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Domani nella battaglia pensa a me, e cada la tua spada senza filo

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Domani nella battaglia pensa a me
di Javier Marìas

Einaudi, 2005 (1994)


Marìas è unanimemente considerato una delle voci più interessanti della narrativa spagnola contemporanea. Domani nella battaglia pensa a me (Mañana en la batalla piensa en mí) è il suo romanzo più noto in Italia, e va a chiudere un'ideale trilogia della passione amorosa iniziata con Tutte le anime e Un cuore così bianco, tanto che i tre romanzi sono disponibili in un'edizione complessiva di Einaudi sotto il titolo Trilogia sentimentale (anche se, si badi, Marìas non ha mai confermato un vero e proprio legame tra i romanzi: ma si sa, i modi della ricezione di un'opera letteraria spesso scavalcano i desideri di chi l'ha scritta). Le storie narrate sono diverse, ma hanno tutte una comune tessitura di motivi e influenze mediatico-letterarie. Tra gli aspetti più evidenti - e studiati - della narrativa di Marìas, infatti, c'è prima di tutto la fortissima eredità shakespeariana, ma anche una passione, altrettanto  intensa, per la storia del cinema. 

In Domani nella battaglia pensa a me, queste due componenti agiscono sia a livello narrativo che, più sottilmente, linguistico. Nella ricorsività di allusioni e simboli, è il narratore Victor a riconoscere la chiave delle esperienze che sta raccontando; insieme a lui, tutti i personaggi che nel romanzo agiscono, parlano e si confessano sono in uno stato che, a suo dire, si può descrivere soltanto con una parola rubata alla lingua inglese, haunted:
C'è un verbo inglese, to haunt, c'è un verbo francese, hanter, molto imparentati e piuttosto intraducibili, che denotano ciò che i fantasmi fanno con i luoghi e con le persone che frequentano o spiano o rivisitano; inoltre, secondo il contesto, il primo può significare incantare, nel senso feerico della parola, nel senso di incantamento, l'etimologia è incerta, ma a quel che sembra entrambi provengono da altri verbi dell'anglosassone e del francese antico che significavano dimorare, abitare, sistemarsi permanentemente (i dizionari sono sempre divertenti, come le carte geografiche). Forse il legame poteva limitarsi a questo, a una specie di incantamento o haunting, che a ben vedere non è altro che la condanna del ricordo, del fatto che gli eventi e le persone ritornino e appaiano indefinitamente e non cessino del tutto né passino del tutto né ci abbandonino mai del tutto, e a partire da un certo momento dimorino o abitino nella nostra testa, da svegli o in sogno, si stabiliscano lì in mancanza di luoghi più confortevoli, dibattendosi contro la propria dissoluzione e volendo incarnarsi nell'unica cosa che rimane loro per conservare il vigore e la frequentazione, la ripetizione o il riverbero infinito di ciò che una volta fecero o di ciò che ebbe luogo un giorno: infinito, ma ogni volta più stanco e tenue. Io mi ero trasformato in quel filo.
Il nucleo shakespeariano del romanzo di Marìas è proprio in questa condizione fantasmatica, in cui chi vive è infestato dal ricordo di chi è morto, e lo spettro di ciò che è stato dimora nel corpo di chi continua ad essere in forma d'odore, come il germe di un dramma che tarda a esplodere, di pagina in pagina, sommerso da monologhi, soliloqui, flussi di coscienza, flashback, fredde istantanee nel buio (a campo lungo). Lo Shakespeare di Marìas è anch'esso, a suo modo, uno spettro, che appare in citazioni - a volte consapevolmente falsate - quali per esempio il titolo, che è uno stupendo richiamo dal Richard III:
Tomorrow in the battle think on me,
And fall thy edgeless sword. Despair, and die!
«Domani nella battaglia pensa a me / e cada la tua spada senza filo. Dispera e muori!» è, nell'originale di Shakespeare, l'anatema lanciato dallo spettro di una madre; in Marìas è la maledizione, mai pronunciata davvero eppure palpabilissima, di un'amante (una quasi-amante, come in fondo, direbbe Freud, tutte le madri). Le prime pagine, infatti, si aprono con un rendez-vous adulterino tra una donna, Marta, e l'uomo che ha appena conosciuto, che è la voce narrante; nel giro di poche pagine, per un malore la donna muore tra le sue braccia, prima che si sia potuto compiere l'atto sessuale. 

Marta è per tutto il romanzo il grande spettro di ciò che avrebbe potuto essere e non è stato, è Marta-morta, nome allusivo e allitterante come in un altro bel romanzo del secondo Novecento, Diceria dell'untore. Anche Victor, il narratore, è a suo modo un fantasma (come l'Io di Diceria, che è un untore tanto quanto i morti di cui si circonda), un fantasma-voyeur che spia le prostitute nella pioggia, appiattito contro una parete, che entra di soppiatto nella casa della sua ex moglie e le appare nel sonno illuminato da un lampo. Anche qui,  come nella Diceria, si realizza il tema (risolutivo nella climax drammatica) dell'affabulazione-confessione come viatico per attraversare la vita-in-morte: per imparare a convivere in un corpo dimorato dai fantasmi.
Ho raccontato. E raccontando non ho provato la sensazione di uscire dal mio incantamento da cui non sono ancora uscito e forse non uscirò mai, rei di cominciare a mescolarlo con un altro meno tenace e più benevolo. Colui che racconta di solito sa spiegare bene le cose e si sa spiegare, raccontare è come convincere o farsi capire o far vedere e così tutto può essere compreso, anche le cose più infami; tutto perdonato quando c'è qualcosa da perdonare, tutto tralasciato assimilato e anche compatito, questo è avvenuto e bisogna conviverci quando sappiamo che è stato, trovargli un posto nella nostra coscienza e nella nostra memoria che non ci impedisca di continuare a vivere perché è accaduto e perché lo sappiamo. L'accaduto è perciò sempre molto meno grave dei timori e delle ipotesi, delle congetture e delle supposizioni e dei brutti sogni, che la realtà non introduciamo nella nostra conoscenza ma che mettiamo da parte dopo averli sofferti o dopo averli considerati momentaneamente e perciò continuano a suscitare orrore a differenza degli eventi, che diventano più lievi per la loro stessa natura, cioè, appunto perché sono dei fatti: dato che ciò è successo e lo so ed è irreversibile, ci diciamo rispetto a quelli, devo spiegarmelo e farlo mio o fare sì che me lo spieghi qualcuno, e la cosa migliore sarebbe che me lo raccontasse esattamente chi si è incaricato di farlo, perché è lui che sa. Ma se si racconta si può perfino entrare nelle grazie, questo è il pericolo. La forza della rappresentazione, immagino: per questo ci sono accusati, per questo ci sono nemici che si assassinano o si giustiziano o si linciano senza lasciarli dire una sola parola - per questo ci sono amici che si mandano in esilio e si dice: «Non ti conosco», o non si risponde alle loro lettere -, affinché non si spieghino e possano all'improvviso entrare nelle grazie, quando parlano mi calunniano ed è meglio che non parlino, anche se nel tacere non mi difendono.
Nota bibliografica: se desiderate approfondire le influenze di Shakespeare nella narrativa di Marìas, è disponibile online la tesi di laurea di Sandra Carofiglio, Mañana en la batalla piensa en mí, quando fui mortal, y caiga herrumbrosa tu lanza. Shakespeare come elemento unificatore di tre romanzi di Javier Marìas, discussa nel 2005 presso l'Università degli studi di Trieste.