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Quella lieve sfocatura tra fatti e parole

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Charles Dickens
Grandi Speranze

Einaudi

traduzione di
Maria Luisa Giartosio De Courten

516 pp. ca
11,80 €



Semplicemente stupendo. Questo un primo commento a margine di una lettura durata un mesetto. Opera della piena maturità del grande scrittore inglese, "Grandi speranze" (*) è un tessuto narrativo non troppo elaborato che non mette in imbarazzo alcun tipo di lettore con il suo linguaggio fluido e scorrevole, fortemente icastico e pittoresco nella descrizione del sottofondo borghese dell'Inghilterra sua contemporanea. La narrazione in prima persona stabilisce un rapporto intimo con il lettore e con un saggio uso dello sweller(**) narrativo non si gode del beneficio (o maleficio) della stasi per più di qualche pagina. La tensione, infatti, cresce e decresce disegnando iperboli alle quali il lettore non può fare a meno di appassionarsi, oggi come in passato quando il romanzo fu pubblicato a puntate settimanali su un noto quotidiano alla stregua dei Feuilletons francesi. E la cucitura implicita di ogni puntata era appunto questo momento di tensione, una punta di suspence che si veniva a risolvere nell'episodio successivo (***), insieme alla ripresa più o meno rilevante di qualche dettaglio all'apparenza insignificante. Così si manteneva e si mantiene sempre vivo l'interesse del pubblico nei confronti dell'opera. Ma l'intento di Dickens non era conformarsi a quella che poteva rappresentare una semplice operazione commerciale, come nei primi romanzi borghesi era d'uopo (si pensi ad una celebre e colorita espressione di Swift: "Prostitute writers"), ma aveva come suo fine il raggiungere il cuore e non il portafoglio del proprio pubblico. E continuando in ogni caso la tradizione del romanzo da un semplice punto di vista formale, adottando schemi e formae mentis aderenti (o quasi) ai canoni non scritti del "novel". Accetta ed accoglie così in pieno la sintesi di realismo formale e di valutazione(cfr. Fielding) che a vantaggio di una più pulita corrispondenza verba-res aborrisce l'eleganza classicheggiante e la rindondanza delle figure retoriche, ma collocando il tutto in delle precise coordinate sociali coadiuvate da un linguaggio naturale e spontaneo. Qui la semplicità (forse apparente) dei libri di Dickens e la loro facile collocazione su qualsiasi tavola culturale, anche la più spoglia. Ma l'immagine fornita da questo maestro del romanzo è ben lungi dal fotografare sic et simpliciter la Londra del suo secolo e non è scevra di quella sfocatura, quel flou letterario che impreziosisce le parole e le rende inconfondibilmente dickensiane. Ed ecco l'ironia, il pathos, la non specificazione di dettagli spazio-temporali definiti e definibili, la chiara non plausibilità della trama, ma la sua remota possibilità d'essere che contribuiscono a creare una storia sì inventata e non troppo verosimile ma imperniata nel reale contesto socioculturale del periodo industriale inglese. Non sono quindi i personaggi principali a rivestire quel ruolo di collegamento al reale, ma quelli secondari tra i quali si muovono, ricreando in un ambiente vicino al lettore l'elemento esotico e quindi interessante di personaggi inventati di sana pianta. La prima frase pronunciata da Pip, il protagonista, è chiarificatrice di ogni ambizione letteraria dell'opera: "Il mio cognome era Pirrip, il mio nome Philip - il mio linguaggio infantile non seppe foggiare con i due nomi nulla di più lungo o più chiaro di Pip. Così presi a chiamarmi Pip, e il nome mi rimase." Ecco il primo personaggio che fa del suo nome un destino, costituendo l'equazione Nomen=Omen. Perché Pip, appunto, nel British English testimoniato dall'Oxford Dictionary, sta per seme, di mela o simili. E un seme non ha in sé una grande speranza? Quella di crescere? Ecco le Grandi Speranze di Pip, il cui destino mette in mano una fortuna data da un anonimo benefattore, crescere e diventare un signore, cosa che si rivelerà essere finalizzata all'amore di Estella, incantevole e distante come un astro (è quello che poi significa il suo nome) nel firmamento. La signorina Havisham, ritenuta essere la benefattrice di cui appena detto, deriva dall'abile fusione dei termini "Having a sham", ovvero illudere, far sembrare le cose migliori di come stanno effettivamente. Però con questa mia affermazione non si voglia paragonare questi personaggi alle tipiche macchiette della commedia dell'Arte o alla precedente commedia nuova di Menandro, Plauto e Terenzio. Infatti nel nome non è contenuto il tipo della persona, ma il carattere, quel particolare che procede all'individuazione ante litteram, alla distinzione dei vari personaggi. Non quindi stereotipi, desunti dalla classicità ma caratteri e caratteristiche del moderno. E leggere quindi, a margine del puro scopo di divertimento del genere, la semplificazione del nome di Pip come allegoria dell'intero romanzo è , a mio parere la giusta chiave interpretativa: le parole (i nomi come il romanzo) uguale esemplificazione della realtà, resesi più facilmente comprensibili della realtà stessa.

Adriano Morea

p.s.: Scusatemi la lunga assenza, ma ho preparato un paio di esami all'università e ... questa recensione è il frutto di quello di Letteratura Inglese che sosterrò domani!


Note:

(*) Traduzione tradizionale italiana per "Great Expectations", anche se a mio parere "Grandi aspettative" avrebbe restituito il senso più concreto e meno romantico delle speranze, appunto, del protagonista.

(**) Una rotellina degli organi a canne francesi che permette di aggiungere i registri ad uno ad uno,aumentando gradualmente la forza e l'espressività del suono.

(***) A sostegno di questa tesi c'è da aggiungere che il finale del libro è abbastanza "deludente" per il lettore, poiché non risolve pienamente la vicenda ma lascia intravedere il suo lieto fine concludendosi come nei romanzi di Defoe, inclusivamente. Ciò è dettato anche dalle necessità a cui doveva sopperire il novel in epoca ottocentesca, diversamente dalla paideuticità dei finali in Richardson (cfr.: Pamela e Clarissa).