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Simenon mon amour

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Il piccolo libraio di Archangelsk
Georges Simenon
Adelphi, 2007

Qualsiasi tipo di preposizione semplice (ad eccezion forse - ma solo per motivi meramente ortografico/logici - della comparativistica fra) andrebbe bene accostata al nome di Georges Simenon; litri di inchiostro sono stati sprecati per tessere le sue lodi, chilometri di pellicola utilizzata per imprimere sugli schermi cinematografici ciò che di immaginifico era già stato elegantemente riversato sulla carta stampata.
Georges Simenon non è un grande scrittore (la mia ossessione per la vibrante attualità della pagina scritta, sia essa contemporanea o risalente all’Antico Egitto, mi impedisce di parlarne usando l’imperfetto). Se fosse diventato semplicemente un bravo scrittore sarebbe andato perduto il più grande tra i suoi pregi da autore: una fucina infinita di creatività.
Simenon è stato soprattutto inventore, creatore di spazi e tempi paralleli a noi eppure notevolmente distaccati dalla decadenza moderna; ha letteralmente (mai avverbio fu più corretto, mi si perdoni la modestia...) generato dei demoni propositivi volti alla conservazione non solo di generi narrativi ben precisi, ma soprattutto dei mondi conseguenti alle sue scoperte, che per anni e anni si sono protratti mantenendo un candore quasi fastidioso nella sua perfezione.
Simenon fa parte di quella breve schiera di autori che riescono a collegare, in maniera istintiva e virtuale, l’universo del lettore a quello del paesaggio in cui vengono collocati personaggi e storie. Non è un caso che nella lettura di un romanzo quale “Il piccolo libraio di Archangelsk” non si possa fare a meno di odorare la campagna francese alla fine di ogni frase.
I termini noir, giallo e via di seguito discorrendo non rappresentano che distinzioni di comodo grazie alle quali però lungo un arco di molti anni Simenon ha trovato fortuna e, chissà, stimolo per la creazione di nuovi drammi egoisticamente sociali. La trama del romanzo è un pretesto che consente a noi lettori di entrare ancora una volta all’interno di un corpus di situazioni spaziali (ma soprattutto sensoriali e narrative) e di sancire ancora una volta la grandezza di Georges Simenon, divo dei nostri tempi; il signor Jonas, a cui nessuno tra gli abitanti di place du Vieux-Marché vuole dare del tu, è sintesi perfetta di un meccanismo contraddittorio che lega la trama alla lettura del romanzo. Ci si chiede come si possa provare dell’empatia verso un uomo che agisce esclusivamente recando danno a sé stesso, tornando in un paesino che maltollera, sposando una femme fatale italiana che lo tradisce pubblicamente, omettendo la verità a favore di bugie di comodo e assolutamente controproducenti. Eppure la nostra è una domanda superflua, da lettori della domenica.
Non importa; non è l’empatia che conta, ma la serenità. Senza la serenità, purtroppo, anche i gesti più estremi sono inutili. E i personaggi dei libri di Simenon, monsieur Jonas in testa, camminano lentamente cercando una verità reperibile esclusivamente nel silenzio e nella riflessione. Simenon ne “Il piccolo libraio di Archangelsk” canta di un uomo che ancora riesce ad arrossire pensando alla sua donna, nonostante stia per commettere qualcosa di assolutamente terribile nei confronti di sé stesso. Sta qua la magia, o per meglio dire la totale invisibilità di essa tesa a produrre note sotto forma di parole.


Giuseppe Paternò Raddusa