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Maurizio Gramegna, "Caduti in volo": una seconda lettura

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Maurizio Gramegna
Caduti in volo
Puntoacapo editrice, Novi Ligure, 2009.

Se è vero, come afferma Cristina Campo, che la scrittura è una forma estrema d’attenzione, bisognerebbe innanzitutto domandarsi a che cosa sia più attento l’autore di cui ci occupiamo; quando fa poesia, ma soprattutto quando narra, poiché l’operazione narrativa favorisce nel lettore una speciale distensione d’animo, grazie alla quale proprio l’attenzione può rivelarsi al meglio. Nel caso di Maurizio Gramegna, inoltre, ci troviamo di fronte ad una prosa particolarmente limpida ed armoniosa, cosicché non risulta difficile comprendere a che cosa lo scrittore rivolga in primis lo sguardo. Al tempo, prima di tutto. Quello di Gramegna sarebbe il tempo rallentato delle stagioni, della terra, del tenace lavoro umano, se la brutale concitazione degli eventi storici non intervenisse a bruciarne innaturalmente le tappe. Sullo scenario dell’Oltrepo Pavese, durante gli ultimi tragici mesi di guerra, si gioca il destino di Tino e Carlo: due ventenni unitisi alla lotta partigiana dapprima quasi loro malgrado, poi forti di una matura coscienza civile, che li porterà ad affrontare con dignità il martirio. E’ dunque un tempo violato, quello della campagna offesa da una guerra fratricida ancora difficile, a distanza di oltre sei decenni, da cancellare; ma è anche un tempo rituale, ri-sacralizzato da luoghi di forte impatto emotivo e simbolico - la casa dei genitori di Tino, la cascina dell’amico Giuseppe, il Torretto, il pozzo, alcuni particolari scorci di paesaggio collinare. La sensibilità di Gramegna è molto vicina a quella di Cesare Pavese, con una coscienza quasi mitopoietica dei luoghi primigenî, ai quali fatalmente si torna: non è certamente un caso se in alcune fra le scene più belle del romanzo i protagonisti, che sono anche amici d’infanzia, evocano direttamente o indirettamente il mondo arcaico della fanciullezza. Per altri aspetti appare viva in Gramegna la memoria letteraria di autori come Giovanni Verga ed Elsa Morante. L’assenza di retorica, la nettezza del dettato e l’agilità della narrazione sono qui rese possibili dal ruolo neutrale della terza persona: un narratore invisibile, equidistante ancor più che onnisciente, capace di mimetizzarsi in tempo reale nel punto di vista di tutti i personaggi senza mai emettere giudizi definitivi, se non su ciò che l’autore vede come il male assoluto - la guerra. Un narratore capace di soffermarsi sui volti umani e sul paesaggio con una sobrietà e una perizia che rimandano alla maestria di certi indimenticabili ritratti manzoniani. Pochi tocchi - la treccia a cipolla di Rina, il contegno dignitoso ed asciutto di Giuseppe - e un personaggio appena abbozzato ritorna, discreto e silenzioso, in un altro punto della narrazione, accompagnato dall’aura di serietà e decoro che l’autore ha saputo conferirgli. Un narratore neutro, ma niente affatto anodino; capace di non cedere a sbavature neppure di fronte al conflitto insolubile, all’inconciliabilità tragica degli opposti. Come nella vicenda di Agnese, sorella di Tino, incapace di accettare il destino del fratello perché scissa da tensioni contrastanti, e quindi, proprio come i protagonisti della tragedia attica, destinata a non trovare salvezza. Non è un banale lieto fine, non è un euripideo deus ex machina la conclusione, per quanto coincida con la cessazione delle ostilità. Nella scelta di lasciare i fatti così come sono, senza mediare né edulcorare, l’autore percorre la difficile via di una ricerca non dogmatica di senso, che può darsi soltanto nell’aiuto reciproco fra individualità martoriate, alle quali la pace ritrovata non darà mai risposta alla domanda più lacerante ed essenziale: perché? Proprio a questo sostegno, che riesce a non venir meno neppure nei momenti di maggior crudeltà degli eventi, è affidato il compito di preservare la dignità di uno sguardo solidale, una social catena, direbbe Giacomo Leopardi. Negli interstizi di questa difficile solidarietà a tratti sepolta, ma mai del tutto soffocata, si annida il vero compito della scrittura: più che conservare la memoria, farsi essa stessa memoria viva, tensione al bene che fa della morte materia inestinguibile di poesia.

Alessandra Paganardi


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