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Un canzoniere d'amore per il XXI secolo

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Ballammo un’estate soltanto
di Renzo di Renzo
Amos Edizioni, Mestre 2009

pp. 105
con disegni di Isotta Dardilli
€ 12,00

Varie sono le reazioni alla velocità degli anni Duemila e allo sgretolamento totale delle linee poetiche. Renzo di Renzo, già autore di poesie, sceglie una via personale e innovativa, ovvero un canzoniere amoroso di poesie rarefatte.
Su fogli bianchissimi e pergamenacei non hanno esitazioni né i distici né le singole quartine che, spesso monofrasali, campeggiano con le loro lettere nere. Il poeta non teme neanche di frantumare i versi in brevi sintagmi, semplici per il lessico, ma accostati in modo del tutto personale, per dare risalto al valore semantico, senza dubbio potente:

Quante volte ti ho vista
salire su un treno in corsa
e senza biglietto.

Volevo essere allora
il controllore distratto,
che ti chiede il sorriso
e ti oblitera un braccio.

(p. 45)

Questa poesia, giocata sulla trasfigurazione di un evento abituale in qualcosa di superiore, offre una serie di riflessioni sui caratteri dominanti della raccolta. Innanzitutto, è frequente (quasi costante) la presenza della donna, dedicataria del canzoniere. La sua identità resta celata, perché, d’altra parte «Non hai volto né nome,/ né respiri o parole:/ sei soltanto quei gesti,/ e la mano che li muove» (p. 40).
Pertanto non contano i contorni, i lineamenti, ma ciò che rende l’amata riconoscibile nella folla. La donna si muove in una dimensione indefinita, per quanto quotidiana e realistica: polverizza l’importanza delle notazioni cronologiche e spaziali, le annulla in sé e nel proprio sentimento:

Dove? – lontano
Quando? – prima o poi
Per non doverci dire
in nessun luogo,
mai…

(p. 34)

E dunque la poesia si popola di immagini, di gesti, di movimenti, più che di aggettivi connotanti o di notazioni descrittive. L’amata, dall’identità inafferrabile, resta terrena, ancorata alle asperità del suolo e all’imperfezione connaturata all’uomo, per cui il suo nome «non l’hanno scritto i poeti,/ ma un dio figurante/ che sbaglia i miracoli» (p. 28). Non avrebbe senso, con quanto detto, citare il nome di questa donna, perché Renzo di Renzo sembra suggerire che la sua storia è plasmabile su altre storie, ma anche riducibile al nulla; un po’ come in questa breve ma efficace quartina:

Ho scritto i nostri nomi
nel posto in cui ci incontravamo:
“qui non vissero,
non morirono…”

(p. 30)

Si noti come domina l’uso del passato prossimo, combinato con l’imperfetto, per poi passare alla definitezza del passato remoto, negato da una doppia negazione e dal parallelismo, di sicuro impatto.
Un canzoniere privatissimo, dunque, fatto di immagini strappate alla memoria, ma disordinatamente, secondo l’itinerario del cuore, e non quello della ragione. Così le tre sezioni che compongono la raccolta – Balli di gruppo – Passo a due – Assolo – segnano il progressivo ripiegamento in se stesso, senza però escludere la donna. Aumenta, semplicemente, la coscienza di sé e del proprio sentimento. Ma anche dell’effimero che regge ogni vita, destinata a finire nell’oblio, senza quasi lasciare traccia né cambiare l’itinerario del mondo:

No, io non credo
che i nostri nomi rimarranno
incisi in un muro,
nella ferita di un ramo.

Piuttosto saremo noi a portare
di quel muro un segno,
saremo noi di quel ramo
a ricordare l’incavo.

(p. 74)

Non resta che domandarsi quanto il ballo sia metafora sentimentale e quanto invece rimandi all’esistenza stessa: per questo, spero di poter domandare all’autore stesso, prossimamente, per la nostra sezione “Il Salotto”. Senz’altri indugi, mi sembra di aver proposto sufficienti indizi per svelare il valore di questo canzoniere, in grado di lasciare con gli occhi lunghi oltre l’orizzonte, ad ascoltare la voce di chi vorremmo affianco.

GMG