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Una donna di Sibilla Aleramo

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Una donna
di Sibilla Aleramo
Feltrinelli, Milano 2003

pp. 272
€ 9.50

“Una donna” sembra un titolo semplice, la trama del romanzo autobiografico di Sibilla Aleramo; al contrario, nasconde una complessità difficile da definirsi. Il piano letterale è quello che racconta la vita della donna educata dal padre nel culto del lavoro e sposata a un uomo gretto dalla cui mediocre influenza è arduo affrancarsi. 
Il “valore aggiunto” dell’opera, invece, risiede nella “questione sociale” dei primi movimenti peroranti l’emancipazione femminile
In questo contesto si collocano sezioni meditative caratterizzate da una prosa tanto più raffinata quanto più amaro ne è il contenuto: 
“Tutti si accontentavano: mio marito, il dottore, mio padre, i socialisti come i preti, le vergini come le meretrici: ognuno portava la sua menzogna, rassegnatamente. Le rivolte individuali erano sterili o dannose: quelle collettive troppo deboli ancora, ridicole […] e incominciai a pensare se alla donna non vada attribuita una parte non lieve del male sociale.” 
Nonostante la dichiarata sfiducia nelle rivolte personali, la protagonista porta a compimento la propria. Ciò che “ferisce” il lettore è che questa si adempia proprio nello scioglimento di quel vincolo che la rese pienamente donna ovvero nel sacrificio della maternità. Tanto più commovente, a mio avviso, è il fatto che a condurla verso una tale risoluzione sia la riconciliazione con la memoria della madre a coronamento di una rapporto controverso. 
Parallelamente a questa relazione, l’atteggiamento d’adorazione della giovane protagonista verso il padre costituisce un secondo punto focale e, più precisamente, il nodo su cui si apre il romanzo. Mi sembra dunque significativo che il rapporto col primo uomo in grado di plasmare il suo essere “donna” subisca un’evoluzione, deteriorandosi progressivamente man mano che il punto di vista della narratrice va maturando configurandosi sotto prospettive femministe.
Il padre, imprenditore, rappresenta anche la mentalità borghese e capitalista, il fidanzato della figlia minore, l’ingegnere preoccupato della questione sociale, invece, il formarsi della coscienza proletaria. Altri uomini come un medico e un professore, altrimenti detto “il profeta”, spiccano per intelligenza e unicità ma anche come personaggi solitari e malinconici in cerca di riscatto, quindi affini all’eroina. 

Si tratta comunque di personaggi abbozzati che emergono solo sullo sfondo di un’umanità complessa, declinata al femminile. La direttrice del periodico con cui collabora la protagonista, la vignettista norvegese, l’anziana e compassionevole domestica ma anche la cognata maligna fanno da controparte all’editore, all’affascinante fisiologo e ad altri uomini a volte meschini pronti a considerare la donna come oggetto più che come “persona umana” secondo la rivendicazione dell’autrice. Davanti alla lenta reificazione del suo essere inizia la ribellione della protagonista, una rivolta che parrebbe una fuga e che si risolve in un’opera di servizio presso un ospedale pediatrico. La maternità non viene negata. Essa viene solo trasformata da biologica in spirituale
Paradossale, ossimorico e, forse per questo, poetico che in mezzo a tanta disperazione, la protagonista ritrovi una ragione di vita: 
“e credetti di non poter sopportare la sofferenza fisica di un tale spettacolo ripetentesi all’infinito … fu da allora che ho ripreso risolutamente a vivere; dopo aver sentito di nuovo gli altri vivere e soffrire. E da allora ho anche avuto il bisogno di sperare di nuovo: per tutti, se non per me”. La vicenda si chiude circolarmente e, se un tentativo di suicidio era seguito alla nascita del figlio naturale, davanti al “martirio” di tanti “figli dell’anima” l’attaccamento alla vita diventa più tenace: “guardando in faccia la vita e la morte, non le temo, forse le amo entrambe”.
Eva Maria Esposto

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