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"Misteriosi e lunatici sogni": ricordi di un dislessico d'eccezione

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La mia dislessia. Ricordi di un premio Pulitzer che non sapeva né leggere né scrivere
(My Dyslexia)
di Philip Schultz

Donzelli, 2016

traduzione di Paola Splendore

pp. 110  
€ 17,50



Sin dal titolo, conciso e forse poco attraente (nell’originale inglese manca il sottotitolo esplicativo), questo breve volume tradisce l'impulso testimoniale del suo autore: non dunque saggio, ma diario, autobiografia, poema epico di una crescita che coinvolge un singolo individuo e che però può diventare, al contempo, storia di tutti, avventura in cui chiunque può ritrovarsi. Schultz, premio Pulitzer per la poesia nel 2008, è onesto, diretto, conciso. Non indulge in facili sentimentalismi ed evita i giri di parole: il suo fraseggiare è teso, funzionale a descrivere in termini taglienti e precisi la sofferenza di chi per anni si è sentito inadeguato e incompreso. In un racconto che non segue un ordine cronologico, ma asseconda il libero fluire della memoria, l'autore si espone senza vergogna, svela il proprio bisogno di conoscersi e farsi conoscere.

Il suo linguaggio è schietto e colloquiale, anche se a tratti la sintassi assume l'andamento franto ed evocativo proprio della poesia, che rimane pur sempre la forma espressiva che gli è più familiare. Frammentari sono del resto il pensiero e la parola per il dislessico, che di fronte agli inconvenienti quotidiani viene colto dalla paralisi e deve lottare per restare presente a se stesso.


Il memoir racconta da un punto di vista privato e del tutto personale non solo cosa significhi essere dislessico, ma anche cosa significasse esserlo negli anni '50, quando i disturbi dell'apprendimento non erano ancora conosciuti e sui bambini che ne erano affetti pesavano il pregiudizio e il biasimo sociale: 
la dislessia suscita disprezzo e repulsione persino in chi ne soffre. Tempio di inefficienza, incapacità e ostinata schiavitù, è una sindrome fatta di continue scuse e spiegazioni (...). A dispetto della scienza e della tecnologia contemporanea, ogni dislessico deve inventarsi la propria 'strategia di sopravvivenza'. (...) La dislessia non è altro che non-conformismo, l'essenza stessa della diversità. La dislessia è una disabilità che invoca scusa e comprensione, che crea una sua logica alternativa, un mondo a se stante. (46,47) 
Il solo modo per uscirne è porsi un obiettivo e combattere con feroce determinazione, anche quando l'ambiente è ostile e il successo improbabile: "avendo molto da dimostrare, mi sentivo motivato, testardo, determinato, e forse anche un po' pazzo: solo un pazzo poteva aspettarsi tanto da così poco, ignorando la svantaggio di partenza per buttarsi a capo fitto nelle cose" (65). Quando Schultz dichiara, ancora giovanissimo, di voler fare lo scrittore da grande, il suo insegnante di sostegno viene colto da un accesso convulso di risa: per uno studente indisciplinato e disattento, che riesce a malapena a leggere e che già una volta è stato cacciato dalle scuole elementari, una simile ambizione pare utopia insensata. Eppure il piccolo Philip ci crede, e la sua fede diventa la chiave della realizzazione: da solo, quasi per un senso di rivalsa, inizia a leggere e stupisce tutti, compreso se stesso.
"Ma stai leggendo, Philip. Come se l'avessi sempre saputo fare".
Sì, pensai, come se l'avessi sempre saputo fare.
E se sai leggere sai anche scrivere, pensai dentro di me.
Era così facile. (30)
Non è facile, in verità, perché la dislessia è un fenomeno che invade l'esistenza, che contagia la mente, che fuoriesce dalle aule scolastiche e risulta difficile da circoscrivere. Diventa difficile comprendere dove finisce la dislessia e dove comincia l'ansia che della dislessia è fedele compagna: ansia di soddisfare le aspettative altrui, ansia di dimostrarsi all'altezza, ansia da prestazione di fronte a tutto ciò che sfugge al controllo. Quella che il dislessico affronta ogni giorno è una lotta feroce, finalizzata in primo luogo ad acquisire fiducia in se stesso e nella propria capacità di apprendimento:
L'immagine che si ha di sé è una cosa molto fragile e privata. Al livello più intimo, quello dell'autostima, ogni dislessico ha una storia di autodenigrazione e di rimpianto che con il passare del tempo può essere affrontata e capita, ma che non si può cancellare. L'immagine di me come cretino è intrecciata al mio essere a livello neurologico, fonologico, linguistico. (70)
L'importanza di dare un nome alle cose risiede in questo caso non solo nella possibilità di prendere possesso del mondo circostante, ma anche di comprendere fenomeni psichici e interiori altrimenti oscuri e inspiegabili. Insieme al concetto di dislessia, irrompe nella vita di Schultz ormai cinquantottenne anche l'occasione di rileggere retrospettivamente la propria storia e dare un senso a eventi e sentimenti prima non pienamente intesi e pertanto fonte di intimo malessere. La consapevolezza può diventare allora forza; l'autore finalmente realizza e rivendica il ruolo della dislessia nel proprio percorso di crescita: senza la sensibilità determinata da un lungo lottare, forse Philip Schultz non sarebbe oggi poeta, insegnante, scrittore. La conclusione inaspettata è allora proprio questa: non esiste grande differenza tra poesia e dislessia. Entrambe rappresentano un filtro percettivo, una diversa modalità di accedere al reale. Per Philip Schultz la scrittura non è che un modo per affrontare le proprie difficoltà, per sconfiggere il male attraversandolo, un rimedio omeopatico in grado di condizionare il presente e riconciliarsi con la memoria del passato. Un modo, dopotutto, per scoprire una volta per tutte la bellezza di quel che si è:
Noi siamo le storie che raccontiamo, le cose che creiamo e inventiamo, siamo qualcosa di più delle risposte che diamo alle domande, qualcosa di più perfino dei nostri limiti: siamo i misteriosi e lunatici sogni che in qualche modo troviamo il coraggio di fare e, a volte, di raccontare agli altri. (103)
Carolina Pernigo