e ogni interpretazione unica o onnicomprensiva di essa, di qui anche le idee di cattedrale o di enciclopedia, ma di cattedrale senza “stile” unificante e di enciclopedia senza “episteme” organizzante.

Le seconda parte del libro sembra avvicinarsi di più alla considerazione più puntuale della specificità letteraria, le tesi si fanno più articolate e sfumate, perdendo il carattere apodittico della prima. Anche se gran parte del lavoro preliminare del critico letterario, quella che potremmo definire dell’analisi testuale, rimane in qualche modo sottesa, è più uno sfondo che un primo piano. E proprio nel momento in cui Deleuze sembra fiancheggiare pericolosamente il baratro dell’autoreferenzialità, dell’autosufficienza del sistema di segni organizzato dal Testo, quando ci dice che esso è innanzitutto una “macchina che funzione”, la prospettiva subisce un radicale ribaltamento e il senso della Recherche e dell’opera d’arte viene indicato nella loro capacità di produrre effetti sul lettore e sul fruitore. La cifra, il valore essenziale, di questo libro di Deleuze su Proust è contenuta proprio in quelle 3 o 4 pagine (tra pag. 141 e pag. 144) che meritano di essere ripercorse dettagliatamente. 
“Ciò che è nuovo in P. (…) non è solo l’esistenza di quelle estasi o di quegli istanti privilegiati. (…) Ciò che è nuovo, è il fatto stesso che li produca, che diventino l’effetto di una macchina letteraria” 
E’ lo stesso dubbio proustiano a condurci su questa via: se quegli istanti esistono prima e indipendentemente dal testo, qual è la funzione della letteratura? 
“Che l’arte sia una macchina di produzione, e per l’appunto di produzione di effetti, Proust ne è pienamente cosciente. Effetti sugli altri, perché i lettori o spettatori inizieranno a scoprire in sé effetti analoghi a quelli che l’opera letteraria ha saputo produrre”. 
Tutt’altro che autoreferenziale, la Recherche ha il precipuo scopo di produrre effetti sul lettore, gli fornisce lo strumento ottico con il quale anzitutto ri-attualizzare le verità rappresentate nel testo, e poi di ri-viverle dentro di sé. 
“E’ l’opera d’arte a produrre in se stessa e su di sé i propri effetti, colmandosene, nutrendosene: si nutre della verità che essa stessa genera”. 
Attraverso la scrittura, l’elaborazione formale del testo, attraverso la “macchina che funziona”, l’Autore fa scoprire al Narratore che quelle “comunicazioni ultraterrene” possono sempre più allontanarsi dalle condizioni oggettive e soggettive che le hanno prodotte, possono perdere il loro carattere aleatorio e divenire “le libere produzioni di una produzione artistica”.

L’arte, il Libro non è uno strumento per ghermire e fissare momenti epifanici, ma è la forma, l’unica condivisibile, nella quale quei momenti possono manifestarsi. L’arte è manifestazione di verità.
Paolo Mantioni