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Tennis, tv, trigonometria, tornado (e altre cose divertenti che non farò mai più)

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Tennis, tv, trigonometria, tornado
(e altre cose divertenti che non farò mai più)
di David Foster Wallace
minimum fax, Roma 1999

Ci sono autori completamente realizzati nella loro opera, i cui singoli tasselli sono parti di un tutto che va sempre tenuto presente, perché ogni libro rimanda ad altri libri, ogni pagina si connette ad altre pagine ancora, e tutte le parole concorrono alla compiutezza di un lavoro e di un’esistenza. 
Certo non occorrono presentazioni per riconoscere a David Foster Wallace, superba e indiscutibile voce americana, lo statuto di autore cardine e pensiero guida nella formazione della propria e delle successive generazioni di lettori e scrittori (non tutti, ma non pochi), e questo va ribadito ancor prima degli straordinari meriti tecnici che il suo precoce talento ha saputo svelare, ancor prima delle eccellenti costruzioni narrative di cui è stato capace nel tempo, dopo il folgorante esordio de “La scopa del sistema” e passando per il libro-evento (oltre 1400 pagine) “Infinite Jest”. Ideale prosecuzione di “Una cosa divertente che non farò mai più”, “Tennis, Tv, trigonometria, tornado (e altre cose divertenti che non farò mai più)” si configura come una raccolta di sei reportage differenti per taglio e argomento, il cui valore più immediato consiste nella loro trasversalità narrativa. 
Non ci troviamo infatti di fronte a sei saggi canonicamente strutturati, e ideologicamente granitici: al contrario, Wallace ci propone un approccio intimistico alla materia trattata, in cui la figura dell’autore – meglio ancora: il suo sguardo come personaggio – diviene un aspetto fondamentale nella descrizione e lettura delle realtà particolari. Autobiografia, gusti personali, contaminazioni e idiosincrasie permeano efficacemente le pagine di questo volume, conferendo loro un carattere di originalità ed una vivacità affabulatoria, all’insegna della più nera ironia, che i saggi tradizionalmente intesi non possono concepire o mettere in atto. Così le geometrie che il gioco del tennis richiama, o il comportamento dei venti sui butterati campi dell’Illinois, diventano l’occasione per una riflessione dolceamara sull’iniziazione preadolescenziale alla dura realtà della competizione e della sconfitta (“Tennis, trigonometria, tornado”); l’analisi del medium tv e dei suoi rapporti con la letteratura contemporanea si trasforma nella presa di coscienza che la grande narrativa d’immagine di matrice postmoderna rischia costantemente di essere fagocitata dal linguaggio televisivo, e necessita di un riscatto che nuovamente la liberi (“E Unibus Pluram: Gli scrittori americani e la televisione”); il racconto di una visita a un’enorme e affollatissima fiera nell’Illinois rurale, in compagnia di una vecchia fiamma del liceo, rivela la solitudine dell’esistenza americana, la desolazione del “paese reale”, celata dietro alle masse e al frastuono (“Invadenti evasioni”); un istantaneo capitolo di critica letteraria a denti stretti contesta le teorie che riguardano la “morte” dell’autore e la sua riduzione a figura “a posteriori”, indebolita di identità (“Che esagerazione”); ancora – e queste sono davvero le pagine più interessanti, probabilmente – la descrizione della vita sul set del film “Strade perdute” si fa pretesto per una riflessione a-sistematica sul percorso del regista David Lynch, sulla direzione della sua opera, sulla sua visione di bene e male, sui suoi modelli, sulle ragioni della sua ineludibile capacità di penetrare e turbare le nostre coscienze di spettatori (“David Lynch non perde la testa”: credo siano riflessioni decisive per Giuseppe Genna, che descriverà uno spiazzante incontro con Lynch nel suo “Italia De Profundis”); infine, a chiudere il cerchio, un ritorno ai campi da tennis dei tornei professionistici, cogliendo nella parabola del campione a metà Michael Joyce i tratti dell’individuo che insegue il suo sogno in contrapposizione ai fatali limiti del gioco, dello sport, della società spettacolo e dell’esistenza stessa (“L’abilità professionistica del tennista Michael Joyce come paradigma di una serie di cose tipo la scelta, la libertà, i limiti, la gioia, l’assurdità e la completezza dell’essere umano”). La forza di questo saggio non può consistere dunque nella sua sintesi; ciò che rimane di queste pagine così fitte e magnetiche è l’infinito potere manipolatorio del linguaggio, la capacità vertiginosa di elaborare (e superare) la riflessione umana.

Questo è il grande talento riconosciuto a David Foster Wallace, consacrato ancora prima della sua morte: la sua opera procede, fragilissima, lungo il filo sottile che separa il virtuosismo della parola e il dolore della realtà, il bisogno ineludibile di afferrare quest’ultima, e penetrarne coscienziosamente l’ordito. Se i suoi racconti si muovono sui temi cardine dell’inettitudine e della menzogna, questi saggi sapranno stupire per la lucidità di ogni passaggio, per il coraggio di guardare all'esistenza senza schermarla, per il desiderio insopprimibile di continuare a camminarvi dentro, nonostante tutto -